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L’esilio a Ventimiglia del luogotenente Cavour

  

L’irrequieto soggiorno del giovane Camillo nella città ligure.

Dopo 150 anni rileggiamo l’epistolario del futuro statista.

                                                                                                          di Erino Viola e Serena Vatta Leone

 

    Nel Trattato di Parigi stipulato alla caduta di Napoleone, l’Austria aveva voluto che una cospicua parte del miliardo d’indennità imposto alla Francia venisse assegnato al Piemonte, affinché provvedesse a fortificare il suo confine occidentale.

    Più di Vittorio Emanuele I e di Carlo Felice, sarà il giovane re Carlo Alberto ad accogliere l’invito, facendo addirittura raddoppiare le fortificazioni che chiudevano i passi delle Alpi. Imponenti lavori verranno così eseguiti ad Alessandria, a Fenestrelle, ad Exilles, a Vinadio e altrove.

    Nei patti fra i commissari imperiali e quelli sardi si era anche convenuto che la bellissima strada detta «della Cornice» che abbracciava tutto l’arco litoranee da Genova a Nizza, non andasse oltre Savona, dimostrandosi l’Austria ancora preoccupata per altre eventuali avventure francesi.

    Del resto a causa della guerra e dello straripamento dei fiumi, quella strada aveva subito danni irreparabili per lunghi tratti. Ma il re Carlo Felice il quale (ce ne informa il Pinelli) «voleva anzi tutto i suoi comodi, annoiato di una malagevole traversia, a cui era andato soggetto recandosi alla sua prediletta Nizza [...], sollecitato anche dai nizzardi e dagli abitatori delle città poste lungo il litorale [...] vogliosi di avere una strada di comunicazione tra loro, decretò il riattamento dell’antica strada francese», provocando serie lagnanze dell’allarmata Austria. Per cui, riunitisi nuovamente gli emissari dei due governi, si decise di costruire in Ventimiglia una cittadella destinata a chiudere ai Francesi quella troppo agibile via di penetrazione.

    Furono incaricati degli studi il conte-colonnello Malaussena e il tenente-colonnello Podestà i quali, stando sempre al Pinelli, «sin dal 1827 presentarono un sistema di fortificazioni tendente al triplice scopo di battere i vicini paraggi, di chiudere la via della riviera e di servire di punto estremo di sinistra della linea militare della Roia». Questa serie di eventi fa sì che Camillo Benso di Cavour, diciottenne luogotenente del Corpo Reale del Genio sabaudo, venga destinato a Ventimiglia, trasferitevi dalla direzione torinese.

    Per raggiungere la sede di quella che era la sua prima nomina egli dovette fare il lungo giro vizioso sull’unica carrozzabile che metteva in comunicazione il Piemonte con la Riviera di Ponente. Non esistevano infatti altre vie se non malagevoli mulattiere (quella che è l’attuale strada della Val Roia sarà percorribile solo nel 1885). La sua prima meta fu Nizza, capitale amministrativa della regione e che tale rimarrà fino al 1860.

    L’avventuroso viaggio del Cavour ci viene da lui stesso descritto in una lettera del 19 ottobre 1828, dal tono piuttosto distaccato quale egli era solito usare nella corrispondenza con la madre Adele: «...La diligenza ci ha condotti a Cuneo senza fermarsi; quando ne siamo discesi erano le tre e io ero completamente a digiuno. Giudicate quale brillante appetito avessi se vi dico che il mediocre pranzo serviteci fu mangiato con vera avidità. Siamo scesi all’Albergo dei Tre Re, posta della diligenza; per una notte abbiamo preferito restare dove ci trovavamo senza cercare una migliore sistemazione altrove. L’indomani, alle due del mattino, eravamo già in viaggio, appollaiati sul davanti della diligenza, da Cuneo a Nizza; per non incorrere nei medesimi inconvenienti della vigilia, abbiamo fatto un’abbondante colazione a Limone.

    Ho superato il Col di Tenda a piedi: è una montagna, davvero impervia; per fortuna il tempo era magnifico, così ho potuto godere dall’alto del Colle di una vista superba». - (la strada allora saliva ancora fino ai Forti e non era al livello attuale della galleria che verrà aperta solo nel 1882, n.d.a.) - «La strada in discesa che porta a Nizza è proprio brutta: ci sono tante di quelle curve che ho preferito farmela tutta a piedi. Essa continua lungo la valle del Roia; non ho mai visto delle montagne più orribili, più selvagge che in quel giorno.

