EVOLUZIONE
STORICO-TERRITORIALE
DELLA
CITTÁ DI VENTIMIGLIA
EVOLUZIONE
STORICO-TERRITORIALE
DELLA
CITTÁ DI VENTIMIGLIA
A
Ponente di Castel d’Appio, “Castel d’Apiu”, che domina la conca delle
Ville, “E Vile”, affacciata sulla piana di Latte, è sito l’abitato
medievale di San Lorenzo, che è ad un trar di balestra dalla località
Calandri, “I Calandri” alle origini della vallata che domina la chiesa
di San Bartolomeo e l’antico abitato di Latte, sul fondovalle.
Nella ampia vallata del Rio Latte, che conduce
all’abitato di Sant’Antonio, per poi scollinare in val Bevera, nei
pressi della Cava Bergamasca, si trovano gli abitati di Carletti,
Dormi-dormi e Bastei. Proseguendo oltre la vallata del Ruassu, si trova,
la frazione di Villatella, incastonata in un inimmaginabile ambiente
montano.
La piana di Latte, d’origine alluvionale, ha riempito un
ampio golfo chiuso ad oriente dalla Punta della Rocca, “A Roca”, cui
segue la rara spiaggia sabbiosa delle Calandre, “E Calandre” ed il
piccolo promontorio scoglioso di “Murru Russu”, mentre ad occidente
viene definito da Capo Mortola, sulle cui pendici, dalla rinascimentale
villa dei nobili Orengo, il Sir inglese Thomas Hanbury ha messo a dimora
il più famoso giardino botanico di Liguria.
Sopra il giardino è sito l’abitato de La Mortola, “A Murtura”,
con la chiesa di San Mauro. Passato Latte, prima di incontrare
Mortola, ci si incammina verso Belenda, dal Belvedere, per poi
traversare “Canun”.
La collina della Mortola è un contrafforte del Monte
Belenda, che coi suoi 540 metri d’altitudine, è una prima altura del
massiccio della Longoira, interrotta dalla vallata del Rio Sorba, “Valun
da Sciorba”, che va a sfociare nei pressi della punta del Cannone “Dau Canun”.
La costa verso i Balzi. Rossi, “I Baussi Russi”, è una
ininterrotta serie di calette delimitate da orti promontori. scistosi,
la più importante delle quali la Baia di Beniamin “Baia Begnamin”,
chiusa a occidente dalla Punta Garavano.
Alle spalle di Belenda si apre la ampia ed erta vallata
del Rio Sgorra, “A Sgura”, sul quale occhieggiano gli agglomerati.
abitativi di: Zanin, Roberto, Sgurra, Tantei, Lercari, Casette e Cresci;
fino a giungere ai Passo dei Sette Camini “Ai Sete Camin”, nodo per
tutte le mulattiere dì confine. Sulla dorsale di mezzogiorno, Belenda
ospita gli abitati di Moretti , Case Gina e Colla, oltre alla importante
frazione di Grimaldi “E Grimaude”, appartenuta alla nobile famiglia
monegasca, che conserva ancor oggi alcuni possedimenti.
Passato il massiccio roccioso dei Balzi
Rossi, che contiene numerose caverne, frequentate da trogloditi, oltre
la sede del Museo Archeologico, si apre un ampio piazzale, “Dau Casinò”,
che oggi contiene il posto di dogana di Ponte San Ludovico. Dal
piazzale si gode la splendida ed orrida veduta di Ponte San Luigi,
incastonato tra le ultime irsute pendici rocciose della Longoira, verso
il mare e l’ultima cascatella del Vallone del Passo, “U Sautu d'u Valun
d'u Passu”.
La Longoira e un susseguirsi di rocce a serracco,
con andamento longitudinale verso il nord magnetico, fino a poggiarsi
contro l’importante mole del Grammondo. Fanno da. contrafforti orientali
alla. Longoira, Monte Fuga e Monte Grosso, due panettoni coperti. dì
macchia mediterranea.
La cresta della Longoira e costellata di cima e
di passi, raggiungibili con mulattiere. Dai Balzi Rossi: Passo della
Morte, Cima Giralda, Passo Paradiso, Passo San Paolo, i Colletti, Castel
del Lupo, Passo del Porco; oltre Cima Longoira, che in territorio
francese propone la cima di Rocca d’Ormea; dalla cima di Monte Grosso,
si apre l’importante Passo del Cornà, con l’omonimo vallone che dirige,
precipitoso, verso Villatella.
Dopo Passo Elsi, Cima Veglia e Passo Vacca, si erge la
cuspide rocciosa di Monte Grammondo, “Granmundu”, con i suoi 1378 metri,
punto più elevato del territorio comunale, attuale.
Alle falde nord-orientali del Granmondo, si appoggiano
Monte Cogorda, la Cima dell’Arpetta e la Cima dei Fenug!i, che reggono
l’aspra vallata della Bevera, chiusa nel canyon dell’Avaudurin.
Doppiato il Colletto, sotto Collabassa, trattenuto dal Monte
Maltempo a riversarsi nella Roia, il Bevera volge a mezzogiorno, col suo
letto tortuoso, verso la frazione di Torri, sul fondovalle. Da qui, la
vallata si allarga, sormontata ad oriente dal massiccio di Monte Pozzo,
alto 569 metri. “Munte Pussu” degrada a sud con un altopiano “Cian d'u Pussu”, che sulla sua estrema balza, “Cola de Bevera”, ha contenuto per
qualche decennio, la discarica comunale.
Sul fondovalle, la Bevera bagna la frazine di Calvo, con la
sua dipendenza di San Pancrazio, che nell'ultimo tratto della vallata
del Cornà, precede gli abitati di Case Cardi e del Serro, verso Sant'Antonio.
Un’ampia ansa, contenuta dalle cave di pietra,
sfruttate dai "Bergamaschi", alle falde della Cima di Gavi, propaggine a
nord della Maglioca, conduce il Torrente Bevera a bagnare la frazione di
Bevera, già vivace nel XII secolo. Qui la Bevera si immette
nell’ampio letto della Roia, che ha appena bagnato la frazione di Varase
e Case Boeri, oggi sedi di fiorenti imprese, per la coltivazione di
talée floricole.
L’ampio letto del Roia è oggi contenuto dal Parco Merci
Ferroviario e sormontato dalla variante autostradale, al primo tratto
della Strada Statale n° 20, di Val Roia e del Colle di Tenda.
Il Parco Roia è in regione “Maneira”, dominato dal
poggio che contiene l’abitato di Seglia, sulle falde orientali della
Magliocca. Prosegue poi l’arginatura dell’Autoporto Riviera dei Fiori e
quella dello svincolo dell’ Autostrada dei Fiori, sormontate dalla
verdeggiante altura dei Frati Maristi.
L’abitato ottocentesco della città moderna è stato costruito
sopra una zona paludosa, creata dalla foce del Roia, “A Buca”,
denominata “I Paschei” oggi sede di: Municipio, Pretura, Giardini
Pubblici. Mercato dei Fiori. Teatro Comunale e molti palazzi
residenziali, contenenti le Poste, le Banche e numerosi, uffici.
Tra i Paschei la Stazione Internazionale, esisteva fin dal
medioevo, l’abitato attorno al Convento Agostiniano, “U Cuventu”, che
nella parte antica era denominato “A Bastida” ed era a cavallo
dell’altura detta “U Valun”, dove corre degradando il Rio Resentello,
“Valun de san Segundu”.
Dal Vallone, verso oriente, si apre l’ampia campagna
sabbiosa, denominata “E Asse”, oggi completamente edificata. Prima di
incontrare “Via Regina”, oggi via Dante, che divide le Asse in due,
troviamo l’ex GIL, oggi palestra coperta, le Scuole Elementari ed il
Centro Studi. Dopo "via Regina", le Asse sono ancora in fermento
edilizio, fino al Rio delle Vacche, che divide la zona. delle Logge e
crea il confine con la zona di Nervia.
Questa zona, coricata sulle vestigia romane della “Città
Nervina”, è stata una produttiva zona agricola, per la prima. metà del
Novecento, poi è diventata un’ampia area di residenze abitative
d’abusivismo, che ha snaturato il paesaggio, l’archeologia e persino la
destinazione d’uso urbanistico.
Da Nervia, traversato il Cavalcavia ferroviario, ci si
inerpica per “Colasgarba”, da dove attraverso Case Gantini e Case Cane,
sulle Maure, si giunge a San Giacomo, in territorio di Camporosso, lungo
i primi passi dell’escursionistica “Alta Via dei Monti Liguri”.
Da San Giacomo si scende verso la vallicella del Resentello,
che nascendo da Monte Fontane, divide le alture di Monte Carbone, le
quali presentano la loro faccia a Ponente, a dirupo sulla Val Roia, in
una decorativa parete tufacea e di puddinga, orrendamente scavata da
grotte ed anfratti, “E Roche de Ruverin”.
Da sopra le Gianchette, le Rocche tendono ad ammorbidirsi in
una verde collina, comunque dirupa, sovrastata dal santuario seicentesco
della “Madona d’ê Vertü”, dal quale degrada il bucolico Siestro, ora
soffocato da enormi moderni condomini, a mezza costa, anche difficili da
raggiungere.
La sponda sinistra del Roia territorio comunale, sui.le
alture più basse, sotto il profilo precipitante delle Rocche. Dopo
Roverino, verso nord, troviamo la Verandona e la vecchia Statale 20, con
gli innesti del nuovo ponte per Bevera.
Passato Rio Fogliaré si incontrano, verso l’argine i nuovi
insediamenti produttivi artigiani e si intuisce il passaggio per il
vecchio ponte in ferro, da Bevera. La regione è chiamata Porre, “E Pore”,
sita alle falde del Vallone dei Lodi. Qui termina per ora, la variante
autostradale della S.S. 20, con un semplice ponte. In un futuro non
ancora definito, questo ponte dovrebbe costituire il collegamento
terminale della famosa Aurelia Bis.
Dopo le Porre, la curva del Sardo, delimita il
nuovo centro abitato di “Tremola”, un nugolo di villette unifamigliari.
Poi una ampia ansa della Roia, davanti a Varase, conduce alla frazione
di Trucco, da dove si può raggiungere l’abitato di Verrandi, “I Verandi”,
fondo appartenuto ad una nobile famiglia dolceacquina, esule nel XIV
secolo.
Dominano Trucco le alture di Cima d’Aurin, la Colla e Cima
Tramontina, verso le valli Nervia e Barbaira, sopra Dolceacqua, ultime
propaggini a nord dell’attuale territorio comunale, prima di Airole,
colonia quattrocentesca, e La Piena, “La Penna” antico avamposto
comunale medievale, ora francese.
.
Per proteggere la costa dalle frequenti e gonfie
mareggiate, negli anni Trenta venivano costruiti alcuni brevi moli
frangiflutto, del tipo a pennello di massi, da riva, nei pressi della
foce Roia e di via Dante. Ma
l’edificazione di molti caseggiati confinanti coi lungomare, avvenuta,
negli anni cinquanta, ha costretto al potenziamento di tali moli ed alla
costruzioni di altri intermedi.
Nei primi armi Settanta, il continuo dispascimento delle spiagge,
provocato dalle traversie di ponente, ha stimolato la
Uscendo dalla porta occidentale della Città Alta, oltre le falde
orientali del Monte, sottostante “Caramagnò”, è posta la località “Aurignana”,
che dall’XI secolo è appartenuta alla nobile famiglia Olignani. Sul
poggio che segue, situato a mezza costa sopra le località “Parmarin” e “Garian”,
fondi famigliari, oggi sede di numerosa villette di lusso, è situata la
località che ha preso il nome dalla chiesuola di San Bernardo.
Da San Bernardo, si sale verso Case Boi, “I Boi”, fondo
appartenuto alla nobile famiglia Bono, fin dal Medioevo. Sopra Boi, per
una strada tortuosa si giunge al colle d’Appio, dove sono ubicate le
rovine di un castello genovese del XII secolo, erette sulla cisterna
d’un forte d’epoca romana.
costruzione di isole
frangiflutti, trasversali alla costa, davanti alle Asse. Questo
sistema ha ripasciato le spiagge di Levante, creando vasti spiazzi per
bagnanti e deposito di barche, senza sminuire la balneabilità.
A Ponente della Roia, lo stesso problema è stato risolto,
negli anni ottanta, con la costruzione di pennelli da terra, intercalati
da isole a fior d’acqua, che non impediscono un’ottima balneazione,
proteggendo decisamente la costa.
Alcuni interventi di questo tipo sulla spiaggia delle
Calandre, oltre il promontorio della Rocca, verso Latte, non hanno
impedito la sparizione, quasi totale, dell’ottima sabbia dorata, che
costituiva un’attrazione unica, per la nostra zona.
A protezione della navigazione sotto costa dalle improvvise
traversie, negli anni Settanta si è data mano alla edificazione di una
diga foranea il località Scoglietti, rimasta però in abbandono.
.
Il 1°gennaio dell’anno 1902, si inaugurava la
tranvia da Ventimiglia a Bordighera. Il 5 maggio del 1906, veniva
presentato un progetto per allungare la tranvia verso Taggia. Questo
disegno, che in seguito prevedeva dall’altra parte il raggiungimento di
Mentone, non venne mai reso operativo; ma servì nel dopoguerra del ‘46 a
mettere in atto la filovia Ventimiglia-Sanremo-Taggia, che tanto ha
fatto per facilitare i trasporti in questo estremo Ponente ligure.
La filovia, mezzo di trasporto pubblico poco inquinante,
quindi apprezzabile dagli abitanti dei convulsi centri rivieraschi, ha
trovato difficoltà politiche e burocratiche al termine degli anni
Ottanta, quando gli veniva preferito il servizio di autobus, con la
scusa di una interruzione di rete aerea, sul nuovo ponte del Roia.
Fortunatamente l’empasse è stato superato ed i nuovi
filobus hanno ripreso a percorrere la linea da Taggia, per San Remo ed
alla nostra piazza Costituente. Sebbene ad ogni minimo contrattempo
vengano messi in movimento dal motore a scoppio d’emergenza, del quale
sono dotati, o gli vengano preferite le vetture col motore a gasolio.
Nel frattempo, la Riviera Trasporti, che ha
rilevato la licenza a suo tempo concessa alla STEL, azienda collegata
FIAT, per la filovia da San Remo, ha provveduto a rinnovare la
concessione ed a ripristinare il materiale tecnico.
.
Il servizio di autocorriere sulla
litoranea Ventimiglia-Genova, negli anni Trenta, veniva con alla ditta
genoves e SATI, che si occupava anche, con maggiori frequenze, dei
tratti provinciali sul a medesima linea.
Negli anni Sessanta, i trasporti pubblici su
gomma vennero assunti dall’Amministrazione Provinciale, che all’uopo ha
creato la Società Trasporti Pubblici - STP, rilevando ogni concessione
sul suo territorio, dalla SATI alla STEL ed alla ditta Ferrua, in Valle
Argentina.
Alla fine degli anni Ottanta, la stessa STP, in
difficoltà di gestione, venne trasformata in Riviera Trasporti,
accogliendo nella conduzione le Amministrazioni dei Comuni più impor
tanti della Provincia.
Negli anni Trenta, alcuni privati ottennero concessioni
per i trasporti lungo le vallate limitrofe. La ditta Guglielmi &
Squarciafichi percorreva la Val Roia ed il ponente ventimigliese. La
ditta Allavena & Ferrero gestiva i percorsi per la popolosa Val Nervia e la Val Verbone.
Anche queste concessioni vennero assunte dalla STP, che
aggiunse all‘incarico anche i servizi urbani di Bordighera e
Ventimiglia. A Bordighera, il servizio urbano è entrato in vigore negli
anni. Sessanta, mentre a Ventimiglia si dovette attendere il 1987.
Il servizio di Noleggio con autista, per comitive
turistiche, è venuto a concretizzarsi massicciamente nei primi anni
Sessanta. In precedenza, sia la SATI che la STEL concedevano mezzi a
noleggio, così pure la STP, poi RT, continuò ad essere presente sul
mercato; ma molti padroncini occupavano fette di mercato. Nel dianese
sono organizzatissime due o tre ditte private, a San Remo operante due e
tre padroncini, mentre nel ventimigliese, nel tempo, si sono susseguite
le ditte: Guglielmi e Floreana, o quant'altre.
.
Sbucando da due gallerie ricavate
nella collina di Siestro, l'Autostrada dei Fiori, la A-10 attraversa la
Roia su un lungo ponte, per immettersi su un voluminoso terrapieno, in
regione Santo Stefano, contenente lo svincolo per Ventimiglia, la
barriera per il pedaggio ed i fabbricati per la Dogana, per poi
introdursi in due gallerie.
Le due gallerie fuoriescono in val Latte su un altissimo
viadotto, questo appoggia sulla Magliocca, in località Canun, fa
proseguire l’Autostrada, verso la Francia in doppi tunnel ed un doppio
viadotto, sul Vallone del Passo.
A traversare il terrapieno dell’Autostrada, sul lato di
Ponente, sono i binari della linea per Tenda e Cuneo, oltre al nuovo
binario che porta al Parco Roia, dopo aver traversato il ponte delle
“Gianchette” ed esser giunto dalla Francia attraverso una nuova,
galleria, che dalle Calandre giunge in zona Peglia, sotto la Caserma
Gallardi.
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In Peglia, le Ferrovie hanno eretto una
nuova Sottostazione elettrica, per dare energia al Parco e questa viene
alimentata da un trasformatore dell’ENEL ubicato in Roverino, nei pressi
dell’innesto autostradale sulla S.S. 20. La nuova Sottostazione FS ha
sostituito quella ubicata a Nervia.
Per superare il passaggio a livello ferroviario in zona Gianchette,
dall‘innesto, in zona “Veranduna”, per giungere al capoluogo, la Statale
20 è avviata ora su una variante costruita sopra due lunghi viadotti
collegati, che evitano l’abitato di Roverino, prima frazione ed oggi
periferia produttiva.
Traversato il ponte alle Gianchette, vasta zona abitata, che
contiene anche il Camposanto; la Ferrovia, mantenendosi ad una quota di
circa quindici metri dal livello del mare, corre lungo le ultime falde
dirute del Colle di Siestro, “Sciestru”, dove trova, spazio la Stazione
Internazionale, e lo strapiombo delle Maure, “E Maule”, che incombe sul
vecchio Parco Merci.
Proseguendo verso Genova, i binari coprono una
vasta area archeologica, sulla Città Romana. Voltano verso mezzogiorno,
dopo l’area dell’anfiteatro, per immetersi nell’area umida del Torrente
Nervia, dove ha sede, forse per poco, il deposito locomotori. La linea
principale, invece, corre sul ponte di Nervia, per entrare in Camporosso
Mare.
