Ancöi l'è e i sun e ure
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Oliva "Taggiasca"

 

    Estese coltivazioni di oliveti della qualità "Taggiasca", qualificano il paesaggio della Riviera Ligure di Ponente. Messi a dimora in forma intensiva a cominciare dal Seicento, da generazioni di contadini ben consci di non riuscire a sfruttare intensamente l'oliveto, che avrebbe costituito opportuno sostentamento alle generazioni future.

    La lungimiranza dei monaci, che avevano consigliato l'avvio di questa grande opera, ha concesso anche alle basse Valli: Bevera, Nervia e Roia, la fortunata presenza di una estesa coltivazione idonea a produrre l'olio più buono del mondo, tutelato dalla Documentazione di Origine Protetta.

 

 

    L’ulivo, pianta le cui proprietà la farebbero definire forse magica e che, senz’altro, è la più antica del mondo.

    In queste pagine, Alberto Rebaudo, con una ricerca analitica da appassionato studioso, ne ha tracciato la storia, dalle lontane origini a oggi.

    Della pianta forte, contorta nelle sue ramificazioni e al tempo stesso aggraziata, qui è detto proprio tutto in ogni possibile aspetto: l’ulivo come sorgente di vita, legato a tradizioni antichissime, l’ulivo come elemento decorativo, come produttore di quell’elemento, l’olio, presente nei riti segreti della sacralità in quasi tutte le religioni; l’ulivo come fattore d’arte, possibile a modellarsi nelle mani di scultori di vaglia. Infine, una ricca documentazione sulla produzione olearia oggi, sul consumo dell’olio, come elemento naturale, con riflessi che corrono a ritroso nel tempo, dai più lontani frantoi a quelli modernissimi di oggi, presso le grandi case produttrici.

    Una lunga storia che ha un intento documentaristico, il sapore di un saggio e che in certe pagine rivela l’impegno di un romanzo. Lo corredano e completano una dotta e cordiale prefazione di Antonio Aniante e le brillanti illustrazioni di Barbadirame.

 

Da Cassino a Imperia

   coi Monaci Benedettini

                                                                             da L'ULIVO di Alberto Rebaudo  -  capitolo III - pag. 19

    Grazie al ritrovamento di resti nelle grotte abitate da popoli della preistoria, abbiamo potuto stabilire che l'ulivo allignava dalle nostre parti già in epoche remote. Abbiamo pure assodato che non si trattava di colture vere e proprie in quanto non si era ancora delineato l'importante ruolo che esse avrebbero assunto, col passare del tempo, nel contesto dell’alimentazione umana.

    Per giungere al riconoscimento vero e proprio dell’ulivo dovranno passare alcuni secoli. Saranno i monaci Benedettini verso il 1200 che ne inizieranno la coltivazione nella riviera Ligure di ponente col trapianto di esemplari prelevati a Monte Cassino.

    Si deve dunque a quei monaci sagaci e laboriosi la diffusione in provincia di una varietà di ulivi che si ebbe l’appellativo di «Taggiasca» in omaggio alla città di Taggia, centro di distribuzione. Questa qualità è la più coltivata ed apprezzata della Riviera dei Fiori. Un albero dalla chioma maestosa, assai sviluppata, che produce pregiatissime drupe, la cui maturazione avviene con regolarità graduale.

    Ai Benedettini si fanno risalire pure i primi contratti di «mezzadria» sottoscritti nel 930, poco dopo la disfatta dei Saraceni ad opera di Teodolfo Vescovo, con venti famiglie di Sanremo, allo scopo di «ripopolare e restituire alla coltivazione le terre che la Chiesa possedeva». (G. Battista Tirocco - Taggia, i paesi e i Santuari).

    Da questo momento la coltura olivicola si avvia, attraverso graduali miglioramenti in campo tecnologico, a diventare uno dei maggiori cespiti del reddito locale. Nel XVI secolo si comincerà a parlare di una vera e propria industria olearia in progressivo sviluppò per una serie di innovazioni apportate al sistema di lavorazione.

