SANTUARIO
INAGIBILE
PER GROSSA FRANA
NON ANCORA BONIFICATA
DA MARZO 2013
SANTUARIO
INAGIBILE
PER GROSSA FRANA
NON ANCORA BONIFICATA
Dal XVII secolo, la tradizionale scampagnata del Lunedì dell’Angelo al Santuario rupestre intitolato alla Madonna delle Virtù è stata abituale a molte generazioni di Ventimigliesi, con la partecipazione ad una delle tante messe celebrate nella grotta di Siestro e l'adesione al festino popolare che si teneva nelle fasce attorno alla chiesetta. Negli anni Sessanta del Novecento, un profondo cambiamento nella struttura sociale della città provocò il diradamento di questa consuetudine, giungendo fino quasi all’abbandono, a causa dei nuovi usi e costumi, dettati dal moderno modo di vivere. A metà degli anni Settanta, le Rezerie dei Sestieri cittadini e la Cumpagnia hanno, lentamente ma ostinatamente, ripreso la tradizione, anche se la partecipazione è limitata soltanto alla mattinata. Per l’occasione, alcune massaie di Siestro, dei Martinazzi o delle Bandette preparano le tipiche ghiottonerie locali che offrono alla cittadinanza intervenuta. Dopo aver assistito al rito, che prevede possibilmente l’Omelia in dialetto, ci si raduna sul capace sagrato per brindare e festeggiare in assoluta serenità, fino l’ora di pranzo, quando la maggior parte dei presenti riprende la strada di casa, mentre un sempre crescente manipolo di caparbi tira fuori le vivande dal sacco e prosegue il raduno, tempo meteorologico permettendo.
Il Santuario è stato costruito in più fasi, a cingere una barma che fin dalla più profonda antichità è stata segno dell'importante bivio di raccordo sulla viabilità di crinale, che oggi chiamiamo "Alta Via dei Monti Liguri". Al di là dell'aspetto meramente religioso, sono molti i Ventimigliesi che ottemperano al rito della Pascheta ae Vertü, percorrendo la mulattiera di Siestro, rigorosamente a piedi, anche se da qualche decennio è presente via mons. Nicolò Peitavino, l'appesa carrozzabile dalle Gianchette. Con questa sentita ritualità, si rifanno alle modalità dei trasferimenti d'un tempo, durato oltre tre millenni, quando le strade di crinale erano privilegiate nei percorsi intervallivi. Certi punti strategici, definibili segnaletici, dal paesaggio particolarmente accattivante, acquisivano nel tempo una sacralità atavica, spontanea, che entrava profondamente nella spiritualità delle generazioni susseguenti.
Nel mese di febbraio 1665 il Biamonti diede inizio ai lavori, assumendo due apprendisti di costruzione; a fine settimana incassava parte del dovuto. Don Sapia si recò due volte in visita di controllo e si dichiarò «insoddisfatto del procedere e ne sollecitò l’attività».
Il Biamonti diradò le giornate di lavoro, adducendo pretesti: giorni di pioggia, mancanza di calce e sopraggiunta indisposizione degli operai.
Il Sapia comprese che era necessaria una forte sollecitazione dall’alto poiché correva pericolo che mai le cappelle fossero ultimate. Il 12 aprile chiede al vescovo Promontorio un decreto di ingiunzione e di castigo. Le cappelle mancavano di copertura e l’intonaco risultava di poca consistenza. Così scrisse al Vescovo: «... Più di una volta richiesto non cura di compire e finire le cappelle conforme a quanto resta obbligato, per ciò chiedo sia compellito (costretto) da Sua Ecc. sotto pena di interdetto che fra 15 giorni prossimi venturi debba aver ridotto a perfezione detti misteri, altrimenti incorrerà nelle pene comminate che piacerà a Sua Ecc. e che sia dichiarato colpevole e astretto (costretto) a perficere (terminare) le mancanze a spese di detto Maestro Bartolomeo».