Nel nostro piccolo territorio, gli Anni Cinquanta sono
stati testimoni di questo sconquasso, senza che si facesse quasi nulla
per impedirlo. Nell’immediato dopoguerra, qualcuno ha deciso di
potenziare le fognature, costruendone delle nuove per settori della
città che ancora non le avessero. Lo fece, perché il vivere civile non
ne poteva fare a meno, ed ha pensato bene di farle defluire in mare, con
la scusante: “tanto il mare è così grande !”.
Nel frattempo, qualcun altro inventava le lavatrici
automatiche, ma quel che è peggio, le dotava di “detersivi
tensioattivi”. Quando, sia delle lavatrici, che dei detersivi, nessuno
avrebbe più fatto a meno, procurando la prosperità di molte note ditte
industriali, ci si è accorti che la combinazione era altamente
inquinante e soprattutto non controllabile.
Gli anni cinquanta, sono stati gli ultimi a
vedere in uso “e barì”, barilotti bislunghi, che non hanno mai contenuto
vino, ma sono stati toccasana per l’antinquinamento. Ancora per qualche
anno, nei dopoguerra, si sono svuotati i residui pozzi neri e la “merce”
veniva venduta e distribuita per la concimazione degli orti della
cintura cittadina, con meritoria efficacia. Gli addetti a questo
servizio, veri esperti, arrivavano ad assaggiare il prodotto, per
valorizzarlo a seconda dell’acidità ritrovatavi.
Ma l’era industriale, insieme alle fognature ha saputo
inventare anche i “fertilizzanti di sintesi”, per sbarazzarsi delle
“bari”, in modo che le nuove generazioni non le trovassero e non
ponessero fastidiose domande.
Nel dopoguerra, le fognature sfociavano con la
Roia, per la città alta e venivano convogliate al mare, nei pressi di
via Chiappori, per la città bassa. Con la crescita demografica ed
urbanistica del Cuventu, diffusasi principalmente nelle Asse, nuove
fogne uscirono da via Dante ed a Nervia.
Negli anni Sessanta vennero creati collettori fognari
che unificavano il versamento a mare su via Chiappori, anche se molte
tubature abusive continuavano a versare, nel fiume ed in diversi siti
marini.
Negli anni Settanta venne installato un
primo tritatore, posto in via Oberdan, di fronte al Miramare. Venne poi
spostato in via Trento Trieste, poco oltre il Dispensario, per trovare
spazio, alla fine degli anni Ottanta, a Nervia, nei pressi della zona
residenziale, a dire il vero inizialmente abusiva.
Nei primi anni Novanta, la ditta Sabazia
prese l’appalto per dotare di fognature alcune frazioni e rivedere la
rete cittadina. Lavorò talmente male, che le fogne divennero un
problema, anche amministrativo. In molti punti della città, interi
condomini non vennero allacciate alla rete fognaria, con conseguente
dispersione dei liquami nella falda acquifera.
Intanto quello che doveva essere il depuratore, a
Nervia, non lavorava mai a pieno regime, a causa del rumore, della puzza
e dei costi proibitivi, sicché le immissioni in mare, fornite dalla
condotta verso il largo, risultavano quanto mai inquinanti. Vallecrosia
e Camporosso si erano dotate di un depuratore abbastanza efficiente.
Anche Bordighera, nel 1993, metteva in moto il decente depuratore, sito
sulla battigia, presso Rio Borghetto. Mentone ne era dotato fin dagli
anni Ottanta.
All'inizio del 2012, lo smaltimento fognario di Ventimiglia appare continuativamente decente. Le numerose frazioni del Ponente comunale sono state allacciate al più capace depuratore di Nervia, che ha sostituito quello inefficiente delle Asse, da più d'un decennio; usando una appropriata stazione di sollevamento dei liquami, posizionata alla foce del Vallone Latte, proprio nel 2011. I lavori per la costruzione del bacino portuale "Cala del Forte", agli Scoglietti, proseguono con appropriata continuità, lasciando sperare in una prossima definizione. La congiuntura mondiale ha fermato l'acquisto delle seconde case, ponendo la potente lobby locale dei costruttori nelle condizioni di soffermare i lavori edili, che rischiano di compromettere il territorio, la cui vocazione potrebbe essere turistico culturale, ancora abbordabile, contrariamente al resto della Riviera, dove ormai è compromessa.
Con
l'assegnazione del titolo di Stazione ferroviaria Internazionale, dotata
degli uffici di frontiera e delle Dogane, il sobborgo di Sant'Agostino,
"u Cuventu" ha partecipato ad un'inarrestabile sviluppo delle attività
commerciali con conseguente crescita edilizia, che lo ha portato a
diventare il Centro cittadino, fin dai primi anni del Novecento,
relegando la Città Alta a sobborgo.
Questo iniziò dal 14 giugno del 1860, con la cessione di Nizza alla
Francia, dove si decise il futuro ruolo di Ventimiglia, che attivò la
Dogana Internazionale nel febbraio del 1871.
La strada ferrata che percorrerà tutta la Liguria
costiera, è stata approvata dalla Regia Camera Sarda, in Torino, nel
maggio dell’ano 1857.
Essendo
il dipartimento di Nizza ancora italiano, il 25 novembre dell’anno 1859,
il Segretario del Ministro Giuseppe Biancheri, ventimigliese,
sottoscriveva il contratto per la costruzione della strada ferrata dal
Varo alla Palmignola, cioè dal confine francese d'allora ai confini con
la Toscana.
Nel 1870, veniva costruito un ponte provvisorio sul
Roia, in modo di collegare la rete ferroviaria, ormai francese, alla
neonata linea costiera ligure.
Il 29 novembre del 1871, alle ere 17,30, il fischio
della vaporiera di servizio, mandata in prova, echeggiava nella Stazione
Internazionale di Ventimiglia, acconciata alla stregua di un cantiere,
dove veniva costruita una semplice, ampia baracca in legno, che verrà
terminata nel marzo del 1872.
Il 14 febbraio 1872, partiva da Ventimiglia il primo
convoglio ufficiale per Genova; mentre bisognerà aspettare il marzo del
1880 per dare inizio ai lavori della Stazione in muratura, che verrà
inaugurata il 13 luglio del 1882, corredata della sua splendida e
moderna illuminazione a gas. Nel novembre del 1883, veniva eretta
un’ampia tettoia metallica a copertura dei cinque marciapiedi servizio
degli otto fasci di binari della completata Stazione internazionale.
Nel settembre del 1902, veniva costruita una stazioncina di servizio nel
mezzo della piana di Latte; mentre il 1° maggio del 1903 veniva
inaugurata la stazione di Vallecrosia.
Nell’agosto del 1909, giungevano a termine i lavori di
completamento del nuovo ponte sulla Roia, che dopo l’inserimento del
doppio binario della linea francese, avvenuto nel settembre dello stesso
anno, sostituirà quello provvisorio che verrà demolito nell’agosto del
1910. Il 1° maggio di quell’anno era stato inaugurato lo stesso nuovo
ponte, che conteneva già tre binari, due per la Francia e quelli della
costruenda linea per Cuneo.
Il 6 agosto del 1853, veniva presentato un disegno dell’arch.
Maus per la realizzazione dì una ferrovia da Ventimiglia a Cuneo. Mentre
il progetto proseguiva lentamente il suo iter, il 30 ottobre del 1859,
giunse il veto del Ministero della Guerra, che vedeva una certa
pericolosità d’invasione straniera nella presenza di una strada ferrata
nelle vicinanze della frontiera.
Per pareggiare gli equilibri nel campo delle
probabili invasioni, il 31 marzo del 1901, veniva proposta una variante
internazionale da Cuneo a Nizza, un vecchio desiderio della Casa Savoia,
di quando possedeva, ancora la Capitale della Costa Azzurra. Il 27
dicembre 1902, il Senato poneva il veto al raccordo per Nizza, per
ragioni strategiche.
Nel luglio del 1884, a Nervia, uno scavo casuale
metteva in luce le antiche mura che difendevano la città verso il mare,
coi ruderi di Porta Marina. Ai Balzi Rossi, una lite tra lo
studioso Bofils ed il collezionista Jullien postò alla distruzione uno
scheletro di Cro-Magnon, reperto di scavo.
Il 13 marzo 1904, Porto Maurizio metteva in piazza
l’ultima delle manifestazioni contro la linea ferroviaria in Vai Roia,
infatti il 15 settembre del 1905, terminavano i lavori che portavano il
primo treno di servizio alla Stazione di Bevera, su un binario
provvisorio, che usava il temporaneo ponte francese.
Il 16 maggio del 1914, il primo convoglio in esercizio
raggiunse Airole. Mentre bisognerà aspettare il 30 ottobre del 1928 per
inaugurare ufficialmente la linea Cuneo- Nizza -Ventimiglia.
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Nel 1870, non appena la carrozzabile della Val
Roia raggiunse Tenda, venne istituito un servizio di diligenza, che
aveva il suo terminal sulla piazza della Stazione ferroviaria. Nel luogo
dove, nei giorni nostri, è situato il parcheggio delle autocorriere RT,
che allora era copiosamente alberato con robusti eucaliptus, si trovava
il deposito di tutte le carrozze pubbliche e quello dei carri e dei
muli, per il trasporto delle cose.
L’omnibus per Tenda era costituito da una carrozza a
due ruote, trainata da due cavalli, che caricava sul tetto ogni sorta di
bagaglio, sia dei viaggiatori, che avviato per posta.
Negli stessi anni, un omnibus aperto su quattro
ruote e trainato da due cavalli, fa ceva il servizio pubblico dalla
Stazione ferroviaria al piazzale antistante Porta Nizza, attraverso la
Strada traversa, oggi via Biancheri e via Verdi.
Altre diligenze avviate dalla piazza della Stazione
ferroviaria, raggiungevano Pigna, toccando tutti i principali paesi
della Val Nervia. Una diligenza giornaliera raggiungeva Perinaldo,
passando per i prosperi villaggi della Val Verbone.
Terminata la galleria lunga 8100 metri, sotto il
Colle di Tenda, il 14 febbraio 1898; travalicare il Colle tra Val Roia e Val Vermenagna diventava
accessibile in tutte le
stagioni.
Il 4 giugno 1899, in sostituzione della diligenza a
cavalli per Tenda, si avviava dal piazzale della stazione un servizio di
autocorriera per Vievola, da dove trovava una coincidenza per Limone e
Cuneo. La stessa linea, con proseguimento verso Torino,
è stata concessa alla SAPAV di Pinerolo. Quando venne interrotto il
collegamento ferroviario in Val Roia, dopo il conflitto, nel 1945, che
ha fatto servizio fino al ripristino della ferrovia.
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Disponendo di una costa che, lasciando Mentone, fino
a Bordighera, non presenta interessanti cale protette naturalmente, se
non quelle piccolissime di Latte e di Beniamin, la marineria locale,
dopo il XIII secolo, si è sempre servita della spiaggia come approdo,
tradendo i legni a secco; con la dipendenza agli umori del mare.
Non si hanno documenti sulle imbarcazioni che
frequentarono i nostri lidi nell’Antichità, ma basandoci sui
ritrovamenti ingauni e nizzardi, possiamo azzardare una copiosa quanto
qualificata flotta commerciale locale, sorretta da un’altrettanto capace
flotta difensiva, per tutto il periodo Preromano, fino alla decadenza
dell’Impero Bizantino.1
Anche per questo periodo alcuni documenti elaborati poi dalla
fantasia di qualche romanziere, quale Salgari, hanno disegnato
l’attività marinara ventimigliese come prettamente corsara, sempre a
sostegno di adeguata attività brigantesca terrestre.
Infatti, fino ben oltre il tramonto dell’astro napoleonico,
già in pieno Risorgimento nazionale, la percorrenza sulle nostre strade
era qualificata in gran rischio. Questa era la ricorrente sensazione dei
fruitori stranieri di quello che è stato il turistico “Gran Tour”
europeo, i quali preferivano la nave per superare almeno il nodo della
Turbia.
Nell’Ottocento, pur priva di un porto vero e proprio,
ma usando l'ampia spiaggia fuori Porta Marina, l’attiva marineria locale
ha intessuto ampi commerci persino con regioni relativamente lontane,
quali il Meridione italiano, Calabria e Sicilia.2
.
Nei centri agricoli disseminati nelle Valli Roia,
Nervia e Verbone, il mezzo di trasporto più diffuso e popolare è sempre
stato il dorso del mulo. Montato da appositi basti attrezzati, il mulo,
carico di ogni sorta di mercanzie, procedeva sicuro lungo le numerose
strade interpoderali, che dal fondovalle raggiungevano i crinali delle
dorsali prealpine intervallive, arrivando a servire ogni più piccolo
appezzamento di terreno.
Mulattieri professionisti guidavano le lunghe teorie di muli,
adatti ad ogni tipo di carico, su ogni tipo di percorso.
“I muratei” erano talmente numerosi e rilevanti che fin dal
Medioevo, giunsero persino a creare una importantissima Confraternita,
che li raggruppava, tutelando i loro interessi ed organizzando gli
scambi di lavoro.
Potenti Confraternite di mulattieri erano presenti a Tenda ed a
Limone, sui due versanti del Col e di Tenda, ma altre si contavano nei
più importanti centri delle nostre Valli, a Dolceacqua, a Sospello, così
come a Ventimiglia e Mentone.
A Tenda, avevano eretto a loro Santo protettore
Sant'Eligio, sicché ancor ai nostri giorni, nell’autunno, una delle
feste popolari più sentita, in quel di Tenda, ora francese, è Sant’Eloi,
che per l’occasione richiama sul sagrato della Colleggiata gli ancor
numerosi muli del circondario.
A Ventimiglia, il centro organizzativo dei
mulattieri trovava sede in un’osteria, situata nel Borgo, sul bivio di
Vico Lago, nei pressi della ghiacciaia dei Lupi.
Il luogo era strategico, per quanti attraversato
il ponte sul Roia intendessero raggiungere lo Scoglio, o proseguire
lungo la Strada per la Francia, si trovavano con poca forza sui loro
traini, magari a cavalli, per superare il dislivello del Cavu.
I mulattieri prestavano volentieri la loro opera,
mettendo a disposizione un paio di muli, per i carichi, o da anteporre
ai traini, in aiuto ai meno adatti cavalli. Anche i carrettieri
ventimigliesi si ritrovavano nell'osteria del Borgo, scelta come base
dai mulattieri e disponevano delle loro rimesse nei terreni ricavati nel
sottostrada del Lago.
Nel 1890, veniva elevato l’argine che dalla sponda di destra del ponte
carrozzabile chiudeva quello che era stato il Lago, fino al bastione
delle mura cinquecentesche di tramontana, per disporvi al disopra la
strada per Bevera, quella che negli anni Settanta diventerà Corso
Francia.
Il greto ghiaioso, che aveva riempito il Lago, restava quindi isolato
dal resto del fiume, rendendo difficile immaginare come quel sito, per
più di undici secoli possa essere stato animato da un viavai continuo di
battelli e grosse navi, attività che aveva fatto di Ventimiglia, per il
tempo troppo breve della città eretta a Libero Comune, persino, una
autorevole entità marinara.
1) L’attracco nel Porto Canale alla foce della Nervia, ha permesso una prosperosa attività marinaresca, che alcuni
storiografi antichi hanno voluto espandere anche in un a diffusa
attività corsara, in sostegno ad altrettanta attività brigantesca sui
viandanti, per le vie di terra. Del periodo medievale, conosciamo
alcuni documenti indicativi, che pongono il Porto Canale ricavato nel
Lago, alla foce della Roia, tra i più importanti attracchi della costa
ligure, nel tratto tra Albenga e Nizza, oltre al riparo naturale di
Monaco.
2) Nel gennaio del 1885, il capitano Paolo Viale acquistava un vapore per
L. 150/m., frutto di grossi guadagni sul vino. Il 10 maggio, bordeggiava
sulla nostra rada il vapore Balaclava di sua proprietà, comandato dal
ventimigliese Federico Aprosio. Il 12 giugno, era sulla spiaggia un
secondo vapore del Viale, dal nome Chambeze. Oltre ai due vapori il
Viale contava su tre legni a vela, la Silvia, l’Olga e il Giuseppe. Il
Viale era un armatore ventimigliese che esercitava l’importazione dei
vini dalla Sicilia, dalla Spagna e da altre regioni mediterranee. Il
dottor Azaretti lo aveva conosciuto personalmente da ragazzo, quando nei
primi lustri del nostro secolo, ritirato dagli affari, frequentava quasi
ogni giorno la farmacia del padre. Era una persona molto colta che
conosceva la storia, i monumenti e il folclore di tutti i paesi che
aveva frequentato, prima come capitano di lungo corso, e poi per i suoi
commerci ed il dottor Emilio aveva passato molte ore felici, ascoltando
i suoi racconti.
"Sulle due opposte sponde (del Roia) s’ergono altri edifizi di seghe
con Borre di pedali accatastati sulle rive del fiume. Questi legni
pedagnuoli son qui trasportati dalle montagne dei Comuni di Tenda,
Briga e Saorgio.
Ed ecco come si fa il taglio ed il trasporto. Gli
alberi stanno su erte cime o in profondi valloni, donde non vi è
strada per condurli. Il bracciante recide la pianta, ne rimonda il
pedale, i pedali si accatastano sulle rive nel letto del torrente
che dappertutto è formato dagli scoli alpestri, e che secco il più
del tempo, a volte diviene pieno e rigoglioso.
Quando le piogge o il gelo l’abbiano rigonfiato, il
torrente solleva que’ legni, e li trascina seco a valle, dove
trovasi poi o un lago o un fiume più grosso, entro il quale sono
raccolti. Ed è uno spettacolo veder migliaia e migliaia di ceppi
d’alberi portati dal piano fiume, sotto la direzione d’una truppa di
borrellai, che con rampi e forche li smuovono, li avviano, e li
disuniscono, li spingono, li distrigano dagli scogli.
Ma non pertanto tale condotta anticipata, veggono non di rado
i fusti insieme dispersi per il mare, agitato dal vento e dal
mareggio che v’inducono le furiose onde del fiume. Queste borre sì
bene accatastate, il cadimento delle acque che danno il moto
impresso alle macchine, il girar delle ruote, il tempestar dei
magli, ed il continuo rumor delle seghe accordano il loro fragore a
quello delle acque cadenti. Il rapido moto, la veduta dei lavori e
dei lavoranti conferiscono al paese un aspetto brioso, allegro,
vivace".