    Ci si ferma tuttavia con piacere davanti all’antico forte di Saorgio; il villaggio che porta lo stesso nome, costruito sulla cima di un monte, nel mezzo di una foresta di sorbi, fa un effetto dei più pittoreschi. Alla sera abbiamo dormito a Giandola, piccolo villaggio situato ai piedi del Colle di Raus. L’indomani, alle quattro, continuammo la nostra strada, la quale non fu affatto più gradevole in quanto si debbono superare due montagne eterne prima di arrivare al Payon, che si segue di poi fino a Nizza. Abbiamo pranzato molto male a Escarena e alle cinque di sera siamo arrivati a Nizza. Siamo scesi all’Hotel de Jork; è un albergo piuttosto buono ove ci hanno sistemati abbastanza bene. ... Il giorno della nostra partenza per Ventimiglia non è stato ancora fissato; attendiamo delle casse da Torino e alcune lettere del colonnello Podestà per deciderci».

    Nell’Epistolario del Cavour, da cui sono tratte la precedente lettera e altre che citeremo, non vi è traccia delle prime impressioni del tenentino circa il luogo ove è stato destinato ne tantomeno del viaggio che lo ha riportato a destinazione. Ed è un peccato perché, per raggiungere Ventimiglia da Nizza, egli percorse quella meraviglia del primo Ottocento che era la già nominata «strada della Cornice», «dont la renomée a fait le tour du monde», come si legge nelle cronache dell’epoca. Costruita fra il 1803 e il 1814, essa partiva dalla nizzarda piazza Risso (ove iniziava anche la strada per Torino) e, dopo aver raggiunto Eze, La Turbie, Roquebrune, andava a congiungersi a Cap Martin con il tronco litoranee il quale proseguiva, con fasi alterne, sino a Genova.

    Tuttavia quelle impressioni nell’entrare in Ventimiglia non dovettero essere delle più esaltanti se solo una trentina d’anni prima (i tempi non correvano come ora ...) il Foscolo potè trarre immagini così cupe di luoghi ove l’omicidio sembrava una pratica usuale: «... qua e là molte croci che segnano il sito de’ viandanti assassinati».

    Ma torniamo al Cavour. Le successive lettere da Ventimiglia vengono spedite ai familiari solo alla fine di novembre. Quella indirizzata alla madre non riporta, di locale, se non un accenno al tempo, mentre quella alla nonna Filippina parla anche del procedere lineare dei lavori e del ritorno del sereno.

    Per qualche tempo il Cavour non fa trasparire l’impazienza, che già probabilmente sentiva, di lasciare quel luogo il quale, per un giovane di belle speranze e un po’ snob come sembra egli sia stato, doveva offrire ben pochi svaghi. Ma col passar dei giorni la sua inquietudine affiora in modo evidente. La partecipa, prima che ad altri, all’amatissima nonna Filippina (che egli più affettuosamente chiama Ma(i)rina), corrispondente con cui il giovane si lascia andare a maggiori confidenze, fatte con lo stile più schietto dati i rapporti non formali che ad essa lo legavano. Leggiamo in una lettera del 20 gennaio 1829: «... I miei aumentati compiti e il maltempo mi avevano reso di cattivo umore e tolto il desiderio e la possibilità di scrivere. Fortunatamente, però, dopo qualche giorno il sole è ricomparso e il lavoro ha cominciato a procedere rapidamente tanto che io posso ora ritenere vicina la fine del mio esilio; spero che ciò contribuisca a ridarmi tutta la mia allegria e a sopportare pazientemente il periodo che ancora rimane da passare qui».

    È, questo, il primo accenno al pericoloso prolungarsi del soggiorno ventimigliese rispetto alle previsioni del giovane. Vi sono, è vero, dei lati positivi, come il clima e l’essere con tale nomina sfuggiti alla tediosità della routine nella guarnigione torinese, ma essi si rivelano tuttavia troppo esigui per la giovane età di Camillo, il suo carattere esuberante e la vivace intelligenza, per non parlare delle idee ben chiare sulla sua propria attività futura.

    Indicativa una lettera del dicembre 1828 allo zio Jean-Jacques de Sellon: «... In quanto alla particolare istruzione che io traggo dai miei lavori a Ventimiglia, non la credo affatto immensa. Non c’è istruzione veramente utile all’infuori di quella che deve servire allo scopo che ci si è prefissi; i piani che io traccio mi sarebbero infinitamente utili se io contassi di passare la mia vita nel Genio; ma dato che spero che le cose si metteranno ben diversamente non vedo proprio a che cosa mi servirà tutto ciò che io son tenuto ad apprendere nel mio mestiere. È vero che si può trarre partito da tutto, che l’applicazione agli studi fatti, qualunque sia la materia sulla quale essa verta, apre lo spirito e sviluppa l’intelletto, abituandoci a saper utilizzare la teoria in rapporto alla pratica. Sotto questo punto di vista, ho piacere ad occuparmi di cose positive, persino a Ventimiglia, che è il più povero paese d’Europa, piuttosto che perdere quasi il mio tempo nell’ufficio del Genio di Torino, dove non si fa pressoché niente ...» Scalpitava ormai, il giovane tenente.