Il vescovo Promontorio nominò due inquisitori e li inviò alle Virtù. Il giorno 15 aprile 1666 sentenziò: «visti i fatti e le relazioni ordiniamo al Bartolomeo di portare a termine i lavori nel periodo di 15 giorni e che debba operare alla perfezione i Misteri nella maniera richiesta sotto pena di interdetto di entrare in Chiesa».
La minacciata sanzione costrinse il muratore a portare a termine e a perfezionare i costrutti, che il 2 giugno vennero, con parole «lodevoli e sincere riconosciute atte e conformi».
Sono trascorsi 334 anni ed è naturale chiedersi se nel loro interno i Misteri siano stati indicati con pittura su tela o in affresco. Il tempo, le intemperie, gli avvenimenti bellici arrecarono, in tanto periodo, segni di distruzione quasi totale. Furono necessari vari interventi. Nell’anno 1925 il Prevosto Gamaleri iniziò la ricostruzione che terminò nel 1939 per opera di mons. Borea e nel 1977 il parroco don Broccardo pose mano a un nuovo restauro.
(da Diversorum, filza 34, fol. 197.A.V.V.). Nota storica: il canonico Peitavino, nel suo opuscolo “Il Santuario di N.S. delle Virtù» a pag. 15, data le prime cappellette l’anno 1760 e non all’anno 1660; la datazione non conforme ai documenti è da ritenersi un errore di stampa.
di Nino Allaria Olivieri
Le Cappellette di N.S. delle Virtù
L’Oratorio di N.S. delle Virtù, arroccato in Siestro, fu nei secoli passati, luogo di devozione e di frequentazione quasi quotidiana; amato dai ventimigliesi, che vi accorrevano oranti nei tempi calamitosi per la vita cittadina e conosciuto dalle popolazioni vicine, ebbe l’attenzione dei vescovi. Mons. Galbiati lo visitò due volte, ne impose una ristrutturazione a norma del Concilio Tridentino e relazionò al Metropolitano Borromeo il suo operato (1572), ricordando «la grande devozione del popolo tutto».
Il successore Spinola vi si recò due volte in visita più devozionale che amministrativa e vi ordinò celebrazioni domenicali sottoponendolo alla cura degli Agostiniani della Bastia. Nel 1600 subentrarono i canonici della cattedrale; a turno i sacerdoti aggiunti salivano all’Oratorio, ma per la buona e crescente frequentazione, veniva loro affiancato l’Eremita Maccario di Camporosso che lasciato l’eremitaggio di N.S. di Ciaixe, si portava a vivere nelle vicinanze e ne aveva la custodia. Vivrà dell’elemosina dei devoti con facoltà di elemosinare in Ventimiglia e sue pertinenze a pro dell’Oratorio. Nell’anno 1655, a seguito della morte dell’eremita, il Capitolo nominerà a «Protettore Conduttore» un sacerdote ventimigliese. Di ottima e benestante famiglia, pio e intraprendente con l’assidua sua presenza e paterne esortazioni invoglierà i ventimigliesi alla devozione verso la Madonna.
La devozione e il crescente attaccamento degli abitanti in Siestro convinsero il sacerdote a far erigere lungo l’erto cammino le edicole raffiguranti i Misteri del Santo Rosario. Le elemosine erano nulle o poche. Prese del suo denaro, cercò il maestro della pietra e diede inizio al lavoro, inconsapevole delle difficoltà che sarebbero sorte.
Don Giuseppe Maria Sapia, Conduttore dell’oratorio delle Virtù, nell’ottobre del 1654, commissionò a Bartolomeo Biamonti di San Biagio, muratore e abitante presso la piazza di San Michele, la costruzione delle Cappellette. Il Biamonti, aveva in precedenza, riattato il percorso che dalla Bastia conduceva alle Virtù «e molto fu il travaglio per renderlo percorribile dato i vari dirupi».
