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 Candelòra, se neva o se plöra, de l’invernu semu föra.

Se  nu’  ciöve   e  tira   ventu   de   l’invernu  semu  drentu.

 

IN  SEGLIA  E  SAN  BERNARDO

A  CANDELORA

                                                                                                                    Andrea CAPANO  - 1990

    La ripresa, avutasi quest’anno, della celebrazione della Candelora nella chiesa di San Bernardo, offre lo spunto per una riflessione di ordine storico.

    La Candelora era infatti la festa patronale propria di Seglia, una delle tre “comarche”, per usare la terminologia del catasto ventimigliese di fine ‘700, che avevano il loro centro ideale per l’appunto nella chiesa di San Bernardo (le altre due erano i Boi e Santo Stefano).

    La festa, ormai da tempo caduta in disuso a Seglia, è però ancora ricordata dagli abitanti come celebrazione liturgica con uno strascico profano di «bugie» e ballo popolare.

    In effetti la Presentazione del Signore al tempio, più nota come Candelora, è ricorrenza di antichissima tradizione, celebrata a Gerusalemme fin dal IV secolo, quando cadeva però quaranta giorni dopo l’Epifania. Sotto Giustiniano, ormai traslata al 2 febbraio (quaranta giorni dopo il Natale), pare fosse considerata giorno festivo in tutto l’impero d’Oriente. Verso la metà del VII secolo finalmente, la solennità, denominata dapprima di San Simeone e poi Purificatio Sanctæ Mariæ, venne introdotta in Occidente, con processione penitenziale in riparazione delle sfrenatezze che avevano luogo durante la coincidente festa pagana degli Amburbalia.1

    Ci si troverebbe quindi di fronte ad una delle non rare celebrazioni cristiane collocate in polemica con preesistenti feste pagane, delle quali mantengono la data.

    Questa osservazione potrebbe essere particolarmente significativa nel nostro caso. In altra sede infatti non ho del tutto escluso la possibilità che l’attuale Seglia abbia avuto origine da un insediamento di epoca repubblicana romana,2 come il confinante, ma più tardo, fondo di Olignana, di cui parlava Luigino Maccario nel numero di gennaio di quest’anno della Voce Intemelia.

    La presenza di una tradizione di festa cristiana che ne ricopre una pagana costituirebbe dunque un piccolo indizio in favore dell’ipotesi di una continuità dall’epoca romana ai giorni nostri.

    Va però ricordato che sulla collocazione degli Amburbalia al 2 febbraio le posizioni degli studiosi non sono affatto concordi, e che in effetti l’Amburbium era un rito di tradizione urbana, cui corrispondevano nelle campagne gli Ambarvalia.3 fatti questi tutti che rendono ancora più esile l’indizio cui accennavo, ma non tale da passarlo completamente sotto silenzio.

    Non va comunque dimenticato che la Candelora cade all’incirca a metà dell’inverno, e costituisce un momento di scansione del ciclo dell’anno rurale, come è testimoniato dal proverbio, noto a Seglia ma di fonetica di importazione, “Candelora neve o plora, de l’invernu semu fora. Se ni neve ni plora, pe’ caranta giurni ghe n’amu ancora”, che assegna al 2 febbraio la funzione di giorno “predittivo” per tutta la seconda metà dell’inverno, e perciò particolarmente significativo per una comunità di coltivatori.

NOTE :

1) Cfr. A. OLIVAR, Il nuovo calendario liturgico, Torino, 1973, p. 65.

2) Cfr. A. CAPANO, Un toponimo di origine incerta: Seglia, presso Ventimiglia, in “Studi Genuensi”, n. 6 -1988, pp. 65-68.

3) Cfr. AA. VV., Dizionario d’antichità classiche, Roma, 1963, vol. I, pp. 85 e 87.

                                                                                            LA VOCE INTEMELIA anno XLV  n. 2  -  febbraio 1990

 

 

 

SU MONTE ABEGLIO

 

CANDELORA  AUREA

                                                                                                                                            di Luigino Maccario - 2003

    L’alba del due febbraio mi ha visto appollaiato in vetta al Monte Abeglio intenzionato a costatare di persona se l’incidenza dei raggi solari, in quel periodo, avrebbe potuto dar vita alla leggenda della trasformazione in oro di tutto quello che stava sulle rocce della cima di questa montagna

    Tale mito è stato rivelato dalle interviste riportate da Giuseppe Palmero nel suo lavoro giovanile “Che bela danza ...”, il libro che la Cumpagnia d’i Ventemigliusi ha distribuito a tutti i Soci che abbiano rinnovato per il 2003.

    Dal castellaro, che ha dominato la vetta dell’Abelio, proteggendo l’antica tribù intemelia che vi abitava, ho frugato con lo sguardo i dintorni, scoprendo con disappunto la caduta in rovina della Fontana dei Saviglioni, sul percorso verso Airole.

    La mattinata era stata determinata da fastidiose brume di mare, quanto la giornata stava evolvendo in un mezzogiorno assai soleggiato, che faceva prevedere un pomeriggio persino caldo.

    Era senz’altro prevedibile, che i segni della trasformazione aurea non comparissero e persino i rossi raggi di un meraviglioso tramonto non hanno concesso la riconferma del prodigio, ma le letture che avevo portato per ingannare il tempo risolsero in ogni caso l’arcano.

    Salendo in un luogo così intriso di celto-liguricità, tanto da chiamarsi “il posto delle mele” o, come sostengono alcuni, meglio ancora, “il sito del miele”; non avrei potuto che munirmi di argomenti celtici, dai quali ho evinto che, in quella cultura, i primi giorni di febbraio erano dedicati ad una festività stagionale chiamata “Imbolc”, nome che sembra derivi da m(b)lig e significhi pressappoco “lattazione”.

Cerere

 

    Sembra che tradizionalmente la festa coincidesse con il primo fiorire del latte nelle mammelle delle pecore, circa un mese prima della stagione della nascita degli agnelli.

    La celebrazione avveniva con l’accensione del fuoco dedicato alla divinità Brigantia, che è diventata poi Brigida, mentre il fuoco si è trasformato in luce di candela.

    Questo fuoco è stato una fonte d’ispirazione e un dispensatore di vita: si manifesterebbe prima nella terra, risvegliando le forze assopite nelle sue profondità, fino a giungere ad essere l’ispiratore dei poeti.

    Rimandata oralmente a partire dall’Età del Bronzo, questa tradizione, a fine Ottocento, ha potuto trasformare il fuoco dispensatore in un più concreto oro da raccogliere, soltanto in quel giorno, sul luogo che era stato dimora dell’antica tribù.

                                                                                               LA VOCE INTEMELIA anno LVIII n. 4  - aprile 2003

 

 

Brigantia