Pur non disponendo di un porto, tra il 1600 e metà del 1700, Ventimiglia
contava un passabile parco di naviglio di piccola stazza che serviva
allo smercio dei prodotti agricoli in eccedenza e ad importare il
fabbisogno dei materiali per le crescenti costruzioni. Un leudo,
chiamato “‘il Portiere”‘, espletava il servizio postale bisettimanale
tra Ventimiglia, San Remo ed Oneglia; tre volte la settimana faceva
rotta verso Mentone, Monaco e Villafranca. L’imbarcazione poteva anche
essere noleggiata per il trasporto di consistenti quantitativi di merce.
Giunta a terra la merce era scomposta o travasata in quantitativi
minori, adatti ad essere trasportati a dorso di mulo o a spalle da
facchini.
Nel 1736, veniva riaperto al culto l’Oratorio di San Nicolò alla Marina,
con l’aggiunta del culto a San Giuseppe, patrono della Buona Morte,
concedendone la gestione alla Confraternita della Misericordia, i Neri,
la quale gestiva, con un pontile, un servizio pubblico di attracco per
lo scarico della merce.
Sul mare, fino al XIX secolo, era raro il possesso di
un’imbarcazione ad uso esclusivo e personale. Le imbarcazioni, numerose
e delle più svariate fogge erano perloppiù al servizio della comunità, o
del gruppo dirigente.
Per spostare mercanzie pesanti, il nostro mondo rurale si è
servito da sempre del mulo e qualche volta del bue, col quale provvedeva
anche all'aratura. Il cavallo, usato dagli eserciti e dalla ristretta
nobiltà antica e medievale, era applicato preferibilmente sulla fascia
litoranea, nei lunghi spostamenti.
Uno di siti presenti lungo tutto il Medioevo, che stava cambiando
destinazione d'uso era la località Serre, confinante a Sud con le
Gianchete, luogo per il quale ancora nell’Ottocento, un francescano di
Civezza in viaggio lungo la Liguria aveva modo di scrivere:
Sulle colline tra Roia e Val Nervia si distendeva l’armata imperiale
protetta da una formidabile linea trincerata, in altura, coltellata da
forti inespugnabili, guardati da ventottomila soldati sabaudi, da
Saorgio a Collasgarba e da Colle Aprosio a Pigna e oltre.
Il 7 maggio 1744, il rettore di Bevera, in calce
al registro di battesimo, annotava il transito delle truppe
Gallo-ispane attraverso la Val Roia, Bevera, Varaze e La Penna, in
numero di uomini 3670, altro transito di 800 uomini con bestie da soma,
provenienti da Sospello, Olivetta, per il passo dello Strafurcu, diretti
a Dolceacqua.
Il 16 giugno, tra la merce razziata si segnalavano:
calzature, liquori, vini bianchi e neri. Con loro portano prigionieri 50
soldati francesi coi loro ufficiali. Nei casali della Bastida e della
Vallata, venivano razziati 150 tra muli e cavalli, capre e pecore;
alcune delle quali vengono cucinate nel corso della sosta a
Collabassa.
Il 22 maggio 1797, il Direttorio
parigino erigeva in Genova la Repubblica Ligure, sorella di quella
francese. Ventimiglia veniva eretta a capoluogo del Distretto della Roia,
una delle ventotto giurisdizioni in cui era stata divisa la Repubblica
Ligure e veniva diretta dal cittadino Gaspare Saoli.
Al distretto vennero assoggettati i comuni
di Penna, Bevera, Airole, Soldano, San Biagio, Bordighera, Vallebona,
Vallecrosia, Borghetto e Sasso, che vantavano una popolazione di 10.401
abitanti. Ospedaletti, Coldirodi e Baiardo facevano parte del Distretto
delle Palme, con capoluogo San Remo.
Nel 1 novembre del 1790, i funzionari napoleonici
avevano imposto particolari diritti di pedaggio ed avevano istituito
appositi registri, dove venivano minuziosamente annotate tutte le navi
che caricavano o scaricavano nei vari porti italiani occupati dai
francesi, neppure Ventimiglia è sfuggita al loro controlli e dal
registro del 1806, risulta come, nella "rada" di Ventimiglia, siano
approdati ben 426 battelli, che trasportarono: cereali, pelli, legno, zolfo e caricarono:
olio, limoni, vino e pelli lavorate.
Il 5 aprile 1794, giungeva in città il generale
francese Arena, che annunciava l’entrata di un corpo d’armata al comando
del generale in capo Dumerbion, coadiuvato dal nizzardo Andrea Massena e
da Napoleone Bonaparte, diretto ad occupare le savoiarde Oneglia e
Loano. I Francesi occuparono Dolceacqua, annettendo alle Alpi Marittime
i territori con Rocchetta, Isolabona, Apricale e Perinaldo, parte
integrante del Marchesato Doria. Dolcecacqua era capoluogo di Cantone.
Il Direttorio del Governo ligure decretava la
requisizione degli ori, degli argenti e tutte le gioie di chiese,
conventi ed opere pie, per rafforzare la Tesoreria Nazionale. Vennero
requisiti anche i preziosi manoscritti e gli incunaboli della Biblioteca
Aprosiana, che ancor oggi sono conservati a Genova.
Nella prima metà del mese di luglio, un nuovo
ordinamento riduceva a venti i ventotto distretti liguri e Ventimiglia
col suo Distretto entrava a far parte della Giurisdizione delle Palme,
con capoluogo San Remo.
Il 6
gennaio 1709, un inusitato gelo diede la stretta alla raccolta delle olive,
facendo morire una grande quantità di alberi secolari nelle nostre campagne. Le
coltivazioni di limoni vennero perse quasi totalmente, con gravi danni agli
alberi. Qualche marinaio perse le gambe per congelamento.
La grande e diffusa gelata aveva danneggiato le colture
provenzali ancor più di quelle liguri, facendo aumentare la domanda europea ed
inducendo a piantare olivi anche ad alte quote con una densità maggiore per
ettaro. Intanto, a partire dall’onegliese si andava sviluppando l’attività
legata alla produzione dell’olio.
Nel 1508, scoppiavano
disordini tra Ventimiglia e le sue Ville, particolarmente a proposito del prezzo
del pesce fornito dei Bordighotti, comunità a prevalenza di pescatori.
Nel settembre del 1519, un’improvvisa alluvione del Fiume
Roia, che distrusse parte del ponte, aveva condotto una tale quantità di legname
sulle spiagge da poterne caricare due grosse navi.
Fin dal 1520, l’inesorabile crescita della depressione
economica non trattenne la Comunità dall’affrontare la ricostruzione del ponte
sulla Roia, in considerazione della pericolosità del viaggiare in nave, per la
costante presenza di felucche barba-resche in agguato. Il pericolo dei turchi
durerà fino al 1570, con la distruzione della flotta turca a Lepanto.
Nel
1526, il Conestabile di Borbone inviato a Genova da Carlo V°, se la
prendeva con Monaco sottomettendolo e con Ventimiglia distruggendone
importanti settori.
Il 12 dicembre 1528, essendosi manipolata in
Genova una nuova nobiltà, si vollero distribuiti in ventotto alberghi i
nomi di coloro che fossero meritevoli di aspirare al governo. Tale
ordinamento oligarchico si mantenne in vigore circa tre secoli.
Scimmiottando quanto si andava facendo in Genova, si stabiliva, "che
vi fosse somma et rigorosa separatione della nobiltà dal populo: che
niuno potesse essere priore di consiglio, se non fosse ascritto
all’ordine dei magnifici; che fosse vietato si popolani di abitare nella
via principale detta di piazza dove abitano i soli magnifici; che il
locale detto loggia fosse unicamente destinato per trattare dei negozi e
per essere convegno di passatempo ai magnifici: che i magnifici ammessi
al governo avessero un trono in chiesa con più gradini, e nell’entrare
del vescovo essi non fossero obbligati di salutarlo che piegando
leggermente il capo".
Nel 1529, i Genovesi compirono una generale
revisione delle strutture fortificate, per far fronte alle armate
francesi. Le nuove mura si rivelarono utili a scoraggiare gli assalti
turco-barbareschi, ma la città aveva sofferto, coinvolta nella guerra
franco-spagnola. Le campagne attorno erano devastate e spoglie. Negli
Annali genovesi si rileva che "la popolazione sua fu già molto
maggiore di quel che è al presente ... i cittadini sono mercadanti e
lavoratori".
Nel 1545, l’insediamento abitativo veniva diviso in sestieri.
Il nucleo urbano del Castello non risultava essere molto popolato, ma
piuttosto sede di strutture a carattere religioso e civile. Veniva
edificata l’intera Colla, dove verranno innalzati i viridari
pensili, ancora oggi esistenti. Il Borgo ampliava la sua giurisdizione
su gran parte del quartiere di Castello, mentre a nord di questo la
nuova ripartizione urbana della Platea cresceva vertiginosamente.
A Levante di questa si estendeva il Campo, comprendente la primitiva
Rocchetta fortificata, mentre verso nord si sviluppava l’Oliveto,
attorno alla chiesa di San Michele, fino al Murrudibò. Cinque sestieri
erano dunque all’interno delle mura, ed uno, la Bastida, extra moenia.
Il borgo Marina era un minuscolo agglomerato di casette attorno alla
chiesetta di San Nicolò.
Eccettuati i provvedimenti per l’ordine pubblico
nelle campagne e della costruzione di qualche torre per l’avvistamento
contro i pirati Barbareschi, il governo genovese non dimostrava alcuna
significativa attenzione per la città che in passato aveva costituito
motivo di secolari contese. Lo stato di Ventimiglia in quel periodo era
deprimente. Il fiume, deviato dall’incuria, non passava più sotto le
mura, producendo terreni insalubri, mentre il ponte di legno che
traversava la Roia era guasto. Case in rovina impedivano il transito per
le strade. Il terremoto, oltre a numerose case aveva provocato gravi
danni alla chiesa di san Michele, che perse totalmente la navata nord,
oltre a quella sud inagibile. La popolazione era ridotta a soli seicento
fuochi, tanti quanti i seicento de La Briga e di Pigna, il Comune più
popoloso della Val Nervia, e Taggia per la Valle Argentina, e non molti
più di Tenda che ne contava cinquecento e Sospello coi suoi settecento,
mentre Triora ne contava millecento; Ceriana quattrocentosettanta,
Apricale e Castelfranco trecento, Dolceacqua duecento, mentre La Penna,
Isolabona, Bordighera e Monaco ne contavano appena cento; Breglio e
Perinaldo duecentocinquanta, come Saorgio. La ripresa non fu immediata,
ma l’avvento della Controriforma e l’inserimento della nobiltà locale
nell’orbita genovese, portarono al risveglio dell’attività edilizia ed
architettonica. Drammatici i problemi derivanti dal brigantaggio diffuso
nelle campagne, dalla minaccia piratesca sempre incombente e dalle
crescenti pressioni sabaude sul territorio.
Nel 1574, visitando l’Oratorio di San Nicolò alla
Marina, il vescovo Galbiati lo trovava “in misero et deprecabile stato
et mi si dice senza reddito alcuno”. L’impossibilità di vivere il mare
per più di quarant’anni, a causa dei pirati Barbareschi, aveva ridotto
alla fame il mondo marinaro.
Intorno al 1580, le Comunità aggregate a Ventimiglia,
dovevano concorrere in misura di "una giornata per fuoco" per "volgere
il fiume presso alla muraglia". Un braccio del fiume quindi rasentava le
mura della città ed era tenuto dragato evidentemente per usarlo come
porto.
Nel 1601, un’eccezionale piena, ripetuta nel 1616,
con inondazione del Cuventu e della Marina,
interrarono nuovamente il porto, che non si riprese più nel precedente
Lago. Il Comune ventimigliese, non disponendo più delle giornate di
corvée lavorate dagli uomini degli Otto Luoghi per dragare i fondali,
pensò di darsi un ponte in pietra, in sostituzione di quello
altomedievale in legno, in questo invogliata dalla Repubblica genovese,
che pensava con questo di attrarre definitivamente la città riottosa.
Le navi di sempre minor tonnellaggio presero a frequentare il “Lago”
minore ricavato appena a settentrione della Porta Marina. Lo
frequentarono almeno fino al 6 novembre 1794, quando vi approdava, in
fuga da Nizza, il conte Lascaris Ventimiglia di Castellaro e Peille,
ospitato in Ventimiglia dai fratelli Massa. La presenza dei barchi e dei
leudi ancorati presso Porta Marina è mostrata anche da una famosa stampa
del Settecento.
Ancora nell’anno 1874, presso il quartiere di Lago, divenuto Burgu, era
presente una fontana; la quale era servita per secoli a fornire acqua
potabile ai marinai che operavano nell’attivo porto canale. La fontana
presentava la data del XII secolo, sovrastante la dicitura:”ad comoditatem navigantium”. Questa presenza dimostrerebbe la continuità di
una navigazione più contenuta, almeno fino al XVIII secolo.
Dopo quel tempo i traffici marittimi, ancora
molto vivaci, forniti da naviglio sempre più ridotto, trovavano ricovero
in rada alla Marina, quando i bastimenti venivano fatti attraccare a
pontili mobili, mentre venivano tratti a terra, nei momenti di
inattività.
Nel 1630, la facciata della chiesa di san Michele
veniva ricostruita più arretrata di una campata, permettendo
l’allargamento di piazza Colletta. La città andava adeguandosi al nuovo
costume culturale, con la trasformazione delle chiese secondo i dettami
della controriforma e dell’abitato medievale ai moduli barocchi. La
strada della nobiltà modellata sulla Via Nuova genovese, aperta a
giardini, pensili ed esclusivi; la proprietà di ville nei dintorni. La
loggia dei nobili, di fronte alla Cattedrale e questa inzeppata di
cappelle giuspatronali. La fuga estiva, di chi poteva permetterselo,
dalla malaria prodotta dall’impaludamento della Roia. La sostituzione
dei ruderi dell’antico castello dei Conti con il Monastero delle
Canonichesse Lateranensi, del 1668, segnerà il definitivo affermarsi del
potere curiale sulla rocca di una città decaduta.
Sul piano militare, G. Vincenzo Imperiale, ispettore
delle Riviere, consigliava la Repubblica, in caso di guerra, a
concentrare le forze intorno a Genova, abbandonando le città
rivierasche, non difendibili. Era presente una guarnigione di soldati
tedeschi ed italiani.
Si doveva registrare, inoltre, il progressivo aumentare
della presenza degli ordini religiosi e delle confraternite, la
processione delle casacce, l’aridità culturale di qualche modesta
accademia, ma anche la presenza di padre Angelico Aprosio, uno dei
maggiori eruditi bibliofili dell’Italia del tempo.
Non mancavano studiosi e letterati di qualche valore,
come l’altro agostiniano, padre Cotta, e si coltivavano le scienze
storiche ed una nascente archeologia.
Il 20 aprile del 1686, nell’Oratorio di san Bartolomeo, a
Bordighera, si creava un Parlamento di ventiquattro elementi che
gestiranno la Magnifica Comunità degli Otto Luoghi, per oltre un secolo.
Per la indegnità dei Magnifici filogenovesi che l'amministravano,
Ventimiglia aveva perduto definiti-vamente le sue Ville.
Il 16 dicembre 1354, la gareota “San Nicolò”, ancorata
in flumine Vintimilii, appartenente anche al patronus: Giovannino
Giudice di Pietro, notabile ventimigliese, era pronta a navigare contra
Venetos, Cathalanos et contra quoscumque inimicos et rebelles comunis
Ianue ....
Il 16 agosto 1357, alcune galee genovesi, al comando
del Doge Simone Boccanegra, catturavano una galea di Monaco ancorata nel
porto di Ventimiglia.
Il Lago funzionava pienamente, il 16 luglio 1357,
quando il capitano Villa entrava nel porto di Ventimiglia, al falso
scopo di catturare una galea di Monaco e permettendo al doge Boccanegra
di risottomettere la città.
I Ventimigliesi avevano contato sulla possibilità di un
riscatto nella politica dell'imperatore Federico II° di Svevia. Morto
costui, nel 1250, le residue speranze si sopirono definitivamente.
Il Pontefice in carica, il genovese Innocenzo IV°, in lotta con lui per
il potere laico, si prospettò come il vincitore assoluto, sia per la
questione temporale, ma molto di più per l’appoggio dato al potere
emergente della sua patria genovese.
Buona politica di Genova era stata quella
di costruire quanto aveva distrutto con la guerra. Ancora nei primi anni
del 1300, fervevano i lavori per l’aggiunta di un tratto murario attorno
al Murrudibò, come quelli di adattamento delle semidistrutte canoniche,
riedificate intorno ad una specie di chiostro.
Padre Bonaventura da Bagnorea, divenuto generale
dell’Ordine francescano, nel suo passaggio per il viaggio di ritorno da
Parigi, dove aveva insegnato filosofia, pare abbia indicato la
costruzione del convento, fuori le mura di settentrione. Sempre al
Bonaventura si deve il rifacimento della porta maggiore della
cattedrale, che aveva sofferto nel terremoto del 1212 e nell’assedio del
1221. Venne edificato allora l’attuale peristilio esterno, coi proventi
delle elemosine richieste dal padre durante le prediche in Cattedrale.
Avrebbe lavorato ai conci del portico della
Cattedrale il magister antelamus Bertramus, della guarnizione di
Castel del Colle, mentre un certo Blancus de Molzano ha lavorato
a Ventimiglia e a San Remo. Anche buoni pittori operavano nelle
guarnigioni in quel periodo: sul primo pilastro di destra della chiesa
di San Michele sono visibili una cornice fitomorfa ed i capelli di quel
che poteva essere un San Cristoforo affrescato in quel tempo. La Loggia
del Parlamento potrebbe essere stata costruita in quel periodo. In un
documento dell’epoca veniva nominata una Porta Nova, sul versante
occidentale del promontorio.
I Frati Minori Francescani si insediavano
all’interno delle mura, in quella che era stata magione dell’Ordine
Templare, nei pressi della porta di Francia. Dovrebbero esser
sorti, intorno a questo periodo, il quartiere del Campo, e quello del
Lago.
Il 12 luglio 1262, ad Aix, con un trattato,
Genova si era accordava con la Provenza per la spartizione della Contea
di Ventimiglia, secondo una nuova linea di confine.
1) Nel 1239,
Pereto di Ventimiglia riceveva da Nicolò Beccoroso Lire 52 per
negoziare, uniti nel commercio. Nel 1245, Baratterio di Ventimiglia
nominava un procuratore per riscuotere un credito; qualche giorno dopo
riceveva da Gando di Rogerio e da Bonaventura di Rollaria Lire 9, per
commerciare navigando sulla saettia Fulcone. Poco dopo riceve altre Lire
9 in "panatico" da Ogerio di Sozilia, con la promessa di restituirne 18
dopo il primo guadagno, o di restituire il capitale se non guadagnerà
nulla. Negli stessi anni Baratterio ricevette un mutuo di Lire 20 da
Guglielmo di Bobbio, al quale promette Lire 40 dopo il primo guadagno, o
il capitale restituito, navigando sulla saettia "Draconus".