Accettò l’incarico e percorse per due volte il cammino. «In orazione e al Gloria Patris crocchiamo la strada» scrive il Sapia. Si sottoscrisse un compromesso sulla dimensione dell’opera e il prezzo. La pietra doveva essere del luogo, la calce delle Grimalde, le coperture di «chiappa», al costo di lire 7 per ogni cappella.
Era voce di popolo che fossero i resti mortali dei compagni del martire Secondo, della Legione Tebea, che antica tradizione indicava martirizzato a non più di un miglio a fondo Valle.
Le ricerche e il chiedere vanno oltre. Il vescovo non dichiara apertamente la sua incredulità attorno a tante dicerie. Resta in un dubbio, dubbio che giustificherà, affermando come alcuni degli interrogati affermavano essere quelle ossa e quelle teste dei corpi morti nel tempo della peste del 1522 o prima.
Nel dubbio, prudenza «Ho voluto del tutto ugualiare aspettando il suo parere, se pur mi degnerà di rispondere; al mio giudizio, almeno si dovrebbero tumulare nel cimitero con qualche honore de cerimonia sacra, ma non si farà senza avviso di VS Signoria alla quale prego da Dio ogni contento e felicità. Il vescovo di Ventimiglia».
La ricerca dovrebbe porre fine a tanto problema se curiosità d’argomento non mi avesse spinto a ricerche storiche in due faldoni di carte illeggibili, lacere, incomplete, conservati nell’Archivio Diocesano.
La fatica di interpretazione venne abbondantemente ricompensata. Sono scritti del Galbiati al nipote sacerdote, disposizioni e decretali, varie nomine e richiami al coro per i canonici, giudizi e sentenze in materia di fede e disposizioni varie sul come iniziare inquisizioni contro eretici e streghe.
Le notizie, quantunque, di grandissimo interesse, non avevano referenza alcuna attorno alla vita religiosa dello Speco delle Virtù, quando un plico di buona consistenza, dai fogli ingialliti e resi friabili per l’umidità e la continuata incuria svelarono notizie in merito ad alcuni lavori imposti dal Galbiati allo Speco. Si evince che il Galbiati più volte vi salì pellegrino penitente e volle che il prevosto delegasse un sacerdote per il culto continuato.
Non mancano frequenti ed interessanti accenni al costrutto e al contenuto nella Capella. Vari sono i richiami a che si controllino le cere, i lucernari e i vari oggetti, segni di superstizione e non di devozione.
Perché non un semplice richiamo al “quadretto” o alla tradizione che narrava del ritrovamento miracoloso o all’opera persuasiva dei frati di Sant’Agostino, legali proprietari delle terre e dello Speco ?
Per quale ragione il Galbiati nella corrispondenza con il Cardinale mai fa menzione di un quadro miracolosamente apparso innanzi allo Speco o dentro di esso, fra roveri ed erbacce, ora reso Capella ?
Le sentenze esplicative sono molteplici, ma per i critici sono ipotesi o semplici illazioni. Nulla di nuovo sopra la terra. Un giorno ricercatori illuminati potranno dire la parola definitiva ?
di Nino Allaria Olivieri
La Madonna delle Virtù - 1581
Il 14 ottobre dell’anno 1581, il vescovo Galbiati scrive al cardinale Borromeo una lunga lettera nella quale menziona il nostro Speco delle Virtù. «È questa lettera l’unica fonte ufficiale da cui si estraggono notizie di una affermata devozione popolare e di una inverosimile tradizione di strane credenze».
Le richieste del presule e i reiterati consigli richiesti dal Cardinale sono conseguenza della riforma voluta dal Concilio Tridentino.
L’anno precedente alla lettera, in un abboccamento casuale avuto in Vimercate. antica parrocchia del Galbiati, con il Borromeo in atto di visita pastorale al Decanato, il vescovo di Ventimiglia ricorda: «Le dissi che sotto un balzo o sia monte vicino alla città è una capelleta sotto il titolo Madonna delle Virtù, luoco antiquo et di grande devotione et concorso sebbene manco di quello che era 30 o 40 anni sono».