    La madre Adele, invece, un po’ bigotta, aveva un’altra disposizione d’animo per la località ove soggiornava così infelicemente il suo vivace rampollo, tanto che così rassicurava la cognata ginevrina de Sellon: «La Provvidenza ci ha serviti bene; Cavour ed io eravamo indecisi circa la città ove gli [al figlio Camillo, n.d.a.] sarebbe più convenuto andare (poiché tutti gli anni i giovani ufficiali del Genio vengono inviati in qualche posto a dirigere i lavori). Genova non ci dava garanzie per i costumi, il gioco, ecc.  Chambéry offre troppo poche occupazioni e di conseguenza vi era da temere l’ozio. Alessandria offre poche risorse, talché il soggiorno a Ventimiglia, ove gli è stato affidato un lavoro particolare, sembrerebbe presentare il minimo degli inconvenienti possibile».

    Al contrario, erano proprio tali «inconvenienti» a non dispiacere affatto al Cavour figlio. Della mancanza di distrazioni egli evidentemente si era lamentato coll’amato e fido amico Pietro di Santa Rosa.

    I frequenti riferimenti del Santa Rosa al malumore, alle cupe meditazioni, alle lagnanze sulla propria sorte di quel giovane «pieno di foco e di vivace ingegno e di pronta fantasia» qual era secondo l’amico il Cavour diciottenne ci fanno comprendere come questi si fosse lasciato andare a qualche confidenza che non si sarebbe di certo sognato con l’austera madre Adele. Pietro cercò in qualche modo di consolare l’amico: «Non posso a meno, conoscendoti assai, di temere e compiangere gli obblighi tuoi che ti fanno stare per tanto tempo in cotesto paesaccio, dove, per mancanza di cose che portino aggradevole sollazzo alla tua mente, tu ... ti stai fisso col pensiero a contemplar l’umanità».

    A dire il vero, la vita contemplativa non era un settore preso in considerazione fra le attività del Cavour neppure nella «morta città» quale si rivelava la Ventimiglia di allora. In effetti le migliori famiglie se lo contendevano, vedendo probabilmente in lui un ambitissimo rappresentante di quella corte torinese che agli occhi provinciali non poteva non apparire favolosa.

    Senza dubbio il Cavour portò con la sua presenza un po’ di vivacità nell’ambiente «bene» ventimigliese e non solo in quello perché il tenentino sembra non disprezzasse del tutto i facili amori, tanto che in futuro qualche collega gli rimprovererà «certi suoi amorazzi [avuti] nella guarnigione di Ventimiglia», come c’informa il Ricotti.

    Troviamo del resto degli espliciti riferimenti al bel sesso locale in una sua simpatica lettera indirizzata alla nonna Filippina-Marina che contiene, fra l’altro, interessanti annotazioni sugli svaghi carnascialeschi dei Ventimigliesi di allora: «Il Carnevale, come Voi potete ben immaginare, è oltremodo brillante a Ventimiglia. Ci avevano promesso di fare qualche cosuccia a teatro, molto gradita in verità, ma dei contrasti, pressoché inevitabili in casi simili hanno impedito ai giovani ventimigliesi di esibire i loro talenti comici e tragici. In compenso si balla tutte le domeniche, tutto il giorno e tutta la notte, sebbene fino ad oggi non si siano viste che delle danze popolari cui ha partecipato unicamente il popolino. Tuttavia ci son stati promessi dei balli un po’ più eleganti ai quali interverranno tutte le bellezze ventimigliesi. E siccome il bel sesso del luogo è molto grazioso, la cosa si presenta senza altro sotto un aspetto affascinante».

    Ne, intanto, il Cavour trascurava il gioco, così temuto dalla buona Adele. Pur lamentandosi continuamente a destra e a manca – però sempre blandamente con la madre - del suo «esilio» ligure, lo vediamo raramente abbandonato dalla sua «vis comica» che gli permette di scherzare e di informarci sui suoi passatempi. Scrive infatti divertito alla nonna Filippina: «... le mia due cugine Amelie e Adèle mi hanno ciascuna inviato un breve scritto.