    Grazie all’ingegno degli abitanti di Dolcedo, ritenuti già da quel tempo maestri nell’arte dell’estrazione dell’olio, vengono impiegati i primi frantoi a sangue, così chiamati perché le mole venivano fatte ruotare nei «gombi» mediante la forza di animali (per lo più asini e muletti), così come avviene ancora oggi in molte regioni per sollevare l’acqua dai pozzi.

    È pure in questo periodo che Pier Vincenzo Mela farà la scoperta di un procedimento per lavare le sanse che consentirà un maggiore sfruttamento delle olive.

    Parallelamente al progredire dei sistemi di estrazione subiscono una graduale evoluzione tutte le attività collaterali. Un poco ovunque si aprono botteghe a carattere artigianale. Alcune di esse, col passare del tempo, si trasformeranno in avviatissime piccole industrie. Attivissime le botteghe dei bottai, specialmente a Sanremo e dei fabbri ferrai di Ceriana, reputatissimi questi ultimi nella fabbricazione dei cerchi per le botti. In gran conto erano tenute gli otri che uscivano dalla conceria impiantata a Porto Maurizio da Bertone, Conte di Ventimiglia.

    Qui, a parere degli esperti del tempo, si producevano gli otri migliori di tutta la provincia. Gli apprezzati recipienti venivano ricavati da pelli di capra conciate e cucite a forma di sacco e consentivano il trasporto dell'olio senza alterarne le caratteristiche organolettiche. Inoltre, grazie alla loro duttilità, potevano essere agevolmente sistemati sul dorso dei muli là dove, per la mancanza di strade, era impossibile l’impiego dei carri.

    Tutte queste innovazioni e l’ingegnosità degli operatori, per aumentare il livello e i pregi della produzione, favoriscono ravviamento di rapporti di affari tra gli olivicoltori e frantoiani della zona costiera con i commercianti dell’interno, piemontesi e lombardi.

* * * * *

    Oggi le vallate, le colline e le alture di questa nostra terra che per millenni ha riso al sole e rallegrato i nostri paesaggi, sommersa in una marea di verde perenne, reso più intenso dalle chiome maestose e folte di uliveti secolari, sono mutate.

    L’ulivo, dalle origini remotissime e dalle eccezionali virtù, sta attraversando, in alcune zone della nostra regione, un periodo di triste abbandono.

 

    Questo tanto celebrato simbolo di saggezza, di abbondanza, di pace e di gloria, che gli Ateniesi custodivano gelosamente nel recinto sacro a Pandroso, figlia di Cecrope, nel tempo di Eretteo sull’acropoli di Atene, è vittima della trascuratezza umana.

    - «In Italia, e in misura uguale o meno accentuata in altri Paesi - afferma il Nino Breviglieri -, la coltura ha presentato tutte le alternative: dalla rapida ed intensa diffusione, alla contrazione ed all’abbattimento degli ulivi, dalle amorose cure dell’agricoltore, all’abbandono ai pascoli armentizi ed ai parassiti, dal confronto dei prodotti copiosi e remunerativi, alle calamità atmosferiche ed all’alternarsi di scarsi raccolti e di flessioni di prezzi, dalle esaltazioni delle caratteristiche ineguagliabili del suo alimento-condimento, alla sopraffazione di volgari prodotti di equivoca origine e di anonimi olìi di specie vegetali a rapido ciclo, che non potranno mai eguagliare l’olio d’oliva».-

    Un durissimo colpo gli fu inferto durante la prima Guerra Mondiale con il taglio disordinato di migliaia di piante per far fronte all’incalzante richiesta di legna da ardere necessaria al funzionamento delle fabbriche e delle locomotive a vapore di cui erano dotate a quel tempo le Ferrovie dello Stato.

    Non meno preoccupanti per l’ulivo i continui salassi cui vengono sottoposte le piantagioni per l’approvvigionamento delle fabbriche di mobili di stile e degli intagliatori di ricercatissimi oggetti artistici.

    Eppoi, vi sono i tagli dovuti alla realizzazione delle strade interpoderali e delle grandi arterie autostradali. Si pensi che per la costruzione dell'Autostrada dei Fiori sono state sacrificate migliaia di piante. In tale frangente ci viene da pensare a che serve la famosa legge del 27 luglio 1945, n. 475, che vieta l’abbattimento degli olivi. Ma fermiamoci qui.