È la prima menzione dello Speco quale “Capelletta della Madonna delle Virtù” e parimenti ne viene determinata la capacità del costrutto e la sua vetustà. Relaziona anche sul tempo della massima devozione: «Vengono la quaresima molti particolari e ne offeriscono qualche voto, massimo di cera».
Che lo Speco, al pari del vicino oratorio dedicato a San Giacomo fossero entrambi meta di pellegrinaggio penitenziale ?
Nel seguito, la lettera diventa sempre più problematica e richiama ad altri interrogativi. «Ci è un altare quale nella prima visita per non essere di misura ordinai non ve si celebrasse». Interdire un altare o un’icona non fu iniziativa del vescovo, ma imposizione di riforma tridentina.
L’ingiunzione del vescovo venne deprecata dai fedeli «tanto che dovetti farlo accomodare. Mi risolsi di farvi alcuna spesa per astringere il sito e lo ridussi appresso che di forma con un cancello divisorio nel terzo della cappella in suso».
In precedenza il Galbiati aveva imposto la distruzione dell’altare in San Nicolò da Bari alla Marina e altro in Cattedrale alla ricerca delle menzionate Reliquie di San Secondino.
Scrive: «Dicendomi molti l’altare essere pieno tutto di teste et di ossa non ne feci conto più che tanto. Et ora in compagnia di un Padre di sant’Agostino, che ho procurato con i suoi superiori dovesse venire a stare in questo suo convento e con un capellano che ho dato in curia, siamo qui per visitare quelle teste a giudizio di chi le ha vista et insieme a quelle vi sono molti ossa appare segno di sangue, le ho fatte visitare da un phisico e chirurgo. Il phisico dice che quello pare sangue facendone prova con il coltello; il chirurgo è d’opinione contraria.
Lì ho fatti riporre in una cassa che anticamente è stata in questa capella; l’altre di qua e di là dell’altare dove non può andare che il celebrante».
Il Galbiati si premura di descrivere tutta l’attenzione usata nel disporre delle teste ed ossa rinvenute.
Nell’antichità, la
Via Heraclea, la strada che percorreva il tracciato di
costa sul Mar Ligure, non correva nella prossimità della riva, com’è oggi;
seguiva invece percorsi di crinale leggermente più interni, lasciando verso
il mare l’impenetrabile Lucus Bormani, la impraticabile foresta che copriva il tratto di costa da Montenero a Diano Marina. Lasciata la Turbia, in quota, superava il
Granmondo, al Cornà, per correre sempre in quota fino a Castel d’Appio, da
dove calava verso il guado, sulla riva destra del Roia, quello che nei
secoli futuri veniva
sostituito da traballanti ponti. Nell'antichità, quel guado non poteva
essere situato che nelle anse davanti a Varase, dove la Roia deposita grandi
quantità di
materiale percorribile.
Sulla riva sinistra, le varianti per riprendere quota
potevano essere
tre: la strada di Magauda-Ciaixe, quella delle Maule-Collasgarba, mentre la più
immediata alla foce, si inerpicava su Siestro, seguendo per sommi capi l’attuale
mulattiera che porta al Santuario di Nostra Signora delle Virtù, superando
gli invalicabili strapiombi che sovrastano le Gianchette e l'attuale
Camposanto.
Nel 109 a.C., nominato censore, Marco Emilio Scauro
rigenerava nei materiali e nella percorribilità, la strada romana, per
sostituire definitivamente l’antico percorso della Via Heraclea, con una strada che transitava sul
litorale per giungere fino all’Alpis Summa, e per lui verrà detta appunto
“Aemilia Scauri”. Ma la viabilità di crinale verso Siestro, le Maule e
Seborrino, per guadagnare la riva ed il guado attraverso il Nervia, continuerà ad
essere efficiente almeno fino al 1852, quando venne eretto il ponte stradale,
a monte della zona umida di foce, proprio per attraversare il Nervia.
