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ECONOMIA  AGRICOLA  PONENTINA

                                                                                                                             di Luigino Maccario

 

      I rogiti notarili del 1200 ci informano come l’economia di sopravvivenza medievale fosse dipesa dalle numerosissime piante di fico, diffuse su tutta la Zona Intemelia, specialmente a Ventimiglia o, meglio, in special modo nel suo territorio di Ponente.1

      Commerciando i pani di fichi secchi per tutta la Liguria orientale e il Basso Piemonte, i Ventimigliesi si erano guadagnati l’epiteto di “figui”, quando invece, gli abitanti di Mentone, amando andare a trascorrere una giornata al sole, si recavano nelle calette poste nel territorio marino di Grimaldi, affermando “d’andà in Figögna”.2

      Dal medioevo, gli agricoltori Intemeli hanno saputo incrociare le gustose e zuccherine infiorescenze, fino ad ottenere più di venti qualità diverse dei fioroni di fico. Però, dal secolo XVII, molte delle terre coltivate a fichi sono state sostituite da agrumeti. Almeno una pianta di fico è rimasta presente in ogni podere fino agli Anni Cinquanta del XIX secolo, quando si è preferito sradicarle quasi tutte, per far posto a monocolture più redditizie, alle quali le invadenti radici del fico avrebbero detratto il nutrimento.

      Sui suddetti rogiti duecenteschi sono vagamente riportati gli uliveti, dato che i monaci benedettini dimoranti nelle isole di Lerino, antistanti Cannes, proprio in quel tempo stavano cercando di diffonderli sul nostro territorio, a cominciare da Olivetta e dall’Alta Val Nervia; ma per appurare la redditività di un uliveto è necessaria la cura costante da parte di alcune generazioni di agricoltori.

 

      Nel corso di molti secoli, ottimi carciofi e cardi, oltre a cavoli e broccoli hanno prosperato nella pianura delle Asse, dalla Fondega fino alle Arene; da dove, compreso l’intero territorio di Nervia si sono poi prodotte gustosissime carote, in un contesto sabbioso. Deliziosi finocchi crescevano sul Colle Appio, mentre Siestro era rinomato per la verdura da foglia. Qualche tempo dopo il 1492, si impiantarono i primi pomodori, i fagioli e i peperoni.

      Antiche e famose le vigne di Piematùn, sopra Latte; seguite nel tempo da altre vigne a Dolceacqua e Soldano. A ridosso delle spiagge trovava spazio il pascolo invernale, per la transumanza ovina, lungo tutta la costa.

      Attraversata la valle della Nervia, oltre agli orti, congiuntamente ai legumi; dalle Braie a Capo Ampeglio prosperavano l’orzo e le biade. Per lo più, l’avena, la segale e poco frumento trovavano spazio in quota, sui monti della Val Roia, dove le truppe napoleoniche portarono la patata, nel 1813. Tuttavia, nel tempo, si era dato inizio ad importare buona parte del fabbisogno alimentare via mare, attraverso il piccolo cabotaggio.

      I castagni in Alta Val Nervia, noci, nocciole e in specie mandorle in Bassa Val Nervia, da dove, lungo le sponde della rivaira erano presenti molte “canavàire”, concedenti contributi non soltanto agricoli; come capitava per i canneti, anche loro impiegati in edilizia.

 

      Dal XVII secolo fino ad oltre la metà del XIX i terreni soleggiati, ubicati di fronte al mare, da Mentone fino a San Remo, hanno sostenuto l’egemonia della coltivazione e la commercializzazione degli agrumi, con i limoni in particolare evidenza, caratterizzando l’agricoltura del Ponente ligure, in avvicendamento alla Provenza, che si era mostrata meno riparata da Tramontana.3

      Ad introdurre la competenza dell’agrumeto, nel Settecento, era stata la perspicacia delle famiglie nobiliari proprietarie del territorio costiero. Queste si adattarono persino a sopportare le eccezionali gelate capitate negli anni tra il 1752 ed il 1793, sostituendo puntualmente le piante colpite, per mantenere florido il mercato.

      Ma, all’inizio del diciannovesimo secolo, sopravvennero le tremende gelate del 1808 e del 1810, che intaccarono decisamente la produzione. Il colpo di grazia venne imposto dal cantiere della “Ferrovia delle Riviere Liguri” che nel 1869 interessò i più bei limoneti del sanremese, scalzandoli per la maggior parte. Allora il mercato degli agrumi si rivolse ai paesi caldi del Mediterraneo meridionale.

      Si cercarono quindi altre culture, che per Bordighera divennero le piante di palma da ornamento; mentre nell’Intemelio iniziò la coltura di piante floricole. Inizialmente, mettendo a dimora arbusti di essenze, a supporto della assai presente attività di distillazione, che aveva fino ad allora prodotto “agru” e “aiga nàfra”, ma ora non aveva più le quantità di limoni e di fior d’arancio necessarie alla sopravvivenza. Intanto, in particolare a La Mortola e dintorni, le nascenti e prosperanti concerie invitavano alla coltura del mirto, indispensabile nella concia.