Atti notarili similari ci svelano come, qualche anno più tardi, Corrado
Intraversato di Ventimiglia consegnava a Pietro Marino Lire 5 "gratis et
amore" per commercio, ricevendo la promessa di restituzione in Nizza o
in altro luogo sicuro. Guglielmo Mano di Ventimiglia consegnava Lire 19
in "panatica" a Giovanni di Brossana alle solite condizioni. Nel 1253,
Guglielmo Curlo di Ventimiglia commerciava a Tunisi. Nel 1259, Pietro di
Anselmo Melagino di Ventimiglia, assieme al nobile Ottone de Giudice,
parteciparono all’assedio di Damiata, durante la crociata, condotta da
San Luigi, re di Francia. Riusciamo persino a scoprire come il porto
fosse funzionante; per il fatto che, nel febbraio del 1260, vi sbarcava
il principe spagnolo Manuelhe, figlio di Ferdinando III°, il Santo. Nel
1284, Ventimiglia partecipava alla battaglia della Meloria, con sei
nocchieri, 120 balestrieri e l80 vogatori, guadagnandosi la stima dei
genovesi.
2) I Grimaldi acquistarono i feudi di Villeneuve, Cagnes, Antibo,
Grassa e Boglio, diventando i signori più potenti delle Alpi Marittime.
Interrato nel 1221, il porto
canale ventimigliese, deve essere tornato a funzionare, ben presto, sia
militarmente che attraverso la ripresa dei traffici se, già nel 1235,
Ventimiglia mandava una galea per combattere a fianco dei genovesi nella
conquista di Ceuta, mentre in tema commerciale si hanno precise notizie
in merito.1
Il 21 settembre 1339, vi fu un così grande diluvio che
devastò la città compreso il porto, …. trascinò via il ponte e tutti i
mulini non lasciando nulla nei pressi.
A Nervia, non era più funzionante il fortilizio di Portiloria,
dove, per tutto il Medioevo, prima i Conti e poi il Comune vi tenevano una
guardia armata per la sicurezza del ponte in legno e come posto di dazio.
La Provenza si era annessa il territorio che dalla Turbia andava ai
distretti di Sospello, Molinello, in Val Bevera; Fontano, Breglio,
Saorgio, Castiglione e Briga in Val Roia; Rocchetta e Pigna in Val
Nervia. Genova conservava le terre di Monaco e Ventimiglia, con le sue
Ville fino a la Penna, oltre a Perinaldo, Dolceacqua e Castel Doi,
l’attuale Castelvittorio. Tenda e La Briga restarono in possesso dei
Conti di Ventimiglia; Poipino, Mentone resteranno ai Vento, loro
Signori. Ughetto Spinola riceveva Monaco, tolta ai Grimaldi, infudando
Esa, Turbia e Roccabruna.2
L’alta valle della Roia veniva inglobata nella
contea indipendente, retta dai conti ventimigliesi ormai malvisi in
patria ed esiliati da Genova per inadempienze. La divisione politica
innescava lo Scisma diocesano, con un vescovo scismatico in Sospello.
Ventimiglia, privata del suo retroterra in Val
Roia, si trasformava in piazzaforte di frontiera, con un ruolo economico
sempre più asfittico. I confini stabiliti ad Aix, consolidatisi negli
anni, segnarono una demarcazione anche linguistica e culturale,
sostanzialmente conservata fino ad oggi.
Nel 1409, il Re di Francia cedette
Ventimiglia e Monaco al Conte di Provenza, rinunciando di riconquistare
il governatorato genovese perduto. Fra la Provenza e Genova si accese
allora una gara a chi per primo se ne sarebbe impadronito.
In uno scontro presso la
Corsica i genovesi distrussero la prima squadra provenzale, mentre
Ottobono Giustiniania inseguiva la seconda, che riuscì a raggiungere
Monaco. Ventimiglia rimase così scoperta e il Giustiniani se ne
impadronì e la mise a sacco.
Nel 1425, il Comune con la delibera:"pro
faciendo plantare urmos ante ecclesiam et pro ipso aquando",
decideva di guarnire la "platea crotarum" di alcuni olmi
verzeggianti, per ridare alla piazza l’antico "splendore con i tolti
alberi voluti dai nostri antenati". La "platea crotarum" si
stendeva davanti al palazzo vescovile e la stessa Cattedrale. Si tratta
dell’attuale piazza Cattedrale, oggi soffocata dal tremendo palazzone,
dell’ex seminario, che sostituì la piazza medievale, sotto gli olmi
della quale, i notai stendevano i loro rogiti.
Nel 1453, per timore di un’invasione dal
Piemonte, i genovesi rendevano intransitabile la strada diretta da
Ventimiglia a Breglio, costruita nel 1448, lungo la val Roia.
Nel 1476, finiva il movimento autonomista
ventimiglise. Con la sua fine cominciava la lenta decadenza di
Ventimiglia, resa ancora più grave da un fenomeno geologico contro il
quale non avrà poi più i mezzi finanziari di lottare: l’interramento del
porto-canale.
Il 26 ottobre 1499, Luigi XII, Re di
Francia diventando signore di Milano e governatore di Genova, prendeva
possesso di Ventimiglia e di Penna.
Il 25 febbraio 1514, Genova cedeva
per cinquant'anni Ventimiglia ai Protettori delle Compere del Banco di
San Giorgio.
Per
domare i ventimigliesi Genova aveva mobilitato persino l'imperatore
Federico II, il quale aveva delegato alla bisogna Ottone del Carretto,
ma non bastò.
Nel 1221, i soldati genovesi comandati da
Sorleone Pepe, per organizzare un asfissiante assedio alla testarda
Ventimiglia, hanno costruito la nuova città della Bastida, sulle rive
del Resentello nei pressi della chiesa di San Simeone alle Barme,
presente dal 1194, dove poi sorgerà il convento agostiniano.
Cintarono la Bastida con opportune mura e la munirono di seimila fanti,
concedendo di potervi costruire una casa ai sempre più numerosi
fuoriusciti da una Ventimiglia affamata.
Per contenere gli
approvvigionamenti verso Ventimiglia, costruirono due muraglie a
relativa distanza dalla città assediata. A controllo della strada di
Ponente, costruirono Porta Canarda, congiungendola con opportune tratti
di mura, sul terrazzo naturale a strapiombo verso il mare, al potenziato
Castel d’Appio, ponendo così un occhio anche sul passo di Sant’Antonio,
mentre a Levante eressero una lunga muraglia dalla Bastida al culmine
del colle delle Mauře, dove impiantarono un piccolo fortilizio.
Nel tratto intermedio di quelle mura, ad un’altitudine di cinquanta
metri, proprio sul bastione roccioso a precipizio sulle Asse; i Genovesi
aprirono la Porta delle Mauře; mentre antistante l’attuale chiesa di San
Secondo (tra gli scambi dei binari ottavo e decimo) era ancora presente,
fino all’ultimo anteguerra, la Porta delle Asse, entrambe conosciute
come Portasse, le quali dovevano dominare la nuova strada d’accesso alla
Bastida, che era stata spostata di sana pianta sulla collina.1
Quella muraglia, era proditoriamente rivolta al
controllo dei Ventimigliesi, infatti la strada per l’ispezione
dell’intera fortificazione era stata costruita a Levante delle mura:
Ancor oggi se ne conservano alcuni tratti.
Il tratto di mura, innalzato verso Levante, oltre a
contenere la Porta delle Mauře, era a protezione del sottostante
accampamento genovese, eretto ai piedi della parete dirupata, il sito
del quale conservò, almeno fino agli inizi dell’Ottocento, il toponimo “Cabane”,
derivatogli dalle costruzioni provvisorie per acquartierare i soldati.
Fu Lottaringo da Martinengo, che nel 1221, progettò di far scavare un
canale lungo circa due chilometri, che convogliasse le acque della Roia
a levante, così da rendere in secca il porto canale, che per essere reso
ulteriormente inagibile, venne trovato con l’imboccatura sbarrata da un
cofano pieno di ghiaia e sassi.
La zona delle Asse doveva essere stata convenientemente allagata,
deviando i tratti terminali della Roia e della Nervia ad impaludarsi
nell’intera superficie litoranea. L’acqua della Roia avrebbe fornito
anche alimento ad un lago scavato in località Paschei, assai discosto
dalla città assediata, la quale rimase priva del fossato naturale
rappresentato dall’acqua della Roia, a vantaggio della Bastida che con
quel nuovo canale possedeva anche un comodo attracco per le merci
importate, custodite nei magazzini ricavati in ampi fondaci, presso la
foce del Resentello. Quella zona ha conservato a tutt’oggi il toponimo
Fondega. Il canale che alimentava l'attracco e andava poi ad allagare le
Asse, costituiva il fossato protettivo della Bastida e dell’accampamento
genovese eretto in “Cabane”.
La strada di accesso alla Bastida da Levante si
inerpicava dunque sulla collina delle Mauře a partire dal luogo dove
nell’Alto medioevo era posta la Portiola o Portiloria, una sorta di
fortilizio che controllava l’accesso al territorio ventimigliese.
Correva con un sentiero a mezza costa per raggiungere la Porta delle
Mauře, onde poi calare con una mulattiera piuttosto appesa, all’interno
delle mura genovesi, fino al corso del Resentello e la Porta delle Asse.2
1) Le Porte sulle Mura Genovesi delle Mauře, progressivamente
abbandonate dopo la conquista di Ventimiglia, sono rimaste inattive da
quando venne ripristinata per intero la strada litoranea, nel XV secolo.
Da allora i ventimigliesi la battezzarono “e Portasse”, parafrasando lo
stato di abbandono con l’epiteto dovuto all’odiato fortilizio. Anche le
mura attorno alla Bastida vennero progressivamente demolite, ma non le
case che alcuni ventimigliesi si erano ivi costruite; tali abitazioni
formarono il nucleo iniziale del Sestiere di Sant’Agostino, detto anche
Cuventu, conosciuto dall’Ottocento come u Valun.
2) Sulle Fortificazioni delle Mauře, Andrea Capano ha pubblicato su
La Voce Intemelia, nell’agosto del 1977.
Nel XII secolo il porto canale doveva essersi notevolmente ampliato,
conside-rando che i moli a settentrione avrebbero accolto naviglio dove
oggi esiste il Magazzino officina comunale, il
Camping Roma, la linea ferroviaria per la Francia, il Tennis Club, la
Bocciofila, il Campo Sportivo, lo Stadio Morel ed un buon tratto dei
Pratoni Galleani.
Sono molte le testimonianze di persone vissute negli Anni Trenta
che affermano la presenza di un antico molo portuale corredato di bitte
ed anelli, confermando come questi fossero presenti su entrambi i lati
trasversali del molo.
Questo era a monte
del ponte ferroviario, sulla sponda di ponente, ove oggi trovano spazio
i campi di allenamento del Tennis Club Ventimiglia.1
Il Lago si sarebbe esteso dunque al centro dell’attuale alveo della Roia,
dove avrebbe troneggiato perciò il terrapieno che deviando la corrente
principale del fiume verso Levante, e costringendola in un opportuno
canale, avrebbe fornito la forza motrice a numerose segherie che
producevano legnami ad uso cantieristico navale.
Le segherie, concentrate in un luogo chiamato
“Serre”, dove oggi è via Tenda ed è stata ubicata per molto tempo
la Conceria Lorenzi, lavoravano ancora, a fine Ottocento,2 i
legnami provenienti via fiume dai boschi di Tenda, che sarebbero stati
radunati in un ulteriore lago, da situarsi davanti all’attuale cimitero
comunale, fino al confine con la zona che supporta oggi i terrapieno
degli svincoli Sud del casello autostradale.
Per tutto il Medioevo, la forza idraulica, sviluppata
dal braccio di corrente della Roia, avrebbe dato movimento alle segherie ed ai
mulini di proprietà dei Conti di Ventimiglia. Mentre i fabbricati che
contenevano le segherie sarebbero stati ubicati sulla sponda sinistra del canale
di corrente, addossate alle falde della collina di Siestro, non lontano dalle
Gianchette; i fabbricati dei
mulini invece, a causa della importanza della derrate alimentari trattate; erano
situati sulla riva destra del canale di corrente, sopra l’isola permanente,
chiamata “i Guréti”, al fine di essere protetti, con ponti levatoi o con
“cianche” da eventuali malintenzionati.
I materiali e le
derrate prodotti in Ventimiglia venivano certamente esportati, ma avrebbero
potuto fornire la materia prima al locale cantiere navale ed all’arsenale, i
quali avrebbero permesso ai Ventimigliesi di armare una cetea, nave dai cento
remi, nel maggio dell’anno 1219, mentre i Genovesi li stavano minacciando per
terra e per mare.
Reminiscenza territoriale del canale di corrente, è rimasta nel toponimo
ottocentesco Gianchette; il quale deriverebbe dal cinquecentesco Chianchette,
rinvenuto nel locale Archivio di Stato. L’origine etimologica potrebbe derivare
da “cianca” nel significato di “sorta di riparo con grosse travi e terra usato
nell’antica fortificazione od in idraulica”, lo stesso che “palancola”.3
Potrebbe trattarsi persino delle opere per la deviazione praticata dai genovesi
durante l’assedio del 1221; i quali potenziarono il canale, portandolo a fornire
acqua al lago d’approdo della Fondega e proseguendo fino alle Asse, per
allagarle, proteggendo con il fossato la Bastida e le Cabane del Campo genovese. Ma potrebbe anche riferirsi al canale duecentesco, innalzato
per imbrigliare il ramo in correntia del fiume, deviato all’altezza di Roverino
onde ottenere il Lago portuale alle falde della città medievale.
L’etimo dunque prenderebbe il significato di “tavola
che serve da ponte volante tra un natante e la terra”, ponendo il sito in
qualità di scalo fluviale; oppure le tavole volanti servivano a praticare gli
orti ricavati sulle falde della Riva sinistra, tra Siestro e le Rocche di
Roverino.4
Era in uso che le famiglie in grado di
costruire ed armare una galea a loro spese acquisivano il diritto di alzare una
torre nel paese; privilegio che faceva passare gli arricchiti borghesi nel campo
degli odiati. signori. Le torri erano le abitazioni degli "homins maiores"
o "domini" ed erano elevate nel castrum, giammai nel borgo, dove
rumoreggiavano e prevalevano gli uomini della Compagna.
La crisi, che colpiva tutta la piccola nobiltà europea,
dovuta alla diminuzione del potere economico di nobili e cavalieri, aveva
segnato la famiglia contile ventimigliese, la quale dapprima non era stata più
in grado di concedere prestiti, poi consegnò una parte delle terre, a titolo di
garanzia, ai monasteri, alle chiese ed ai borghesi, infine vendendo, pezzo a
pezzo, le terre ricevute in eredità, anche al Comune genovese.
Per tutto il Medioevo i ventimigliesi
armarono legni corsari per depredare navi commerciali di passaggio che
diventavano facile preda essendo allora la navigazione quasi esclusivamente
svolta sotto costa. Intanto il Libero Comune Marinaro ventimigliese si era
talmente irrobustito da aver potuto prendere in pugno la difesa territoriale
della Contea, con le sue sole forze; mentre la penetrazione genovese in Provenza
non stava ottenendo successi, a causa del consolidamento difensivo incontrato.
Nel 1192 il conte Ottone di Ventimiglia firmava
infatti una convenzione con Genova, nella quale prometteva di non armare più
navi corsare.5
Ma questo non bastava all’emergente Genova, che
voleva attrarre a se le attività dei ventimigliesi. Nel 1219, Genova si
presentava "con tre galere e tre altri vascelli", davanti al porto di
Ventimiglia e catturava un vascello carico di frumento.
Nello stesso periodo una "cetea" ventimigliese,
grossa nave con cento remi, si impadroniva, nelle vicinanze di Trapani, di due
navi genovesi; e con una galea nel porto di Tunisi si impadroniva della nave
genovese "Benvenuta" e se la portava verso casa, vicino alle isole di Hyeres,
attaccavano un’altra nave genovese la San Leonardo.
L’anno dopo è una saettia ventimigliese che forzando
l’assedio del porto canale si rifugia in Provenza, molto probabilmente per
chiedere aiuto, riesciva a rientrare incolume nel porto di partenza. I genovesi
constatarono quanto sarebbe stato difficile sperare di far capitolare la città
assediandola, se era così facile rifornirla via mare.
1) Una di queste
testimonianze la ho raccolta personalmente dall’amico campione
balestriere, Antonio Parodi, classe 1932, il quale mi ha assicurato come
da ragazzo si tuffasse nel profondo lago, a monte del ponte ferroviario,
prendendo l’abbrivio dal molo portuale con bitte. Il fatto che le bitte
fossero presenti su entrambi i lati del molo, sia su quello di
mezzogiorno, sia su quello di tramontana; conduce a pensare che il
bacino portuale si estendesse ancora verso il Nord.
2) Luigi Ricca, da Civezza, nel 1863 - VIAGGIO DA GENOVA A NIZZA scritto
da un ligure - Firenze1871
3) La dottoressa Marisa De Vincenti-Amalberti ha trovato il toponimo
“Chianchette” in un documento cinquecentesco conservato all’Archivio di
Stato, termine che deve riferirsi alla località Gianchette, quella che
oggi ospita anche il nostro cimitero e che ricorda le rovine ed i lutti
per l’orrendo bombardamento dell'anno 1943. È vero che il luogo, prima
che venisse messo in opera il terrapieno sostenente il tracciato
ottocentesco della Strada per il Piemonte, interagiva in totale sintonia
col greto del fiume Roia, fino a far credere che il nome potesse
definire una palificazione a sostegno degli orti, ricavati sui terreni
alluvionali di braida.
4) Il significato etimologico potrebbe anche riferirsi ad un
insieme armonioso delle due accezioni riunite, onde dare il senso d’uno
scalo d’estuario, fortificato, al servizio della polveriera
ventimigliese, vincolo che la zona ha sopportato fino all’anno 1887.
5) Nel 1201, una galee ventimigliese viene inseguita da tre navi genovesi
fino in Spagna senza essere catturata. Armare una galea non era cosa da
poco. La galea era infatti la nave da guerra per eccellenze ed era
governata da più di centocinquanta uomini.
Nel periodo alto-mediovale il porto canale che sfruttava l'ampia foce
del fiume Roia era un luogo di approdo commerciale assai affollato. Il
Rossi afferma che ancora nel 1887 una iscrizione su una fontana, in
quartiere Lago, portava la scritta "ad comoditate navigantium" con la
data del 1110.
Sempre nel l887, veniva scoperto, dopo una piena del
Roia, un molo vicino alle case del Borgo Marina, sul quale erano
applicati ad uso di bitte per trattenere i battelli, tre tronchi di
colonne marmoree.