La grotta che oggi ospita il Santuario di Nostra Signora
delle Virtù è stata nel tempo un baluardo per l’indicazione dell’importante
trivio che si dipana ai suoi piedi. La mulattiera che si inerpica su Sietro,
il braccio di Levante, che portava al Passo della Pia e ai Martinassi, oggi
inagibile perché privatizzato; il braccio di Tramontana che conduce a Monte
Baraccone e Monte Fontane. Dell’antichità fino all’Alto Medioevo, la grotta
è stata ricetto di are votive pagane, forse dedicate ad
Heracle, vista la
conservazione al culto di
San Cristoforo, prima, e di
San Romano, nel
medesimo sito, che dall'XV secolo si trasferì in quello per San Giacomo,
protettore dei viandanti che transitavano sul crinale delle Mauře,
sul quel braccio del Cammino per Compostela attivatosi dopo il ritrovamento
del corpo dell'apostolo, nell'anno 840.
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Queste le intuizioni protostoriche, ma percorriamo
invece le date accertate:
Nel 1520, in uno speco del colle di Siestro, dove i
Frati agostiniani avevano posto un ritratto, su legno, veniva eretta una
cappella dedicata alla Vergine delle Virtù.
Nel 1573, il vescovo Francesco Galbiati da Pontremoli ristrutturava
la chiesuola di Madonna delle Virtù, secondo le norme del Concilio di
Trento.
Il 14 giugno 1573, il vescovo Galbiati scriveva al cardinale Carlo
Borromeo sulla situazione delle numerose ossa e dei molti teschi ritrovati
nell’altare alla Madonna delle Virtù.
Si diceva che potessero appartenere al martirio di San Secondo o
dei suoi compagni, ma il vescovo Galbiati assicurava il metropolita Borromeo
sulla certezza dell’infondatezza della diceria popolare. Invece lo stesso
vescovo dimostrerà una particolare devozione per il Santuario della “barma”
di Siestro.
Nel 1602, il vescovo Stefano Spinola, teatino genovese, assegnava
agli Agostiniani della Bastida, la cura della chiesetta delle Virtù.
Nel 1620, la chiesetta delle Virtù passava sotto la cura dei
Canonici della Cattedrale. Considerata la buona e crescente frequentazione
del Santuario, ai Canonici veniva affiancato l’Eremita Maccario, che
lasciato l’eremo di Ciaixe, nella Madonna della Neve, veniva a vivere nelle
vicinanze del Santuario delle Virtù, con la facoltà di elemosinare a
Ventimiglia le esigenze del Santuario.
Nel 1653, moriva l’eremita Maccario e al suo posto veniva nominato il prete Giuseppe Maria Sapia.
Proprio in quegli anni, si provvedeva a
sistemare la mulattiera che conduce al Santuario, il quale veniva notevolmente
ampliato. Nell’ottobre del 1654, l’impresario Bartolomeo Biamonti riceveva
l’incarico di edificare le cappellette votive lungo la mulattiera che
conduce al Santuario delle Virtù.
Per poter dar termine ad una decente costruzione delle cappellette,
il vescovo Promontorio dovette ricorrere ad un collegio di inquisitori, che,
il 15 aprile 1666, impose al Biamonti di concludere i lavori a regola
d’arte, ottenendo l’opera completata il 2 giugno successivo.
Dopo il 1693, la
chiesetta di San Giacomo sulle Mauře,
passando nel territorio del "luogo" di Camporosso, voltava l'abside
verso Ventimiglia, aprendo la porta rivolta agli "Otto Luoghi".
Evidentemente, gli sfrattati ventimigliesi trasferirono il loro San
Roman nella chiesa rupestre che da quel momento assumeva, da sola, i valori
del loro pellegrinaggio primaverile, in precedenza rivolto verso le Mauře.
Infatti, i Camporossini portarono il loro San Roman nella
chiesetta che fondarono sul poggio che sovrasta Bigauda.
.