    Sono entrambe molto amabili, ma non so come mai esse si sono messe in testa che io sia diventato stoico. Ci manca poco che non credano che io, novello Zenone, mi metta a capo di una nuova setta e vada a predicare nelle pubbliche piazze la forza d’animo e il disprezzo per i mali. Il mio stoicismo tuttavia non m’impedisce di trarre il miglior partito possibile dalle risorse che offre il tristo paese ove abito, e di regalarmi quei piccoli piaceri che posso procurarmi onestamente. Potete assicurare i miei amici e soprattutto Santarosa al riguardo del «goffo» [gioco a carte che ricorda quello della primiera, n.d.a.], poiché sono ben lontano dall’averle bandito dalla mia nuova dottrina; al contrario, credo ne formi una parte essenziale e che sancirò che nessuno potrà essere mio adepto s’egli non prova una vocazione profonda per la dama di fiori».

    Un po’ più melanconica la lettera che scrive alla cugina Adèle: «... Sono sempre a Ventimiglia e attendo con impazienza l’ordine che ci richiami a Torino. Sono ben quattro mesi che mi trovo in questo brutto paese, applicandomi a un lavoro eccessivamente noioso non avendo altro svago che quello di andare qualche volta a giocare al gioco spirituale e istruttivo della tombola. Spero tuttavia che il mio esilio, il quale si prolunga molto di più di quanto avessi creduto all’inizio, abbia fine, e avanti il termine della settimana, possa mettermi sulla strada prima per Genova e poi per Torino».

    Il suo tanto reclamizzato isolamento ventimigliese era tuttavia alquanto temperato dalle relazioni benevole che il Cavour manteneva con gli ufficiali che con lui prendevano parte ai lavori. Una stretta amicizia lo legava al Salinas, col quale si trovava in pieno accordo di sentimenti e di idee. Inoltre, fu probabilmente proprio a Ventimiglia che il futuro statista conobbe ed apprezzò William Brockedon, «il suo primo amico inglese», di cui si ricorda particolarmente la splendida opera illustrata sui valichi alpini i quali egli caparbiamente passò e ripassò per ben cinquantotto volte al fine di scoprire il vero passaggio di Annibale attraverso le Alpi.

    L’eccentrico inglese ricambiò molto cordialmente i sentimenti amichevoli dimostratigli dal Cavour e si assunse pure il non facile compito, attraverso le conversazioni e il carteggio, di mettere il nostro futuro statista al corrente delle cose d’Inghilterra e di istruirlo sui concetti e i programmi di quel partito liberale cui egli stesso apparteneva. In seguito, durante un suo soggiorno a Londra, il Cavour verrà accompagnato dal Brockedon al pranzo annuale della Società Reale di Geografia, durante il quale il piemontese si compiacerà vivamente di quella cucina adatta ai suoi «goùts carnivores».

    Il soddisfare le proprie inclinazioni di buongustaio doveva rappresentare per Camillo un altro linimento alla solitudine ventimigliese, almeno a giudicare dal suo insistervi nelle lettere. In uno scritto alla nonna contenente il consueto accenno alla sospirata partenza, dopo aver celiato sulla sua neo-appartenenza allo stoicismo che le cugine ginevrine gli avevano attribuito: «... Non ho neppure escluso - continua divertito - i polli e i capponi dalla mia regola. Al contrario, credo fortemente che nessuno può essere veramente stoico alla mia maniera s’egli non ha un gusto deciso per le pernici e le beccacce. Potete star tranquilla su ciò, che la mia filosofia è lontana dall’avermi fatto dimagrire, credo al contrario che abbia concorso ad arrotondare le mie guance.

    Non sono proprio in grado di darVi delle nuove circa la nostra partenza: siamo piuttosto impazienti di lasciare Ventimiglia; ma questo non dipende minimamente da noi, bensì dagli ordini che ci verranno trasmessi».

    Si può credere che il ghiottone avesse veramente incontrato l’entusiasmo di qualche ospitale trattore se è rimasto nella cucina ventimigliese il ricordo di tre piatti intitolati al suo nome: il «cappone alla Cavour», una minestra omonima consistente in pastina in brodo con crema di riso e un tuorlo d’uovo ed infine l’appetitosa «testina alla Cavour» con olive nere locali, crostini al burro e salsa di pomodoro.

    Il 25 febbraio 1829 l’agognata partenza: destinazione Exilles. Tre mesi dopo il trasferimento a Leseilon, vicino a Modane. In entrambi i paesini il diciottenne tenentino sarà costretto a vivere come in un romitaggio. E chissà, allora, che non abbia ripensato con nostalgia a quel tanto vituperato «paesaccio» dove almeno aveva potuto godere di «una tale mitezza di clima che non [era] facile ricordarsi d’essere in inverno» e dove, magari, nei rari giorni di pioggia, poteva trovare qualche bel sorriso muliebre ad illuminargli la giornata.

 

         Da “I MESI” Anno 6 - N. 4 - Ottobre-Novembre-Dicembre 1978.

            Rivista di attualità economiche e culturali dell’Istituto Bancario San Paolo di Torino.

 

RICETTE STORICO-LETTERARIE

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