Il bastione di una Porta Marina, assai diversa da quella che vediamo
conservata, era senz’altro una delle opere di difesa del
porto.
Il braccio principale
del fiume scorreva più a levante a ridosso delle rocce di Roverino, il
cui nome deriva probabilmente da Rodolinum, nella valenza di piccolo
braccio della Rodoia; proseguiva la sua corsa verso il mare
attraversando l'attuale quartiere Convento e sfociava decisamente vicino
al Nervia, l'insenatura tra il Cavo e Siestro doveva essere più
pronunciata ed all'interno de lago che si formava, un secondo braccio
del fiume, di minor portata vi forniva l’apporto sufficiente di acque,
all’altezza della Ripa Santo Stefano, oggi Gallardi.
Quel bacino acqueo dette il nome ad un antico quartiere detto Lago.
Grazie all'ampiezza della foce e all'acque profonde e continuamente
dragate, nel lago si formava una specie di porto canale ben protetto sia
per navi commerciali che da guerra, che era considerato una statio
bene fida carinis, persino dagli annalisti e dagli uomini di governo
genovesi, del XII secolo.
È comunque documentata una notevole attività marinara commerciale della
città che già nel 1140 si scontrava con la potenze genovese.1
.
La presenza dei Saraceni al
Frassineto, determinava una situazione conflittuale e di estrema
insicurezza sul nostro territorio, come su tutto il Piemonte
occidentale, con frequenti disastrose incursioni ai danni di città,
abazie e scontri coi potentati locali. Sebbene, molti di questi, sulla
base di spregiudicate valutazioni, fossero inclini a stringere alleanze
e molto spesso ad affidare ai Saraceni il controllo di taluni importanti
valichi.
Nel Mediterraneo, dove era
scomparsa la classe dei grandi mercanti, sussistevano dei “‘negociator”‘
occasionali, che approfittavano di guerre e carestie per i loro piccoli
affari. C’era soprattutto chi seguiva gli eserciti per trarne profitto e
chi si avventurava lungo le frontiere per vendere armi al nemico o fare
baratti coi barbari e gli stessi Saraceni.
In contrapposizione, nascevano i
mercati, detti "forum hebdomadarium", fondati ovunque per tutto
l’Impero. Se ne trovava regolarmente uno ogni civitas, nei borghi, in
prossimità delle abbazie. I contadini dei dintorni, vi vendevano "per
denari", al dettaglio ed erano anche importanti come luoghi d’incontro.
L’imperatore Carlo ne aveva proibito lo
svolgimento di domenica. Non bisogna confonderli con le fiere annuali,
che si tenevano, nei monasteri, il giorno della festa del santo. Vi
affluiva la "familia", che veniva da molto lontano, ed avevano
luogo transazioni di compravendita tra i suoi membri. Quasi ovunque, la
festa religiosa coincideva con la fiera, alcune delle quali divennero
molto frequentate.
Dalla metà del X secolo, il territorio che
sulla costa era delimitato tra Nizza ed Oneglia, tutte le Alpi
Marittime, le Cozie e parte delle Graie, facevano parte della marca
Arduinica, col territorio di Ivrea e verso Sud, fino al Monferrato
escluso.
L’assegnazione della Contea di Ventimiglia a
questa marca è confermata dalla presenza, sul territorio di Dolceacqua,
dei monaci benedettini provenienti dalla casa di Novalesa, che in quel
periodo, avevano ricevuto un fondo ed una chiesa in feudo.
Da Dolceacqua, si dipartiva una “‘Strada
del Sale”‘, che dagli approdi di Mentone e Ventimiglia, attraverso i
crinali che costeggiano la Roia, il Colle di Tenda ed i crinali
prealpini del cuneese, portavano a Novalesa, a Susa, proseguendo per
Ginevra.
Dopo la liberazione dai Saraceni, lungo tutta questa “‘Via salis”‘ erano
presenti insediamenti benedettini, legati a Lerina ed a Novalesa. Il sale
trasportato proveniva dalle saline di Lerina, di Hyers e di Peccais, nella
Provenza.
L’Italia settentrionale e quella centrale si
trovarono saldate all’edificio imperiale da forti legami. Per la prima volta,
furono deliberatamente attratte verso il centro dell’Europa; al quale guardavano
anche prima, senza individuarne i nessi di collegamento e di coesione; furono
costrette a volgersi verso il nord ed il nord-est, mentre la parte occidentale
era attratta verso il nord-ovest.
Nel frazionamento del territorio, seguito alla
disgregazione dell’Impero, si formarono principati o marchesati, abbastanza
vasti, che diventeranno autentici Stati. Alla nostra storia influivano da vicino
i Marchesati di Toscana e d’Ivrea. Questi si spartirono i territori secondo una
sfera d’influenza omogenea, predisponendo tutto l’arco litorale della Liguria,
quale zona di ulteriore confine. Ne approfitterà Genova per inserirsi nei giochi
di dominio.
Nella Marca Littora, la Contea di Ventimiglia
comprendeva l’intero bacino idrografico del Fiume Roia, con le fortezze dei
dintorni di Sospello, La Piena, Saorgio-Malamorte, Breglio, Tenda, Briga,
Baiardo. Queste erano presidiate dalle milizie della nobiltà locale, come lo era
la costa, nelle fortezze di Eze, Monaco, Roccabruna, Mentone, Ventimiglia e
Montenero.
Nell'anno 979, Teodolfo, vescovo di Genova,
conduceva alcune famiglie d’agricoltori ad occupare i "loco et fundos
Matucianos", oggi San Remo, ed a dimorare in "loco et fundo Tabia",
oggi Taggia.
L’espansionismo genovese produceva le prime
abili mosse. Sia la nobiltà genovese che quella ventimigliese prosperavano con i
commerci, ma specialmente con azioni navali "corsare". La differenza che porterà
alla sopraffazione genovese, stava nella possibilità di usufruire di un porto
naturalmente più efficace. Un golfo naturale, ottimamente strutturato dai
genovesi, contro un porto canale, delicato nelle strutture e malamente sfruttato
dai ventimigliesi.
Nell'anno 990, potrebbe aver avuto
inizio la costruzione della Cattedrale romanica, sul terreno occupato
precedentemente da una chiesa preromanica, edificata sulle fondamenta di una
precedente bizantina o normanna, che aveva preso il posto di un tempio pagano,
dedicato a Giunone.
Attorno all’anno Mille, il Capitolo
ventimigliese svolgeva le Rogazioni, che si credono istituite da san Mamerto, a
Vienne, verso il 470.
Queste erano processioni di popolo, che avevano mete in
località campestri, dove si recitavano particolari litanie, per propiziare il
raccolto. Le guidava il canonico primicerio, di estrazione popolare, indossando
il piviale. Secondo il Rito Ambrosiano erano svolte in maggio. Il lunedì dopo la
domenica che seguiva l’Ascensione, si imponevano le ceneri e ci si recava in
processione a Santo Stefano, una chiesa situata in Ripa, sotto l’Auregnana, che
cadrà in rovina nel XVI secolo. Il martedì la processione si recava a San
Lazzaro, la chiesa sulla Rocca, dove nel 1505 verrà eretto il convento
dell’Annunziata. Il mercoledì la meta era l’altare nella barma che si
apriva, con altre cavità, al disopra dei Paschei. Nei pressi di quella grotta,
dal 1194, sorgerà la chiesa di San Simeone alle Barme, nella località che dal
1222 varrà detta Bastida, o volgarmente Bastia. Dalla seconda metà del XV
secolo, quest'ultima destinazione sarà sostituita con la chiesa di San Rocco,
dopo Nervia, oggi in territorio di Vallecrosia.
1) Da antichi atti notarili risulta che: nel 1190, il ventimigliese Guglielmo Corrado, aveva un "bucio" col quale commerciava in Sardegna; Oberto Traversato di Ventimiglia, diede in affitto la propria nave ad Ugo Pappazella e a Guglielmo i quali pagarono Lire 14, con la promessa di fare attenzione alle navi pisane, sebbene Ventimiglia, nel 1170, avesse stipulato un patto di alleanza con i pisani stessi. Nel 1191, Pietro Genoardo, Pietro Lavorante e Guglielmo Lambrusca di Ventimiglia, commerciavano acciaio e falci, portandole a Marsiglia. Nello stesso anno: Guglielmo di Ventimiglia commerciava con Alberto di Fontana, a Ceuta. Nel 1203, Ugo Gesso di Ventimiglia commerciava con un suo bucio; mentre, nel 1206, Bovo, drappiere di Ventimiglia, trafficava in fustagni.
Nell’anno 643
dell’Era Volgare, il longobardo Rotari metteva a ferro e fuoco Luni,
Savona, Noli ed Albenga; si dice che Ventimiglia non venisse toccata, ma
soltanto dieci anni dopo, le notizie paiono diverse. È stata quasi certa
la distruzione di Lumone, oggi Mentone, che vide i propri abitanti
riparare sui monti e fondare il paese di Sant’Agnes.
Sovente, l’invasione longobarda lasciava inalterato lo
status sociale ed economico dei territori interessati alla conquista.
Erano le “fares”, composte da poche famiglie di nobili longobardi, a
prendere in mano il governo delle città conquistate, lasciando i compiti
amministrativi ai precedenti funzionari.
Quasi certa è stata la continuità specialistica sulla gestione in
materia marittima, dove i Bizantini erano maestri ed i Longobardi
digiuni. Nel caso di Ventimiglia, la presenza del Porto-canale ancora
funzionante alla foce del torrente Nervia, base d’appoggio della flotta
bizantina, nei suoi commerci verso la Provenza; continuerà ad essere
gestito dagli specialisti dell’Impero d’Oriente.
Nell’anno 653 il longobardo Rodoaldo, successo al padre Rotari,
concedeva agli Intemelii di ricostruire la loro città alla foce della
Nervia, mentre una fortezza longobardo-bizantina stava per essere
costruita sul culmine del Cavu, a ridosso della foce roiasca, il
Castrum Bintimilium, governato da un "Magister militum" e
presidiato da truppe confinarie, in parte distaccate dall’esercito
imperiale bizantino, formate da veterani e da soldati reclutati sul
posto.
Al servizio di questa fortezza, un altro Porto-canale stava
prendendo forma, nel grande Lago ai piedi dello Scoglio, poco addentro
alla foce della Roia. Più protetto della vetusta attrezzatura nervina,
dalla presenza del fortilizio costruito sullo sperone del promontorio,
in quel periodo, serviva unicamente al traffico inerente i tronchi
d’albero ed il legname proveniente dai boschi attorno a Tenda; ma
quando, con la minacciosa presenza dei navigli saraceni sul nostro mare,
verrà abbandonata la struttura portuale nervina e potenziato il nuovo
porto roiasco, il complesso militare, marittimo dello Scögliu diventava
assai importante.
Monete di Giustiniano, rinvenute nel corso degli scavi, per le
fondazioni del Monastero delle Lateranensi, e dell’oratorio di San
Giovanni o santa Chiara, confermerebbero la presenza di un nucleo
abitato e di un foro, nella città medievale, fino dal secolo VI. Questi fatti sarebbero accaduti nel corso della
seconda metà del VII secolo.
Già alla
fine del secolo VIII, il porto canale del Lago rappresentava una stazione
marittima di una certa importanza, sia per il traffico dei legnami della
Media ed Alta Val Roia, sia per l’importazione dei generi necessari alla
crescente comunità intemelia, ma soprattutto alle merci che prendevano
la via del Basso Piemonte Occidentale, o ne provenivano.
I moli principali accoglievano le navi dove oggi
troviamo eretti i
palazzi del Borgo e la casa Sismondini, le casette lungo Corso Francia
ed il garage della Riviera Trasporti; dove operano: una segheria, un
autolavaggio, alcuni fabbri ed un meccanico. Dai moli si accedeva con
opportuna strada in salita, attraverso la Porta del Ciousu, dentro le
mura che ospitavano fondaci e magazzini ben protetti.
Anche la frequentazione dell’abitato di Sapèrgo o
Sepélago, alle spalle di Capo Ampelio, quale borgo fortificato,
presso il monastero benedettino, è attribuibile a questo periodo.
L’attuale Seborga, allora nominata Sepulcaru, poteva assumere il
ruolo di "ultima dimora" dei notabili locali.
Nella prima metà del secolo VIII, i Saraceni, operanti sovente con uno
scarso numero di armati, ottenevano l’alleanza dei "pravi homines",
servi e schiavi che invocavano da tempo un trattamento più umano ai
dirigenti locali. Questi, aggregati ai Saraceni, dettero
inizio ad una intensa e spietata azione demolitrice contro i monasteri,
i beni ecclesiastici e le proprietà curtensi.
Tutti i monasteri della zona costiera, se
non furono distrutti vennero abbandonati ed i monaci portarono al sicuro
i loro tesori, cercando rifugio nelle città fortificate. Genova, Asti,
Torino, Marsiglia, Arles e Tolone accolsero monaci, vescovi e
aristocratici fuggiaschi. I piccoli centri costieri restarono per lungo
tempo in abbandono, con le campagne incolte e deserte.
Molte diocesi restarono per anni, senza
vescovo, tra queste: Aix, Digne, Nizza, Senez, Antibo, Vence e Sisteron.
Non seguirono questa sorte le sedi di Ventimiglia ed Albenga, anche se
quest’ultima città era circondata da vaste campagne abbandonate, ridotte
a fetide paludi.
Oltre che possedere il controllo del mare, da
dove giungevano di sorpresa sulle coste, i Saraceni avevano posto delle
guarnigioni sui percorsi di crinale più frequentati, dove controllavano
i commerci e da dove partivano per rapide scorribande lungo le vallate.
Avevano sotto controllo il Colle di Tenda, il passo dello Strafurcu e
quello di Muratone.
Nell'anno 774, nel Regno d’Italia, creato da Carlo Magno, la Liguria
Marittima fu inclusa nella Marca della Tuscia. In seno ad essa l’antico
Municipium ventimigliese ebbe dignità di Comitato, essendo eretto
a Contea, con giurisdizione su tutto il Bacino della Roia.
La necessità di trovare il legname
adatto all’allestimento di una flotta, che da Porto Pisano potesse
contrastare le navi arabe, per ora padrone del Mediterraneo, metteva in
prima fila i boschi del nostro entroterra, ricchi di bellissimi larici
ad alto fusto, insostituibili per realizzare i lunghi pennoni.
Culturalmente il basso medioevo veniva vissuto a
Ventimiglia come in ogni altra parte d’Europa, nella più degradante
insufficienza. La presenza del monastero, accertato sul capo Ampelio,
avrà certamente mantenuto un lumicino di attività legata allo studio ed
alle arti minori.
La presenza del vescovato, legato al latino della
liturgia e della elite intellettuale, non aveva alcun rapporto con la
cultura popolare. Si parlava certamente un dialetto, evoluto da un
latino compromesso dalle infiltrazioni gote e longobarde, oltre a quelle
franche e sassoni, dovute al vivace fenomeno dei pellegrini, che pur non
intervenendo nel merito della cultura, come in quello del reddito, hanno
rappresentato, per quel periodo l’unico scambio tra comunità. Fin dagli
inizi del secolo successivo, spinta da decreti imperiali, la cultura
riceveva un trattamento migliorativo, rispetto alla totale assenza delle
scuole per i secoli, a partire dal VI.
Della cinta muraria romana, attorno alla città Nervina, conosciamo: Porta della
Marina, ritrovata dal Rossi nel 1884, cui faceva capo, a sud, il cardine
massimo, verso il mare. Porta Praetoria, o Porta di Provenza, sullo spigolo a
monte, subito a ridosso del Teatro. Da scavi recenti la dottoressa Daniela
Gandolfi, nei pressi dell’antiquarium, ha messo alla luce una porta, forse
precedente alla storica via di Provenza. Ritrovava un muraglione della cinta
muraria di tramontana, dove la parte superiore era stata rialzata con l’uso di
grossi sassi rotondi di torrente, in una stratigrafia databile al V secolo.
Questo ritrovamento ha definito la continuità nell’abitabilità della
Città Nervina almeno fino a tutto il VII secolo.
L’Itinerarium maritimum, databile al IV secolo, individuava
Albintimilium come semplice “‘plagia”‘, cioè una città priva di
porto, dotata di una semplice spiaggia attrezzata o forse d’un approdo.
La popolazione urbana era composta da chierici,
da scarsi amministratori civili, da artigiani, da qualche commerciante,
da contadini venuti a cercarvi riparo, cui si mescolavano soldati
disoccupati e schiavi in fuga. All’interno della città i produttori
avevano una collocazione del tutto secondaria; mentre scarseggiava
paurosamente il personale veramente efficiente nella amministrazione
politica ed economica.
I pochi mercanti che sopravvivevano e si
dedicavano al traffico locale ed al commercio del denaro, avendo
rinunciato agli affari a lunga distanza, erano sempre più estranei al
corpo sociale, mentre venivano sempre più emarginati dai settori
produttivi dell’economia.
Con questo, la città, privata della vitalità e perso
l’equilibrio sociologico, non esercitava più alcuna influenza sulla
campagna vicina, né era più legata ad essa. La crescente insicurezza,
culminata con l’invasione gotica, indusse al declino della “‘città
Nervina”‘, favorendo lo spostamento del nucleo residenziale sul colle a
ponente della foce del Fiume Roia, usata già da tempo come porto canale.
Anche verso il promontorio retrostante Capo Ampelio si rivolse l’esodo,
dalla Città Nervina, nel luogo di Sapergo.
Nell'anno 381, l’imperatore Teodosio intimava di
chiudere i templi, di distruggere gli strumenti dell’idolatria, di
abolire i privilegi dei sacerdoti e di confiscare i beni del culto a
beneficio della chiesa cristiana o dell’esercito.
Sul poggio dominante la foce della Roia, pare fossero
presenti due templi pagani. Un tempio dedicato a Giunone, nel luogo
stesso dove sorgerà la cattedrale cristiana ed un tempio dedicato ad
Apollo, sulla terrazza dove sorgerà la romanica chiesa di San
Michele. Nella Città Nervina, la chiesa dedicate a
Santa Maria era costruita sulla base di un antico tempio romano
distrutto, forse, per editto di Teodosio.
Nella Gallia, Martino di Tours muoveva alla testa dei
suoi fedeli monaci a distruggere gli idoli, i templi e gli alberi sacri
della sua vasta diocesi, sostenuto da una miracolosa potenza o dalle
armi materiali. L’editto di Teodosio tendeva ad abolire le feste solenni
che si tenevano all’ombra degli alberi sacri, nelle campagne. Erano
elencati e condannati i lumi, l’incenso, le ghirlande e le libagioni di
vino, comprendendo in questa rigorosa condanna i diritti dei clan
domestici e dei penati.