    Il mio intento è quello di stabilire quale sia in realtà la situazione dell’ulivo nella nostra regione, quale il posto che gli spetta, e infine, che cosa rappresenta per noi nel contesto economico, tradizionale, folkloristico, sociale e commerciale.

 

 

PREFAZIONE di Antonio Aniante

                            1974

    Il lavoro di Alberto Rebaudo non vuole essere altro che una pura e semplice carrellata panoramica sull’evoluzione dell’ulivo dalle sue lontane origini ai giorni nostri. Sono numerosi gli studiosi e i tecnici che, prima di lui, hanno affrontato la prova con l’impegno di tracciare, il più fedelmente possibile, la genesi di questa pianta secolare, divenuta, col passar del tempo, il simbolo della flora mediterranea. Ma, allorquando si tratta di avvenimenti, che potremmo definire storici, e per questo soggetti a tanti errori e deformazioni attraverso i secoli e le passioni degli uomini, prevale nell’analista, suo malgrado, la preoccupazione di valutare i fatti il più equamente possibile.

    Tutti i «forse» del narratore, diceva Renan, lasciano largo spazio ad altrettanti «forse» nel lettore. Ed è per questo insieme di sensazioni dubbiose, mai sopite, concernenti la vita dell’ulivo che è possibile riaffrontare l’argomento.

    Le innumerevoli manifestazioni della riproduzione vegetale da un lato e le esigenze della ragione dall’altro conducono inevitabilmente alla ricerca e all’osservazione. Ed è sotto questa angolazione che ha voluto esaminare lo sviluppo dell’ulivo attraverso i secoli, analizzandolo, senza ambizione alcuna, nella sua meravigliosa progressione, nel suo involo mistico e sentimentale e, infine, nel suo sviluppo scientifico.

    Tuttavia, questa distinzione che la sintesi storica impone, non deve essere intesa come se, da un periodo all’altro, potessero emergere fattori nuovi di evoluzione capaci di annullare i precedenti e, di restare completamente estranei a quelli futuri. Al contrario, il presente deriva dal passato e genera l’avvenire.

    L’evoluzione creatrice, dice Bergson, non conosce ostacoli di sorta. Ogni epoca fornisce il suo contributo, misto a quello delle epoche che l’hanno preceduta e che la seguiranno come l’onda si confonde all’onda.

    Ed è per questo che non è assolutamente possibile abbordare uno studio sull’olivicoltura moderna senza ricercare le cause materiali e sociali della sua secolare formazione. È soprattutto indispensabile riscattare dalla sua storia antica quelle leggi alle quali è inevitabilmente legata, perché parlare di evoluzione significa affermare, almeno sotto un certo aspetto, una ben determinata convinzione.

    L’evoluzione della specie non può essere capita senza prima valutarne il complesso delle eredità che l’hanno preparata e le condizioni in cui si è sviluppata. Sta di fatto che dall’Era Minoica, epoca della sua scoperta, ai giorni nostri, l’ulivo ha conservato tutte le sue caratteristiche fisiche e biologiche.

    Lo scopo di questo lavoro semplice è specialmente quello di offrire al lettore un rapido excursus sull’olivicoltura antica e moderna, lo studio delle sue condizioni etniche e geografiche e, infine, dei sistemi tecnologici che hanno via via rafforzato e perfezionato il modello originale.

                                «I Pini» - Latte di Ventimiglia, 1974

                                                                                         Antonio ANIANTE

 

P.S. - Ho prefazionato questo libro di Alberto Rebaudo non solo per il suo valore, altresì per altrettanta passione che ho per l’ulivo. Ritrovata la Liguria, dopo il mio lungo esilio in Francia, ho sempre cantato l’ulivo nei miei scritti, ed ora particolarmente mi è caro, avendone io, da oltre quindici anni, uno, maestoso e ultrasecolare, nel mio giardino. Per tutto l’oro del mondo non me ne staccherei, e, se fosse possibile, vorrei riposare, per sempre, alla sua ombra.