 

      A vantaggio dell’agricoltura per l’alimentazione, appena attiva nel 1873, la strada ferrata mise in movimento una cospicua corrente turistica, da e per la Francia, che per Ventimiglia, sede di Stazione Ferroviaria Internazionale, con Uffici di Dogana e di controllo dei flussi, favorì l’insediamento d’un certo numero di alberghi, nei quali i passeggeri attendevano il disbrigo delle lunghe pratiche burocratiche. Per dar ristoro a questi flussi, sul territorio, riprosperarono adeguate colture alimentari. A Bordighera, per altro, fiorirono grandi alberghi, dove venivano a svernare da tutta Europa, soggetti benestanti, estimatori di prodotti agricoli freschi, che richiedevano con intransigenza.

 

      Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, in prosecuzione alla piantumazione degli arbusti essenziali e suggerita dal successo avuto in Provenza, sulla piana di Latte iniziò la messa a dimora di rose a stelo lungo, presto sostituite da grandi quantità di garofani, indirizzati al mercato del fiore reciso. Quantità ridotte di rose finirono protette da strutture in canne, mentre i garofani prosperarono in ampi spazi attrezzati con paletti, legati tra loro con fili di canapa, a sostegno della lunghezza ritta del gambo. Il garofano si diceva coltivato in pien’aria, perché non era protetto da coperture.

      Si dette così inizio all’intensa commercializzazione dei fiori recisi. Nel 1893, a Ospedaletti, venne aperto il primo Mercato dei Fiori della Riviera di Ponente. Nel 1898, prese a funzionare il Mercato dei Fiori a Vallecrosia; infine, quello di Ventimiglia, nel 1905.4

 

      La redditività del fiore reciso provocò, tra gli agricoltori, la propensione alla monocoltura. Così, vennero assai ridotte la superficie delle colture alimentari. All’approvvigionamento degli alberghi intemeli iniziò a provvedere uno stimato mercato all’ingrosso, che importava derrate specialmente da Albenga, dove gli agricoltori della piana si attrezzarono adeguatamente nell’orticoltura, in particolare curando l’esportazione dell’ottimo carciofo locale.

      Al termine delle vicende belliche, riaprivano i locali Mercati dei Fiori, limitando le transazioni floricole ad una metà della giornata. A Ventimiglia, veniva ripresa la pratica di concedere la mattinata alle attività del Mercato Annonario, ingrosso e minuto. Importando ormai da ogni dove.

      Dal 1972, in mattinata, apriva alle contrattazioni il nuovo mercato floricolo di Sanremo, che presto cominciò ad attrarre i floricoltori di tutta la provincia, fino a quando anche tutti gli operatori intemeli si adeguarono, provocando la chiusura del mercato ventimigliese, nel 1976.

      Dagli Anni Sessanta, la coltivazione del garofano entrò in una lunga e inevitabile crisi Per ottenere redditività era stato necessario applicare irrorazioni di pesticidi, erbicidi e concimi sintetici, che incancrenirono il terreno in profondità, fino a consigliare l’abbandono della coltivazione.

      Soltanto pochi addetti bonificarono dispendiosamente i fondi, per riprendere un’agricoltura sostenibile. Molti terreni restarono assolutamente inquinati e abbandonati. Nel frattempo, le nuove generazioni iniziarono a disdegnare la pratica agricola.

 

      Allo svanire del secolo scorso, la speculazione edilizia dette il colpo di grazia alla nostra agricoltura, costruendo abnormi condomini nelle Asse, a Nervia e persino sulla collina: Bandette, Siestro e San Bernardo, non tralasciando Roverino e le Porre. Servizi, come l’autostrada hanno ampiamente contribuito alla cementificazione di molti terreni dediti all’agricoltura.

      Ventimiglia divenne una città di prevalente terziario, dando inizio ad un’abnorme crescita demografica, che ne fece una indistinta città di oltre venticinquemila abitanti.5 Anche Camporosso Mare e Piani di Vallecrosia sostituirono l’agricoltura con l’edilizia abitativa, arrivando a creare un’ininterrotta città dormitorio lungo la Via Aurelia, fino a Bordighera. La Zona Intemelia arrivò a contare sessantamila abitanti, tra i quali molti utilizzati al di là della frontiera.

      Fortunatamente, oggi, ancora troppo timidamente, qualche giovane si avvicina all’agricoltura, per mettere in mercato una prelibata orticoltura a kilometro zero.

                                                                  LA VOCE INTEMELIA anno LXXV n. 2 - febbraio 2020

 

 

 L'ALLEVAMENTO

 

        Era giunto dalla più profonda antichità, legato alla agricoltura, l’allevamento. In Zona, si è mantenuto prospero almeno fino agli Anni Settanta. Non molto sviluppato quello stanziale, quando giunse un lento declino per quello di transumanza. Avrebbero potuto contare sulle risorse vegetali locali, per perdurare. Ma la chimica impose i suoi mangimi, accompagnati dalla concorrenza di zone con territori più ampi e meno scoscesi; così l’allevamento nostrano si ridusse a soddisfare qualche hobby. La fiorente transumanza, che per secoli ha rappresentato una eccellenza, ancora perdurante e agevolata, nell'Intemelio francese; mentre da noi assurdi interventi di voracità politica l'hanno svenduta, se non peggio.

 

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