Nell’anno 584, un autentico diluvio sommergeva l’Italia. Tutta la
penisola veniva travolta da abbondanti e continue piogge.
Alluvionate certamente Verona e Roma; ma rimane memoria di come tutti i
fiumi italiani avessero creato problemi alle città di pianura e di
costa.
Probabilmente anche la città Nervina, già pressoché disabitata dovette
essere vittima delle inondazioni provocate da Nervia e Roia. Poteva
essere questo un motivo in più, per trasferire la sede cittadina
sull’altura dello “Scögliu”, che rappresentava una rocca quasi inespugnabile, protetta com’era
da una costa scoscesa e friabile, a Ponente, e dal corso della medesima Roia, da Levante.
Nel secolo V o nel VI dell’Era Volgare, il progressivo
accumularsi del ripascimento marino, verso Collasgarba, ha steso un
abbondante letto di sabbia e ghiaia sulla Albintimilium imperiale
romana, in regione Nervia, cancel-landola alla vista sommaria e persino
dalla memoria.1
In quel
periodo, la città tardo romana e neo bizantina, stava già subendo un progressivo
abbandono, a favore dei siti attorno al Castrum bizantino insediato sulle
ultime propaggini dello Scoglio, nei pressi del Cavu. Dal VI secolo, dunque, il costante miglioramento delle
tecniche di escavazione e di idraulica hanno consentito di far
funzionare quel nuovo porto canale alla foce della Roia, deviandone e
costringendone la vigorosa corrente verso Levante. Si poteva certo
dragare alla base dello Scoglio, fino a permettere a robuste navi di
raggiungere l’ampio Lago, sottostante l’attuale chiesa di San Michele,
così ben protetto.2
Allo stesso tempo il canale dragato, d’accesso al porto,
funzionava da invalicabile fossato, a protezione delle mura di Levante
della costruenda città, dove viveva una società ricca e
straordinariamente in ripresa, che aveva saputo raggiungere un equilibrio e si
era data una struttura notevolmente diversa da quella del periodo romano
classico. La società e la cultura erano dominate da un’aristocrazia
senatoria arricchita dall’accaparramento dei terreni. La nuova
classe dirigente usciva, quasi sempre, da famiglie con forti radici locali.
.
Nel tardo impero, tutti i tentativi
popolari di procurarsi protezione e riparazione dei torti dovevano passare
attraverso un grand’uomo, un “‘patronus”‘, che faceva sentire la propria
influenza verso l’autorità centrale. Questi legami non erano affatto
oppressivi. Solo una costante protezione personale e la fedeltà al grand’uomo
poteva superare le immense distanze dell’impero. Una vita più locale, stava a
significare che alcuni elementi della civiltà romana si erano diffusi molto
lontano.
Intesi a dominare la costa del Mediterraneo
occidentale, al nascere del VI secolo, i Goti di Teodorico avrebbero occupato
anche Ventimiglia, presentandosi come delegati dell’Impera-tore d’Oriente.
Anch'essi conservarono la moneta, gli uffici di pedaggio, e tutta
l’organizzazione fiscale della Provincia Maritima Italorum, in ciò
aiutati dalla Chiesa, che in quel periodo stabiliva le “diocesi" quali lo furono
le circoscrizioni amministrative romane, oltre alle “civitates", ognuna delle
quali ha un capoluogo ed un ampio territorio rurale attorno.
1) Le
memorie si risvegliarono nel tardo Ottocento, quando gli scavi nei
cantieri della ferrovia riportarono le antiche vestigia sotto gli occhi
degli archeologi; mentre per gli agricoltori della zona, i casuali
ritrovamenti di reperti antichi, scavando il terreno, anche per esigenze
edili erano ricorrenti da tempo e procuravano interessanti introiti.
2) La
situazione della città medievale intemelia, sullo Scoglio, rispecchiava
la logistica dell’altra stazione marittima che si era affermata fin
dall’antichità nel seno naturale di Portus Herculis Moneaci. Un emporio
fortificato posto sulla cresta d’una Rocca ben difesa, che si specchiava
su un attracco naturale, nel caso di Monaco, ed un porto canale ben
mimetizzato, nel caso di Ventimiglia; che aveva dalla sua un ampio
retroterra ed una buona percorribilità verso il Basso Piemonte. Si può
notare come in entrambi i casi, la rocca a ridosso del porto si chiami
"u Scögliu".
Ancor oggi, una
fitta rete di mulattiere e sentieri collega l’Alta Via dei Monti Liguri alle
campagne di fondovalle e viceversa, anche se le numerose strade interpoderali,
ricavate con quegli arditi sbancamenti possibili con l’uso dei moderni
escavatori, relegano le antiche mulattiere al completo disuso ed alla
conseguente sparizione.
Tra le più importanti, di queste antiche bretelle, è da
considerare la mulattiera di Siestro, che dalla località Serre, dov’era la
Conceria Lorenzi, porta al Santuario della Madonna delle Virtù, tanto caro ai
ventimigliesi fin dal Sette-Ottocento.
Dal XIII secolo, quella mulattiera aveva sostituito il
percorso introduttivo verso il crinale Collasgarba-Cuřumbin, giacché il percorso
di Collasgarba era stato isolato dalle mura genovesi, costruite nel 1221.
Anche la
mulattiera delle Mauře, era stata interessata da quell’isolamento, essendo,
infatti, controllata dalle Portasse, che volgevano anche un occhio indiscreto
alla mulattiera dei Martinazzi, che nell’Alto Medioevo serviva anche la grangia
e l’antica chiesuola di San Martino, della quale oggi restano le contenute
rovine.
Da allora, era tornato ad essere privilegiato il
passante che dalla Medievale chiesa di San Giacomo, attraverso l’abitato di
Martinazzi ed il Passo della Pia, sul culmine di Siestro, portava al Santuario
della Madonna delle Virtù, nodo viario del percorso di crinale verso
Ventimiglia. La Chiesa di San Giacomo, che precedentemente era dedicata a San
Cristoforo, è sempre stata facilmente raggiungibile dal fondovalle della Nervia
lungo il vallone di Seborrino, sul crinale da Bigauda a Monte Fontane.
Le pendici Sud-Est di Magliocca sono ancor oggi
percorse da mulattiere o da strade carrabili, quelle che hanno sostituito gli
antichi tragitti pedonali di collegamento verso la strada dello Strafurcu,
appendice dell’antica via Domizia.
Significativa nel tempo è stata la serie di mulattiere
che oggi sono state sostituite dalla carrozzabile via Sant’Anna. Traevano
origine dal sito di Ripa Santo Stefano ed inerpicandosi per l’Auregnana
raggiungevano il percorso di mezza costa che dal Forte San Paolo oggi è
collegato con Seglia; quel percorso che nel tempo ha sostituito il camminamento
di crinale che, abbiamo visto essere il debutto della strada per lo Strafurcu.
I punti di immissione con la strada di mezza
costa sono stati a Nord delle Lisce e nei pressi di San Bernardo. Il punto di
immissione sull’antico percorso di crinale potrebbe esser stato proprio il sito
di Castel d’Appio.
Presso Albintimilium era situato un posto di dogana, dove si pagava la
"quadragesima Galliarum", per le merci ed i soggetti di passaggio.
Con la creazione della provincia delle Alpi
Marittime, nel 14 a.C., fu tracciato il definitivo confine occidentale e
settentrionale del Municipio di Albintimilium, il quale coincise con il
tracciato naturale del bacino del Roia, quale sbocco al mare del Piemonte
sud-occidentale, nei termini della entità geografica "Italia", alla quale
economicamente appartenne.
Caio Cornelio Tacito
descrive nelle sue Historie, un episodio della lotta tra Otone e Vitellio,
conseguente la morte di Nerone. La flotta d’Otone, navigando sbandata, metteva a
saccheggio, la campagna di Ventimiglia, governata da seguaci di Vitellio;
uccidendo la madre di Gneo Giulio Agricola.
Questa viveva nell’attuale piana di Latte ed era
la saggia matrona intemelia Giulia Procilla, moglie di Giulio Grecino, noto per
gli studi sulla vite, esperimentati sulle falde di Piemmatone.
Intorno al 90 a.C., sarebbe stata eretta una
chiesa cristiana nell’Albintimilium Nervina, usando le strutture d’un tempio
dedicato a Diana.
Il Discorso de rebus Italiae cita: "Alpium
Intimilium magna civitas quae comprehendebat duo suburbio, et suburbium
occidentale erat presens Albintimilium, in quo habitabant illi soli, qui rebus
valebant militaribus. In Albintimilio erat magnum templum Dianae dirutum".
Girolamo Rossi aggiunge come questo tempio ancora si vedesse prima del 1836,
quando venne distrutto nel tracciare la strada Aurelia, presso il cavalcavia,
che lo tagliava in mezzo, ed era di tre belle navate, composto tutto di pietra
scalpellata.
L'anno 107 a.C. è stato decisivo nella sistemazione viaria, lungo la
costa. Essendo state sottomesse tutte le tribù liguri costiere fino al
Varo, erano rese percorribili le strade di collegamento intervallivo.
Con l’arrivo sul territorio intemelio dei Consoli
romani, conquistatori, giunsero anche due strade consolari, la Via
Æmilia Scauri e la Via Domitia. La più importante venne costruita, nel
109, dal console Marco Emilio Scauro, partiva da Piacenza,
passando per Voltri, fino a Marsiglia, ricalcando per sommi capi
l’itinerario della strada Heraclea,1 ma sostanzialmente spostandolo
presso la costa, non più impenetrabile, protetta com’era dalla “Pax
Romana”, o meglio dalla sua potente flotta.
Il
tracciato della via Æmilia Scauri, entrava nel territorio intemelio
sulle pendici di Capo Nero, seguiva la costa fino a Capo Ampelio, per
poi allontanarsene di un miglio, fino al tempietto dedicato ad Apollo,
che oggi è rappresentato dalla chiesetta di San Rocco, a Piani di
Vallecrosia.
Attraversata la Nervia con un guado, a settentrione del
Porto Canale, lambiva le prime case di Albion Intemelion, alle falde
della Collasgarba, per proseguire ai piedi delle Mauře, attraversando il
Resentello con un guado e costeggiando la collina di Siestro fino ad un
altro importante guado, per attraversare la Roia tra le attuali
Gianchette e la Ripa sottostante l’Auregnana, chiamata in seguito Ripa
Santo Stefano.2
Giunta sulla riva destra della Roia, si inerpicava sullo
Scoglio, dov’era un tempietto dedicato a Giunore Regina, per poi voltare
verso il Colle e scavalcarlo in località Peidaigo, sopra i Due Camini.
Degradando sulle falde delle attuali Ville, giungeva oltre il Murru
Russu, dove affrontava la piana del Rio Latte, presso la foce e
costeggiando la riva superava Punta Mortola.
Sempre costeggiando andava oltre l’attuale Mentone, per
superare Lumone alla base il Capo Martino ed inerpicarsi verso la Turbia,
da dove scendeva sulla pendici Sud-Ovest di Mont’Agello verso Cemenelum.
Con la costruzione della Via Æmilia Scauri si ebbe
dunque una vera e propria strada di cornice, lungo la costa della
Riviera di Ponente, che, dalla Gallia, conduceva oltre l’Appennino,
verso quella Pianura padana lombarda che sarà punto d’attrazione delle
future attività politiche liguri.
Com’era uso in quei tempi, anche tra le antiche
popolazioni intemelie, gli spostamenti avvenivano per itinerari di
crinale; giacché, allora, i percorsi di fondovalle erano sconsigliati.
Il letto dei corsi d’acqua era costantemente insidiato da frane ed
inondazioni incontrollabili; inoltre, percorrendo i crinali si dominava
il territorio e si aveva la percezione immediata di un brutto incontro,
con notevoli prospettive difensive. Per lo stesso motivo ed in accurata
coerenza, gli insediamenti abitativi del tempo erano posti in luoghi
dominanti, sovente inaccessibili da tre lati, come dimostrano le
tipologie dei “castellari” ritrovati sul nostro territorio.
Dall’Emporio Nervino si inerpicavano sulla Collasgarba
e sulla collina delle attuali Mauře due importati percorsi di crinale,
oggi conservati alle dipendenze della famosa “Alta Via dei Monti
Liguri”, che è anch’essa il percorso di crinale che unisce Ventimiglia a
Ceparana di La Spezia.3
Le due mulattiere iniziali, che li hanno contrassegnati
nei secoli, si ricongiungevano in un punto dove l’esperienza ha voluto
un riferimento sacrale. La chiesuola di San Giacomo ha conservato
l’eredità di qualche faunus o tempietto primitivo, che da sempre avrebbe
segnalato l’importante crocevia, magari con un nome di una certa
importanza.4
Le masserizie sbarcate nell’Emporio marittimo
iniziavano così il viaggio verso il primo, relativamente vicino,
castellaro di Ciaixe, per proseguire poi su Cima d’Aurin, Tramontina,
Bassa d’Abeglio, Cuřumbin, Testa d’Alpe e, quasi costantemente in
crinale, raggiungere il Saccarello e poi il Pertegà, da dove era
possibile raggiungere il Colle di Cornio, oggi di Tenda, per calarsi
lungo i crinali del Piemonte, raggiungibili anche percorrendo i
malagevoli crinali del Marguareis.5
Punti nodali di questo percorso, erano situati
nei pressi del Monte Cuřumbin: in quel punto vi giungeva il crinale
Grimaldi-Granmondo-Olivetta; a Passo Muratone, lo intersecava la Via
Regia, dalla Valle Argentina a Saorgio; ed anche la Bassa di Sanson,
presso la Collardente, che lo faceva incrociare con la variante Ovest
della via Marenca quella da Triora a Briga.
In epoca preromana, era dunque quello il percorso
più importante per le derrate sbarcate a Nervia, o da imbarcarvi: quando
nelle comunicazioni tra crinali, dei tratti collinari vicini alla costa,
era preferibile stare ben lontani dal mare. Per questo motivo, il primo
percorso di congiunzioni tra differenti crinali, inerente al tragitto
descritto, si dipartiva da Passo Muratone.
Su quell’importante passo prealpino ha transitato
nei secoli la rilevante Via Regia che dai crinali della Valle Argentina,
attraverso le pendici di Monte Vetta superava la Nervia, si inerpicava
verso Muratone e attraverso i crinali attorno alla Bendola, scendeva a
Saorgio, importante nodo per l’attraversamento della Roia, verso l’Authion
e la Gordolasca.
Del percorso di crinale sull’altra sponda della Roia, prima che si
verificasse la mutazione dell’ultimo tratto della Bevera, dallo sfociare
nel Golfo di Latte a diventare l’ultimo affluente di destra della Roia,
possiamo valutare il suo inerpicarsi sullo Scögliu, il Colle, il Monte
fino al Colle Appio.
Dall’Appio, voltando ad Ovest, si raggiungeva il Granmondo ed i
crinali verso Nizza; dall’altra parte si scendeva ad attraversare la
Roia, per immettersi sul crinale di Magauda, verso il castellaro di
Ciaixe e la strada per il Piemonte che abbiamo già trascorso, essendo
quella che proveniva da Collasgarba.
Proseguendo sul crinale verso Nord, si raggiungeva dunque
Monte Pozzo, da percorrere in crinale fino al Caglian, per poi voltare
sulle pendici Ovest del Monte Maltempo, verso il crinale di Collabassa,
da dove si raggiungeva il Pilone (Olivetta), sul crinale del Monte
Caviglia, verso il castellaro di Piena e le dorsali del Colle del Brussu;
oppure, guadata la Roia alle falde Nord della Testa di Giauma, si
inerpicava sul Colletto per il valico del Fanghetto.6
Dall’Età del Ferro in poi, con l’esigenza di
attraversare la Bevera dalla Maglioca al Pozzo, il cammino della draira
verso il Colle di Tenda, ha subito un progressivo abbassamento di quota,
nel tenere dietro all’erosione del letto torrentizio sull’emissario del
Lago del Serro, sempre più ridotto e costantemente più basso di livello.
LA BEVERA A
LATTE
Attraversare l’emissario verso la Roia non deve esser
stato un problema, durante i periodi di calma di corrente, da ottobre a
marzo; giacché, da aprile a settembre, nel periodo di svolgimento per
entrambe le transumanze, la pochezza delle acque avrebbe lasciato il
lago in crisi di livello, con l’emissario in secca.
La lenta erosione, che ha portato la superficie del
Lago dai 165 metri s.l.m. iniziali ai circa 40 metri della situazione
ottocentesca, ha suggerito un susseguirsi di varianti di percorso, a
quote sempre più basse, nei terreni detti “i Franchi”, con alternative
anche drastiche.7
Sul versante Gavi-Maglioca: forse attorno al 700 a.C.,
dagli iniziali 351 m.l.m., il percorso è lentamente calato di quota fino
ai 279 delle pendici di Gavi, rapportandosi ai 230 sul Pozzo. Avrebbe
potuto correre l’anno 500 a.C., quando dalla quota 200 del Pozzo si
preferì calare alla quota 144 della Maglioca, per voltare verso il
poggio di Seglia, da dove si risaliva sull’Appio.8
Al disotto dei duecento metri di altitudine, sulle
pendici Est di Pian del Pozzo, non era più conveniente risalire sul
crinale del monte, anche perché le pendenze di culmine, lungo la Colla e
il Pian, sono talmente scoscese che non permettono sorprese dall’alto.9
Si preferì allora percorrere le medie pendici di
Cola e Cian, fino alla quota, a circa 320 metri s.l.m., di Passo dello
Strafurcu, sulle scarpate Sud-Est di Monte Pozzo, nel contrafforte
roccioso che cala sulle Bocche di Trucco; da dove si riguadagnano le
alture sul Caglian e sul Maltempo.
Il giungere dei Consoli romani, da conquistatori,
avrebbe visto in attività il Passo dello Strafurcu, sulla strada verso
il Piemonte, associato alla strada Domitia, già tracciata, che dal Colle
di Tenda raggiungeva la terra dei Taurini.
Della via Domitia, restano alcuni tratti sulle pendici del
Colle di Tenda, presso Limonetto. Questa riprendeva l’antica
viabilità di crinale della Val Roia ed attraverso il Colle di Cornio la
collegava con Pedona (Borgo San Dalmazzo) Venne tracciata nel 122 a.C.,
dal console Gneo Domitio Enobarbo, quando ebbe battuti gli Allobrogi.