Nel settembre 1742, i massari del Santuario di Ciaixe allontanarono
l’eremita Rondelli, il quale domandò al Vescovo di cambiare il romitorio con
quello della Madonna delle Virtù, in Sietro.
Nel 1760, venivano rifatte le quindici cappellette votive lungo la
mulattiera che conduce al Santuario delle Virtù.
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Nel 1868, il Regno d’Italia riconfermava il decreto emesso dello
Stato sabaudo nel 1848, sull’incameramento dei beni ecclesiastici. Il
Sindaco Rossi, con lettera del 18 agosto, riservava al Comune: N.S. di
Varaxe, S. Reparata al Calvo, la Cappella di Villatella e N.S. delle Virtù.
Nel 1890, le cappellette votive lungo la mulattiera che conduce al
Santuario delle Virtù erano in parte distrutte dal tempo.
Nel 1895, veniva nuovamente ampliato il Santuario di Madonna delle
Virtù.
Nel 1896, al Santuario di Madonna delle Virtù, veniva ampliata
anche la sacrestia.
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Nel 1925, il parroco di sant’Agostino, don Gamaleri, dava inizio
alla ricostruzione delle cappellette votive lungo la mulattiera che conduce
al Santuario delle Virtù.
Nel 1939, il parroco di Sant’Agostino, mons. Borea terminava la
ristrutturazione delle cappellette lungo la mulattiera che conduce al
Santuario delle Virtù, iniziata nel 1925.
Nel 1964, il Lunedì di Pasqua si tenne l’ultimo festino organizzato
dal Comitato di Siestro al Santuario delle Virtù.
L’usanza di recarsi in scampagnata al Santuario di Madonna delle
Virtù, consolidata da oltre un secolo nelle famiglie ventimigliesi, si è di
molto ridimensionata in quegli anni, a causa dei costanti litigi che si
verificavano tra i partecipanti con minor anzianità di tradizione. Quell’anno,
non essendoci presidio d’ordine, giacché non vi era il ballo campestre
organizzato, che lo richiedeva d’ufficio; si è verificata una colossale
rissa, con intervento di lame da taglio, per la quale la consuetudine della scampagnata di
“Pascheta ae Vertü”, si è interrotta.
Nel 1976, il Lunedì di Pasqua, le Rezerie di Sestiere, invitate
dalla Cumpagnia d’i Ventemigliusi hanno ripreso, a titolo ufficiale, la
tradizione della “Pascheta ae Vertü”.
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Le famiglie che più tenevano all'usanza non avevano mai
abbandonato il fatto di recarsi al Santuario delle Virtù per assistere alla messa
della Paschéta, ma, da quella occasione, Cumpagnia e Rezerie hanno voluto ricreare una parvenza di
scampagnata rituale esponendo l’invito ufficiale, che in seguito verrà
raccolto dal Vescovo. Al termine della messa, in collaborazione col Comitato
di Siestro, si provvede a fornire un rinfresco, col quale ci si intrattiene
fino a mezzogiorno. Il pasto al sacco ed il pomeriggio di festa laica non
sono più nelle corde dei partecipanti, sono pochissimi, ma ben organizzati
quelli che vi provvedono, ora che il Santuario è dotato di una pur impervia
strada carrozzabile, da via Tenda.
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Nel 1977, il parroco di Sant’Antonio alle Gianchette, don Broccardo,
dava mano al restauro delle cappellette lungo la mulattiera che conduce al
Santuario delle Virtù. Strada che ha ricevuto qualche rattoppo, nella parte
iniziale, ma avrebbe ancora bisogno di una profonda ristrutturazione.
Nel 1990, il parroco delle Gianchette, da cui dipese da allora il
Santuario, faceva erigere un rinnovato muraglione di sostegno sotto la
chiesa rupestre di Madonna delle Virtù.
LA BARMA ED IL SANTUARIO RUPESTRE DI SIESTRO
Il Santuario visto da Tramontana L'altare dedicato a San Romano