A. A.

 

E  AURIVE

                                                                    Ventemigliusu                               di Dalio BONO

 

    L’auriva a l’è ina cianta che a vive pe’ de’ séculi, e che a l’à de urigini antighiscime.

    Cume tüte e autre ciante a l’à, ela aiscì, u periudu de répousu d’invèrnu.

    Versu u tempu de marsu-avrì, ghe végne i primi bruti insci'a çima d’ê raméte; mazu u l’é u périudu da sciùriüra, e sciùre de l’auriva i se ciama «pàne».

    Int'i mési de zügnu-lügliu, cařa e pane e se furma e aurivéte, che int'i mési caudi i végne grosse, propiu cume «e aurive».

    Avanti ch’i maure s’e deve netezà a tèrra, suta a cauza de l’àrburu, dae érbasse, faxendu «e aire», pe’ purrè cöglie e aurive int'u nétu. L’è perché, candu e aurive i sun ben maüre, i càze da pe’ ele, ascaixi sèmpre tacae da «u vermu de San Martin», cuscì ciamau, pe’ via che e aurive i maüra propiu pe’ i primi de nüvembre.

    Pe’ cöglie cun e mae, da per tèrra, s’aduvéra «i cavagni», faiti aspressu cun vìmini o liste de castagnu intreixae.

    M’arregordu d’ina ratéla, de me’ pàire cun in cunfinante, pe’ due rame d’auriva chi se scruxiava insc’ün’àira, dandu modu de dubità insce a prupriétà d’ê aurive che i ghe saréva picae.

    Piglia a decisiun de taglià tüte e due e rame, cuscì da levasse i fastidi, a ratéla a cuntugnava pe’ via de chi duvésse taglià pe’ u primu. Pe’ mete paixe, me pàire u l’è muntau insce l’àrburu e u l’à tagliau a sou rama, speitandu che u veixìn u fesse autrétantu, ma chelu u l’è scurtìu a di’ che uramai l’èira inütile taglià a sou rama: defaiti avura l’èira ciairu cume u sù, che e aurive ch’i sereva cazüe, insce chel’àira, i sereva staite a sou.

    L’è propiu int'i nostri üsi e custümi, che u frütu cazüu insc'e aire d’u veixìn u l’è de prupietà d’u padrun de l’àrburu.

    Pe’ fenì de cöglie e aurive ancu’ insci'a cianta, i se «ramàva» picanduře cun ina sferla de ninsöra ciamà «ramavùira»; se stendeva de téře, suta a cianta, ch’i féniva pe’ cöglie aurive, föglie e raméte.

    ‘Ste téře i se catava inte l’ucaxiun d’a féira de San Giusèpe, a marzu.

    E aurive ramae i duveva pöi èsse «mundae», e pe’ fařu se pigliava due téře, üna destésa pe’ tèrra e l’autra drissà pe’ l’autu, au lau contravèntu.

    Cun ina cassa de legnu, faita aspréssu, se lansava aurive e föglie versu a tèřa contravèntu, cuscì e aurive ciü pesanti i carava int'a tèřa destésa; pe’ còntra e föglie, ciü lengéire, i vöřava indéré.

    Int'u tempu s’è spantegau l’üsu de “a chitara”, ch’u nu’ l’èira autru che in cian, inbousu, faitu cun de bachete de legnu a trei lai, messe abastansa veixine, tantu che e föglie i pichésse pe’ tèrra, intantu che e aurive i rundélava int'u sacu au fundu d’a chitara, bèle néte.

    E aurive i se mésürava cun «a carta», ina mésüra de legnu cilindrica, de vinti litri de vulüme, che a tégniva in pesu dai dùze ai trèze chiloi: tantu che e aurive «insacae» i vegniva de catru carte pe’ sacu da mima.

    Se carrégava i sachi insc'e müře pe’ purtaři a “u deficiu” duve inte «i gumbi» se franzéva e se pastava e aurive pe’ trane l’öřiu ch’u vegniva consérvau inte «i trögli» o e giarre.