Per tutto l’Evo Antico ed i primi secoli dell’Alto Medioevo,
su quel tratto, il cammino dello Strafurcu ha tenuto come riferimento la
posta di Seglia e vicino al mare il bivio dei Dui Camin, sul Colle;
mentre, con l’avvento della sicurezza procurata dai Conti e dal Libero
Comune, il tratto iniziale della strada per lo Strafurcu, uscendo dalle
case sullo Scögliu, poteva scendere fino alla Ripa di San Steva,
percorrere la Maneira, guadare la Bevera a quota quaranta, poi a mezza
costa raggiungere Varase da dove saliva al Passo.10
Con l’avvicinarsi del Basso Medioevo, visto lo spostamento
dell’emporio nella Roia e l’edificazione di Ventimiglia sullo Scoglio,
la strada dello Strafurcu ha acquisito la priorità dei percorsi verso il
Piemonte, anche perché il cammino di mezza-costa che da Airole portava a
Breglio e Saorgio, controllato dalla Rocca di Piena, semplificava il
viaggio nel tratto medio-basso della Valle.
1) La prima
citazione sull’esistenza di un percorso viario, abbastanza costiero al
Mar Ligure, che attraversasse il territorio ventimigliese, è dello
storico e viaggiatore greco Posidonio, vivente fino all’anno 50 a.C.,
nell’isola di Rodi. Questi segnalò la presenza, fin dal secondo secolo
prima di Cristo, di una strada tra Piacenza e Marsiglia, che varcava l’Alpis
Summa, l’odierna Turbia. La via Heraclea o Herculea conduceva dall’Italia fino ai Celtoliguri,
alla Celtica ed agli Iberi. Se qualche Greco o indigeno vi passava, era
sorvegliato dalle popolazioni vicine, in modo che non subisse alcun
torto: infatti, questi popoli, pagavano un’ammenda per le persone a cui
era recato danno. Come riporta Apollonio Rodio, anche Giasone con gli
Argonauti vagava, dalle foci del Rodano, verso levante e solo con
l’aiuto di Era, sarebbe riuscito a passare incolume nel bel mezzo dei
mille popoli Celti e Liguri, fino all’Etruria. - … come vengono cantate
fedelmente le grandissime insegne della nave Argo, oltre questo mare,
presso la terra Ausonia e le isole Liguri, che sono chiamate Stecadi ? -
… e le isole Liguri: presso l’ltalia vi sono tre isole, abitate da
Liguri, dette anche Stoichades, o Stecadi, per la loro disposizione in
fila. - Le Isole d’Hyeres.
2) Le usurate
rovine della chiesuola di Santo Stefano, che ha dato il nome alla Ripa
fluviale, sono da ricercarsi all’interno del voluminoso terrapieno che
sostiene il deposito dei materiali edili della ditta De Villa,
confinante con la Vaseria Fonte, ad un centinaio di metri in linea verso
Nord-Est dall’ex Caserma Gallardi. La signora Vittoria Muratore, che
abitava nella villetta sotto il ciglio della curva di via Gallardi,
quando si prepara a sottopassare l’Autostrada dei Fiori, me le ha
indicate nel 1957, durante una passeggiata conseguente ad una visita di
cortesia che gli avevamo praticato in compagnia di sua sorella
Maddalena, la mia “tata” della fanciullezza.
3) Per gli escursionisti che volessero praticare l’Alta Via dei Monti
Liguri, i segnavia del percorso principale sono: banda bianca, marcata
AV, tra due bande rosse; mentre i segnavia dei sentieri collaterali
sono: marca bianca e rossa.
4) Ancora nel 1498, la chiesetta a cavaliere della colla Mauře era
aperta al culto di San Cristoforo, che dava il nome alla medesima,
intera collina. Con l’avvento del cristianesimo, San Cristoforo aveva
assunto i caratteri formali di Heracle, come lui gigantesco e come lui
ritratto mentre porta sulle spalle un fanciulletto divino. È infatti
nota la statua greca, scolpita da Fidia, dove Hercole trasporta Heros in
spalla
5) L’alternativa verso la valle della Roia era rappresentata dalla
mulattiera che dal Furquin, per il crinale Ovest di Monte Tron, porta a
Libri, da dove in quota si raggiunge facilmente Breglio, importante
crocevia fin dall’antichità.
6) Dal guado, dopo l’erta del Colletto, il crinale del Fasceu portava
verso gli Abegli e la strada dalla Collasgarba.
7) Nella seconda metà dell’Ottocento, l’escavazione praticata della Cava Acquarone, sulle falde Sud-Ovest del Pozzo, a cominciare da quota 40, ha
lasciato l’attuale situazione ambientale, che evita pericolose
esondazioni della Bevera su Calvo e magari su Torri.
8) Per i terreni del Pozzo, interessati a queste varianti di transito
delle greggi, si trattava, come è attualmente, di orridi incolti, mentre
sul versante della Maglioca i terreni erano certo alberati e forse
coltivati, tanto che le comunità d’allora decisero di renderli “franchi”
alle greggi: toponimo che conservano attualmente.
9) Il toponimo di Monte Pozzo, potrebbe non aver nulla a che vedere con
l’etimo significante: scavo verticale a sezione per lo più circolare,
praticato nel terreno per consentire l’utilizzazione di strati acquiferi
sottostanti; giacché, su tutta la sua estesa superficie non contiene
alcuna significativa trivellazione idraulica. La sua formalizzazione toponimica, facilmente, fa parte di quell’esteso numero di titoli,
assegnati dai cartografi sabaudi dopo l’unificazione del 1861. Sentendo
nominare il monte col titolo dialettale di “pözu” nell’intento di
descriverlo come: poggio - elevazione del terreno, per lo più di forme
tondeggianti; che il nostro monte assolve benissimo; il funzionario
savoiardo lo ha reso ufficiale, appunto, in “Pozzo”.
10) La quota dell’emissario era talmente bassa che diventava preferibile
il percorso di fondovalle, anche se il cammino di Seglia era praticato
ancora nell’Ottocento inoltrato. Dato riportato da testimonianze
dirette.
La tipologia
delle piene Otto-Novecen-tesche della Roia ha sempre presentato un forte
apporto di acque, atteso alle Bocche del Trucco con forte apprensione,
che è poi sopraggiunto in città con un’ondata di piena piuttosto
defluente, anche se assai corposa. Invece, le piene più terribili si
sono verificate, quando è stato l’apporto del Torrente Bevera a
raggiungere la già copiosa onda della Roia, all’altezza delle Porre.
Da quel punto, i giochi d’acqua trasversali e la tipologia
dell’onda di piena della Bevera, pressata dalla percorrenza nell’Avaudurin,
forma un livello d’acqua tale che le difese sugli argini della città
vengono messe a dura prova.
Quando poi, l’onda di piena dovesse sopraggiungere nel corso d’una
mareggiata di “rebossu”, i rischi per la città si presentano veramente
funesti.
La
succitata analisi potrebbe far dedurre la tipologia dell’evento
che può aver prodotto l’erosione delle falde Sud-Est di Magliocca,
resistite integre per molti secoli nell’antichità e quasi
improvvisamente sfaldate soltanto, si fa per dire, al termine dell’Età
del Ferro, o all’inizio dell’epoca storica.
Evidentemente, fino a quando la sopraggiunta
pratica dell’agricoltura non ha costretto l’uomo intemelio a costruire
il muretto che ha lasciato la testimonianza sul Giardin d’ê Strie, la
corrente di piena del Torrente Bevera sfociava direttamente in mare
davanti all’attuale comprensorio di Latte, come storicamente è stato.
Le pendici Nord della Cima di Gavi, il monte oggi
completamente eroso dai prelevamenti della Cava Bergamasca, erano
connesse con le pendici Sud di Monte Pozzo, nel punto dove
l’Ottocentesca Cava Acquarone ha lasciato una profonda escavazione, fino
ad una quota di almeno 170 metri, tanto da permettere il contenimento
delle acque della Bevera in un grande lago che si allargava sui siti che
oggi contengono Calvo, San Pancrazio e Torri. Avrebbe lambito il Serro,
per tracimare dai 165 metri del Passo di Sant’Antonio, tra le pendici
Ovest della Cima di Gavi e quelle Est della Cima di Terca; saltando ai
115 metri, nella bassa valle del Ruassu, che proviene dal Granmondo, ed
inserirsi così in quella che è la Valle del Latte.1
La Piana sedimentaria di Latte non potrebbe avere
la vastità che presenta, con i soli apporti del Ruassu; infatti, alle
analisi geologiche le ghiaie alluvionali della Piana risultano
provenienti dal territorio di Sospello, con i caratteri litici del
Turinì e del Brouis. La continua erosione, oppure un semplice
sconvolgimento terreno avrebbe scavata la connessione tra Pozzo e Gavi,
fino ad una quota inferiore ai 160 metri, permettendo al letto della
Bevera di indirizzarsi verso Levante e raggiungere le acque della Roia,
nel sito prospiciente le Porre.2
La prima ondata di piena che ha visto unite le
correnti della Roia e della Bevera avrebbe potuto produrre
l’intaccamento delle argille e delle puddinghe nelle falde Sud-Est di
Magliocca, erodendo il tratto avanzato della collina. Da quel momento la
forma topografica dello Scögliu si è resa sempre più simile all’attuale,
mostrando il prorompente promontorio del Cavu.
La nuova situazione avrebbe concesso a quegli abitanti
di disporre d’un promontorio difendibile presso la foce della Roia e
quindi abitabile, ma sconsigliati dalle aggressive piene della
Scciümàira ed ormai assuefatti alla calma relativa del porto canale
della Nervia,
scelsero di continuare ad abitare la Collasgarba e di creare in quel
sito il grande emporio degli Intemelii.
Al verificarsi della conquista romana, col
sopraggiungere dei coloni laziali sul territorio intemelio, quell’emporio
si rese assai abitato, di conseguenza il porto canale ormai ampliato
deviando, quando c’era, la corrente della Rivaira verso Oriente,
abbisognava di continui lavori di dragaggio ed un definitivo
inquadramento.
Nella massima espansione dell’area portuale i moli
settentrionali si sarebbero trovati all’incirca lungo l’attuale percorso
della via romana, nel tratto dove ha sede il fabbricato delle scuole
elementari di Camporosso Mare; oggi ad una profondità di qualche metro.
In quel punto, infatti, durante la costruzione delle fondamenta dei
caseggiati presenti si videro tratti di muro ben edificato con grossi
anelli e colonne in pietra (bitte) emergenti; segni essenziali per
individuare un porto.3
Ma la costante necessità di dragaggio, specie all’imboccatura del
porto canale, ha lasciato un segno indicatore di quel punto strategico,
anche quando, abbandonato l’uso del porto, le piene della Nervia e
l’apporto delle mareggiate hanno sepolto le attrezzature.
Nelle vicinanze del sito, dove oggi è ricavato il
Giardino Pubblico, sul luogo oggi conosciuto come piazza d’Armi; fino al
1930, è stato presente uno stagno abbastanza esteso, che raccoglieva le
acque piovane dalle pendici Ovest di Colle Aprosio e le smaltiva,
normalmente per infiltrazione, oppure, per tracimazione verso il mare,
durante i temporali più energici, fino alla costruzione del terrapieno
ferroviario, nel 1868. Lo stagno, segnalato dal tipo di Sanità del
Vinzoni, nel 1759, è egregiamente descritto da Nicola Orengo, in un suo
libretto, ancora nel
1929.4
“Il tratto di lido
che stendesi tra Ventimiglia e Bordighera è l’unico piano che esiste
nella Provincia. Ha un chilometro circa di larghezza su cinque di
lunghezza ed è annaffiato da quattro corsi di acqua il Roia; il Nervia e
i due torrentelli della Torre e del Borghetto; alle cui millenarie
alluvioni deve l’esistenza e la vigorosa vegetazione che lo distingue.
Un microscopico laghetto di Sant’Anselmo - unico
esso pure nella Provincia - par cascato a bella posta in tutta quella
furia di verde per gettarvi in mezzo uno strappo di quell’azzurro si
bello che gli sorride”.
.
Nel 1930, giunse a
Ventimiglia l’89° Reggimento di Fanteria ed ebbe in concessione il
territorio dello stagno per ampliare il piazzale dei Pepi, esistente nei
pressi, per crearvi la propria piazza d’Armi, in contropartita al
risanamento della zona, così lo stagno di Sant’Anselmo scompariva.5
1) Il solo
apporto idrico del Ruassu avrebbe erosa la parte alta della vallata di
Latte ad una quota meno profonda di quella scavata dalle acque
abbondanti e precipitose della Bevera.
2) In seguito al cambio di letto della Bevera, la Draira dello
Strafurcu, dal Pozzo verso la Maglioca, ha cominciato ad attraversare in
guado l’emissario del lago a quote lievemente inferiori,
progressivamente all’allargarsi piuttosto dinamico del varco torrentizio
verso la Roia, fino a quote assai basse che riportavano in ogni caso
verso la sicura “posta” di Seglia, su terreni per i quali,
nell’antichità, il raccordo collinare tra Pozzo e Gavi avrebbe
rappresentato l’estensione ideale della draira transitata dalle greggi
in transumanza, dopo la percorrenza sul crinale del Pozzo, in quota,
verso il raggiungimento delle pendici ovest della Magliocca, l’attuale
San Lorenzo, il crinale del Colle d’Appio, del Monte, del Colle e la
discesa sullo Scoglio. L’attraversamento del guado in quota ha avuto una
durata assai lunga nei secoli; potrebbe essere stato in uso ancora
nell’Alto Medioevo. La necessità di transitare con le greggi per quei
terreni alberati e paschivi, gli ha fatto conservare il toponimo de “i
Franchi”, anche se, alcune improbabili leggende, per quel toponimo, ci
tramandano la visita di antichi sudditi carolingi; di paladini intenti a
dar nomi a luoghi e paesi e persino di esuli Albigesi, in fuga dalla
Provenza. Il primo cammino avrebbe rispettato le necessità del tempo;
quest’ultimo diventava imprescindibile. Il punto d’arrivo della strada
di transumanza, con l’entrata nei rigogliosi Paschei, era sacralizzato
dalla presenza di una “crota” dedicata ad una dea agreste. Il termine “draira”,
localmente, indica il tratturo. La discesa su Varase, San Rocco e Bevera,
al guado verso le pendici di Seglia, e sempre in fondovalle tutta la
Maneira fino a San Steva, da dove il cammino riprendeva a risalire verso
lo Scoglio, sulle falde dell’Aurignagna è stato un percorso intrapreso
soltanto nel XI secolo con la relativa sicurezza tutelata dal Libero
Comune, eppoi dai genovesi.
3) La necessità di portare avanti i lavori edilizi non ha permesso un
approfondito rilievo archeologico, lasciando assumere la notizia come
casuale, ripromettendosi di riprendere gli approfondimenti in epoche più
consone.
4) Nicola Orengo - GUIDA DELL’ESTREMA LIGURIA OCCIDENTALE - Tipografia
M. Ricci - Imperia 1929
5) Pare però che fin dal 1925, il luogo conosciuto come “Piazza dei
Pepi”, dove si tenevano i grandiosi festeggiamenti popolari per San
Rocco, nella giornata seguente il Ferragosto, venisse già chiamato
Piazza d’Armi, forse in previsione. La necessità di quella Piazza d’Armi
veniva a sostituire l’uso del piazzale antistante al Municipio di
Ventimiglia: Piazza della Libertà; che in quegli anni era cantiere di
numerosi interventi urbanistici, non ultimo la costruzione della Casa
del Littorio, il palazzo in stile moderno, corredato di torre, che sarà
il nostro Municipio dal 1946.
Nell’antichità, le popolazioni intemelie scelsero la foce del Torrente
Nervia quale punto d’attracco per le loro instabili imbarcazioni,
giacché quel torrente, presentando un alveo secco per almeno sei mesi
l’anno, offriva la presenza stabile delle acque di falda, ad un discreto
livello, nel lago permanente che si forma da sempre in prossimità della
foce.1
Allo stesso tempo, le acque di piena, pur presentando
un notevole fronte d’impatto, sono sempre state assai gestibili; poiché
l’intero rilievo displuviale della vallata è ben visibile dalla foce. Si
può dunque valutare l’entità delle precipitazioni, in un invaso neppure
oltremodo vasto.2
Oltre a questo, per attrezzare i servizi ad un porto-canale, la collina
che da Ponente si specchia in quel lago paludoso; era adattissima al
recupero di abitazioni naturali, essendo sforacchiata da numerose
grotte, ma soprattutto per la presenza, a mezza costa sul suo lato di
Levante, dell’ampia barma che ha definito il toponimo della
collina medesima: la Collasgarba.3
La collina presenta fianchi scoscesi, quindi assai
difendibili, dal punto di vista di quelle popolazioni, che riscontravano
nemici e pericoli da ogni parte; inoltre l’esposizione del crinale
ascensionale, principale, rivolto a mezzogiorno, la rendeva un luogo
ideale per lo stazionamento invernale.
Dalle grotte alle capanne, edificate proprio sul medio
crinale aprico, l’emporio degli Intemelii, servito da un porto canale in
espansione ed assai ben gestito, prese forma sulla Collargarba.
L’estuario della Roia, invece, si presentava di
larghezza assai ridotta per come lo possiamo vedere oggi. Lungo
tutti i mesi dell’anno, l’intero alveo è stato sempre percorso da una
vivace corrente; tanto che, il lago di calma riscontrabile nei pressi
della foce, facilmente, non esisteva neppure.
Le acque di piena della Roia prospettando un considerevole
fronte d’impatto, non sono mai state per nulla gestibili; poiché la
linea di cresta della displuviale, lungo tutta la vallata, non è per
nulla visibile dalla foce e non si può dunque valutare, dall’alveo
terminale, l’entità delle precipitazioni, in quell’invaso, indubbiamente
molto vasto.4
Oltre a ciò, la collina che fronteggiava la foce
non si dimostrava molto adatta allo stanziamento abitativo difendibile,
in considerazione della scarsa presenza di grotte; a causa della
composizione del terreno d’allora, quando costituiva la maggior parte
dell’ampio affioramento, nell’epoca appunto; una miscela di argille e
puddinga, agevolmente sgretolabile ed, a tratti, scivolosa.
La collina d’allora avrebbe presentato fianchi ampiamente digradanti,
che contenevano nel loro più profondo interiore quella massa rocciosa
che ha poi costituito “u Scögliu” dove è stata edificata la città
medievale. Era quella una situazione per nulla difendibile, da nessuno
dei lati, compreso quello dolcemente declinante verso il mare e quello
altrettanto digradato verso la Roia.
Il sito era certamente esposto tra il Levante ed il
Mezzogiorno, ma la tramontana che cala dalle Alpi Marittime non era
molto compatibile con lo stazionamento invernale non attrezzato.
Si può presumere che prima dell’Età dei Metalli;
sul lato di Ponente, i fianchi di quella collina discendente dal Colle
dove ora troneggiano le rovine di Forte San Paolo, scivolassero, per
nulla scoscesi, fino a coprire ampiamente Murru Russu e le Calandre; dopo l’affiorante Punta della
Rocca avrebbero contenuto nel loro più
profondo interno gli Scoglietti, la Pria Naviglia e la Margunaira,
mentre il culmine dello Scoglio Alto avrebbe potuto essere appena
emergente, a metà circa del declivio.
Sul lato di Levante, il declivio avrebbe
contenuto al suo interno le Lisce, l’Auregnana, Peglia, la Colletta, la
Rocchetta, il Borgo fino a metà degli attuali ponti, indi avrebbe
digradato sugli interi attuali Giardini pubblici, per andare a smorzare
il suo pendio nei pressi della Riana delle Vacche, mentre il Resentello
sarebbe stato l’ultimo affluente di sinistra della Roia.5
L’ampia e digradante collina, che
chiameremo Sud-Est di Magliocca, avrebbe costretto il corso finale della
Roia a ridosso del contrapposto declinante colle, il quale dal vertice
delle attuali Mauře, sarebbe calato, sulla riva sinistra, a coprire il
centro Studi di via Roma, con l’attuale via Turati, via Gramsci ed oltre
metà di via Dante, lambendo tutta la lunghezza dell’attuale vico Asse e
coprendo oltre metà di via Tacito, tutta via alla Spiaggia, via
Lamboglia e metà di lungomare Varaldo. L’acqua della Roia avrebbe
raggiunto il mare davanti alle Asse, sulla Carma d’i Pasciensa.6
Nel corso dell’Età dei Metalli, dal 2900 all’800 prima
dell’Era Volgare, sul nostro territorio giungeva, in avan-guardia, la
pratica dell’allevamento ovino, seguita da quello bovino, anche se in
quantità marginali; quindi quelle ampie e vezzeggianti colline
digradanti sul mare si mostravano terminali perfetti per la transumanza
invernale. Residuo di quell’uso era rimasto nel toponimo i Paschei,
ancora vivo nel primo Novecento attorno alla foce della Roia.7
Vicino all’anno 1000 a.C., si sarebbe insediata anche
la pratica dell’agricoltura, che avrebbe trovato sulle panciute falde
del Colle d’Appio ed attorno al Colle, dove troverà posto il Forte San
Paolo, il terreno ideale. Ma agricoltura e pastorizia, specialmente
caprina, non vanno d’accordo; allora sarebbe stato necessario costruire
un muretto per separare il sito dei Paschei, sulla direttrice: Ponte
Nuovo; piazza Cattedrale e Scoglio Alto.
Infatti, quando avvenne l’erosione che sbancò le
argille e le puddinghe dalle pendici del Cavu, attorno alla Margunaira e
lo Scoglio Alto, sul culmine di quest’ultimo restò un piccolissimo
tratto di quel muretto che per molti secoli protesse ancora, lassù in
alto, una pianta di olivastro ed un cespo d’alloro, creando un
miniambiente vegetale che era popolarmente conosciuto come “u Giardin
d’ê Strie”.
Pastorizia ed Agricoltura ci potrebbero segnalare
quindi, come al concludersi dell’Età del Ferro, o persino in una prima
epoca storica, si sia dunque potuto verificare la forte erosione delle
argille e delle puddinghe che ha cancellato le estreme, ampie falde
Sud-Est di Magliocca. A provocare una così intensa azione corrosiva
potrebbe essere stata un’aumentata potenza distruttiva nell’onda di
piena della Roia.
1)
Ritrovamenti casuali di antiche mura affioranti nel greto del Nervia e
sulla spiaggia antistante, avvenuti nella seconda metà dell’Ottocento,
avevano decretato l’evidente antica presenza del Porto canale nervino.
Nel 1946, scavando nel Lago della Roia; il ritrovamento di un’àncora,
poi scomparsa, avrebbe datato quello scalo marittimo all’Era Antica,
facendo ipotizzare la tesi che il Porto canale di Nervia non fosse mai
esistito, mentre quello della Roia fosse stato l’unico Porto intemelio
ad essere stato funzionante.
2) Da maggio a settembre, quando anticamente era operante la
stagione della navigazione sotto costa, la portata del Nervia si
annullava totalmente, salvo casi rarissimi, permettendo il tranquillo
attracco del naviglio, che veniva tratto in rimessaggio nei mesi di
assenza della navigazione.
3) La vastità della grotta, la sua difendibilità, la relativa
facilità di accesso con carichi pesanti e soprattutto, la ragionevole
salubrità del sito, ne avrebbero suggerito l’uso per un perfetto
magazzino.
4) Le precipitazioni intuibili al disopra delle poche cime visibili
dalla foce non sono però prevedibili nella loro tipologia (acqua o neve
= immediatezza o discontinuità); inoltre l’intero, vastissimo bacino
della Bevera e le valli dei numerosi, quanto estesi affluenti, non sono
per nulla visibili.
5) Il toponimo Paschei, che dal XVI secolo ha caratterizzato il
terreno di pascolo della transumanza invernale, tra i pantani della
foce, nella Roia, non aveva senso sito sulla riva sinistra, giacché il
tratturo più importante della zona calava lungo la riva destra. Avrebbe
avuto senso se assegnato ad un ampio pascolo marino, ma sulla riva
destra.
6) La tendenza della Roia a spostare verso levante la propria foce,
al termine di piene particolarmente abbondanti è reminiscenza della
tendenza primitiva. Il sito, assai eroso, della Càrma d’i Pasciensa
avrebbe permesso alla corrente di superare la cospicua altura che
sarebbe emersa al disopra dell’ampia Secca Ciata, guadagnando il mare
aperto a Levante di questa. Dopo lo sbancamento della collina Sud-Est di
Magliocca la corrente cominciò ad erodere a Ponente della Secca,
isolandone le alture dalla terraferma.
7) Da sempre, al termine di una forte ondata di piena la corrente
della Roia, costretta forzatamente dall’uomo a sfociare sulla riva di
Ponente; per i giochi delle correnti marine e delle pendenze
territoriali naturali, disponga la propria foce rivolta a Levante, con
la costruzione di un abbondante pennello di ghiaia. Considerando la
tendenza citata, possiamo fissare, il sito del toponimo Paschei, sulla
riva destra, contrariamente a come lo abbiamo ricevuto nell’Ottocento,
costretto sulla riva sinistra dall’intervento umano.
Il tracciato della via Heraclea è segnato in alto a destra del riquadro per esigenza grafica; in effetti, memorie della sua presenza in Val Nervia lo indicherebbero nei pressi di Dolceacqua.
Nel corso della così detta Età dei Metalli, dopo aver abbandonato le
caverne dei Balzi Rossi, quali abitazioni naturali ed averle rese
santuari della loro vita sociale e religiosa, gli uomini che abitarono
il Ponente ligure costruirono le capanne dei loro villaggi sui culmini
delle dorsali montane accessibili, dopo avervi eretto un vallo di
protezione tutt’attorno ed a volte anche una robusta palizzata.
Avevano attentamente scelto tali posizioni dominanti, da dove poter
controllare, con largo anticipo qualunque vivente si fosse avvicinato.
Le prospettive migliori le offriva un culmine montano che avesse avuto
caratteristiche di dirupo, o di scarpata inaccessibile, almeno da due
lati dell’insediamento.
Noi abbiamo assegnato a queste entità territoriali stanziali il nome di
“Castellari” e sappiamo quanto fossero diffusi sulle alture che
sovrastano le basse e medie valli dei corsi d’acqua più importanti,
diradandosi mano a mano che le alture si facevano più impegnative.
Le tribù più importanti e numerose soggiornavano
in più castellari, facendo in modo che fossero otticamente
visibili tra loro; potendo così segnalare a vista qualunque notizia
importante e non rinviabile.
Questa scelta principale impegnava, per conseguenza, il
sistema di collegamento dei percorsi tra castellari, che si dipanava
soprattutto lungo le sommità dei crinali. Dov’era possibile, dunque si
tracciava il sentiero sulla linea displuviale, abbandonandola il meno
possibile, allorché si era costretti dalla morfologia del terreno.1
Nell’economia di allevamento ed agricoltura, i
primitivi Intemelii praticavano anche i corsi d’acqua di fondovalle e
certamente la riva del mare, dove qualcuno di loro navigava,
persino; ma gli insediamenti abitativi più
vicini alla costa erano situati sui poggi
delle sommità più elevate o più strategiche, collegate da opportuni
camminamenti in costa.
Dal punto di vista orografico, la Zona Intemelia concedeva
ottimi siti per castellari lungo la dorsale che dalla Collasgarba
si volge verso Passo Muratone; infatti oltre all’insediamento al culmine
della Colla medesima, il quale nei secoli a noi più vicini avrebbe dati
principio al sito della capitale degli Intemelii, servita da un
importante porto canale, erano presenti castellari in Ciaixe,
Cima d’Aurin, Monte Abeglio, Terca, Furcuin e Testa d’Arpe.
La dorsale sulla riva opposta del Nervia, trovava
insediamenti sulla Cima Croairöra, Belavista, Rebüfau, Monte Cagiu,
Monte Acüu, Monte Veta, Monte Meřa e Monte Ceppo. Verso il mare: Peiga,
Sapergo e Montenero.
La dorsale sulla destra del Roia ha ospitato siti
sulle alture di Maglioca, Pözu, Martempu e Piena. Sopra Capo Mortola:
Belenda e Carpan; verso Occidente: quelli che oggi sono Castelar, Sant’Agnes
e Gorbio e sulle pendici di Mont’Agel: Munte d’ê Müre e l’attuale Türbia.
ã æ â è ç á å ä
Fin dall’antichità, l’uomo che si spostava per lunghi viaggi, aveva
necessità di trovare indicazioni sul percorso da seguire, specialmente
quando doveva affrontare un bivio mai visto prima. La solidarietà da
parte delle popolazioni stanziali d’un luogo e quella dei viaggiatori
che si erano trovati a disagio ad un bivio, hanno attivato, nel tempo,
una sorta di segnaletica d’avvertimento, sull’importanza di rintracciare
informazioni in quel punto.2
Quelle
primitive segnaletiche diventarono ben presto semplici are o sacelli
dedicati ad una divinità campestre, in seguito, a seconda
dell’importanza del sito assumevano la dedica ad una divinità più
universalmente riconosciuta. Giunone è stata la divinità lsatina
espressamente protettrice dei crocevia, forte del suo particolare
attributo di “Giunone dei crocicchi”.
Tra i Liguri intemelii doveva essere assai ricorrente segnalare un
importante crocevia adattando a sacello una grotta o una cavità
espressamente scavata. Sul primitivo santuario, l’importanza del sito ha
fatto erigere un tempio e poi una chiesa, la quale ci ha potuto
tramandare la logistica dei siti con assoluta precisione.3
Il crocevia più importante e sacrale doveva essere
situato sullo Scögliu, dove, in cavità artificiale, i viaggiatori si
sarebbero avvalsi dei presagi di una divinità femminile locale, forse
Belisama, la quale, nel tempo, è stata latinizzata in Giunone regina ed
infine cristianizzata con l’Assunta.
Nelle barme che si affacciavano di fronte ai Paschei,
aperte nelle pendici più meridionali di Siestro, si poteva contare sulle
indicazioni di un fauno locale latinizzato forse nel divino Eracle, cui
dovrebbero esser state dedicate le pendici rocciose retrostanti,
conosciute oggi come Mauře, cristianizzate in San Cristoforo e poi San
Giacomo. Quel crocevia dava l’indizio delle mulattiere che volgevano
verso Siestro e le Mauře, appunto.4
Sul nostro territorio, altre grotte, o “barme”, hanno
contenuto o contengono riferimenti sacrali, in siti che erano sede di
importanti crocevia, che nel tempo sono state segnalate da importanti
monumenti cristiani: il Santuario di N.S. delle Virtù, la scomparsa
chiesa di San Stefano in Ripa, San Michele sulla Colletta, San Pancrazio
di Calvo, Sant’Antonio in Val Latte, San Martino al Resentello e forse
anche San Lazzaro sulla Rocca, poi convento dell’Annunziata, era sorto
su una primitiva grotta.
La scelta del sito non era mai casuale, infatti, l’ubicazione
derivava dalla sensibilità che quegli uomini conservavano ancora verso
le coordinate del magnetismo terrestre, qualità che l’uomo d’oggi ha, in
generale, completamente perduto.
I sensi dell’uomo primitivo avvertivano costantemente le
canalizzazioni magnetiche che il globo terraqueo produce in termini ben
precisi, anche se un poco fluttuanti; seguendo quei flussi l’uomo
viaggiatore determinava la validità del suo percorso. Al sorgere di un
eventuale dubbio, il sacello sacro a quella determinata divinità, eretto
su un punto d’intersezione di due flussi magnetici ortogonali, dava
l’indicazione sul percorso da seguire in seguito, a seconda degli
attributi collegati alla divinità medesima, comunemente noti, o
solamente intuiti, al tempo, dalla pratica dei viaggiatori.
1) La scelta di
percorrere i crinali, durante i continui spostamenti, era stata messa in
atto dalle primitive tribù che praticavano la sussistenza da cacciatori
e raccoglitori, giacché avevano accertato quanto fosse importante Il
procedere potendo controllare, con largo anticipo, il territorio che
stava loro attorno, per tutto il volgere dell’orizzonte visivo. Questo
semplice accorgimento concedeva la certezza di non venir sorpresi da
agguati inopportuni; inoltre, affrontando continuamente paesaggi
sconosciuti, il fatto di dominare l’ambiente dall’alto concedeva di non
smarrire l’itinerario prefissato, ritrovando con immediatezza soluzione
alternative ad eventuali asperità invalicabili. La stanzialità degli
agricoltori non aveva potuto cancellare le primitive abitudini
conseguite, che si mostravano decisamente valide: tanto che ancora alla
fine del XIX secolo le popolazioni dell’immediato entroterra preferivano
percorrere la fitta rete di percorsi di crinale, anche se erano da poco
realizzate le comode strade di fondovalle.
2) Tra la gente di montagna, questa usanza trova applicazione ancor
oggi. Lungo un percorso ascensionale, dove è difficile avere sott’occhio
la situazione sui camminamenti più appropriati, è consuetudine di
aggiungere un sasso alla montagnola di pietre che ci ha indicato un
bivio importante. Più la montagnola risulta corposa e più la strada
dovrà essere frequentata e sicura.
3) In molti casi, la presenza sul sito di un eremita, il quale
poteva anche assumere funzioni di oracolo, concedeva al santuario una
presenza sacerdotale spontanea, che oltre a concedere le indicazioni
richieste, produceva presagi a buon prezzo.
4) Il 9 luglio dell’anno 1194, i consoli ventimigliesi Fulco
Nolasco, Corrado Mirabello, Fulco Bellaverio e Guido Siro concedevano ai
canonici di edificare e gestire, presso le Barme di Siestro, una chiesa
dedicata a San Simeone. Sarà soltanto nel 1345 che Babilano Curlo,
auspicando, nel testamento la fondazione di un convento di canonici
Agostiniani, in Ventimiglia, patrocinava la costruzione della chiesa
dedicata a San Simeone. Su quel luogo, il 7 marzo del 1487, dietro
istanza di fra Giovan Battista Poggio, vicario generale degli
Agostiniani, il vescovo intemelio Alessandro Fregoso poneva la prima
pietra del convento dedicato a N.S. della Consolazione, nel luogo detto
“Bastita”, ora detto quartiere di Sant’Agostino, o Cuventu.
La
presenza di una estesa quantità di terre emerse, antistanti le
frequentate grotte dei Balzi Rossi, è un’indicazione assai riconosciuta
dagli studiosi del settore.
Nel corso dell’Era Pleistocene, il territorio che avrebbe poi
ospitato la comunità ventimigliese, si sarebbe esteso, su quello che
oggi è il fondale marino che fronteggia i nostri paesi, per almeno
undici miglia.1
I fondali avrebbero conservato l’attuale profilo, per un
primo tratto di circa sei miglia, abbastanza scosceso, ma fruibile, che
avrebbe proseguito con altrettante miglia di deciso falsopiano,
affacciato su una ampio zona sostanzialmente pianeggiante, che oggi è
sprofondata in un abisso tra i più profondi del Mediterraneo.
Nella cartina, il territorio preso in esame nei secoli successivi, è contenuto nel rettangolo di mm. 8 x 5, sito tra il corso della Nervia e quello della Bevera, tagliato in due dall’alveo della Roia, che proseguirebbero poi in un unico letto principale.
La Bevera non sarebbe stata affluente della Roia in zona Porre, com’è oggi, ma sulla base dell'orografia sommersa dell'epoca e quella delle situazioni sottomarina attuale, le sue acque sarebbero state raccolte a meridione, dopo circa quattro miglia.
Ripercorrere l’evoluzione storica di un territorio è cosa assai
ardua, ancor più se si vuol praticare la ricerca nel periodo
preistorico, per il quale anche l’archeologia non può fornire documenti
certi, a meno che non gli capiti di reperirli casualmente o li vada a
ricercare seguendo le labili indicazioni fornite dalla tradizione, dalle
consuetudini o dalle leggende.
In questo lavoro si è cercato di unire i dati storici
universalmente riconosciuti alle evidenti consuetudini popolari, alla
trasmissione di memorie ed alle leggende comunemente convenute, per
proporre una possibile visione del territorio, attorno alla sua
evoluzione nel corso dei secoli.
Un ruolo importante, per l’insieme del lavoro, lo ha
sostenuto la Toponomastica, specialmente quella non più evidente, ma
conservata appunto tra le consuetudini e le memorie popolari.
Con l’aiuto delle moderne
tecniche digitali si è potuto intervenire, per sommi capi, sulle
fotografie aeree eseguite dalla De Agostini per “Aeroguide”, nel 1980; e
più di recente di Google Earth,
così da ricostruire il territorio come si presume possa essersi
presentato, alla luce di quel tipo d’informazioni.
Per rendere leggibili le piante topografiche si è
adottato l'espediente di tenere costantemente in evidenza il reticolo viario
dell’attuale piano urbano ventimigliese, sul quale tracciare, più
marcatamente, le presunte variabili, del passato, sul territorio.
Un segnale ben individuabile, nella localizzazione dei
siti, è rappresentato dalla linea rossa della ferrovia, che accompagna
longitudinalmente tutta la pianta, segnalando il parco binari della
Stazione con il raddoppio della linea, come il fascio binari del
dismesso Deposito locomotive si protende verso il mare, a Nervia.
Da questa raccolta di dati, sono stati estrapolati gli argomenti per un pubblico incontro, tenuto nel Salone della Civica Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia, a cura del Comitato Centro Storico, sabato 7 maggio 2005; oltre ad un Meeting Conferenza LIONS Club, in data 5 ottobre 2006; cena al Ristorante “Capannina”.