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Chiesette campestri

ventimigliesi

    L’ampio territorio comunale di Ventimiglia conserva molti siti con chiesette ed oratori campestri, in alcuni casi soltanto le rovine, in altri il vuoto guscio murario e qualche volta soltanto la memoria di esistenti edifici sacri, che hanno lasciato il nome al sito circostante.

     Nei toponimi si ricordano: San Martino al Resentello e Santo Stefano in Ripa; dov’era San Simeone alle Barme, gli Agostiniani hanno eretto N.S. della Consolazione. Di San Gaetano resta il guscio inattivo,di santa Maria de Varaje, alcuni stralci murari, di San Saturnino soltanto ipotesi.

 

 

L’oratorio  campestre  alle  Ville

                                                                                                        di Nino Allaria Olivieri

    L’anno 1755 la nobildonna Catarin, vedova del Notaio Giuseppe Mario Bellhomo di Ventimiglia, desiderosa di trascorrere, secondo l’usanza della nobiltà locale, i giorni estivi nella proprietà delle “Ville”, trovandosi per malattia e vecchiaia impossibilitata come era solita con la sua famiglia frequentare altre cappelle campestri, esprime il desiderio di erigere per sé e i suoi discendenti un Oratorio Campestre.

    Dietro consiglio del cancelliere della Curia, parente da parte materna, rivolge rispettosa domanda al vescovo Giustiniani, residente in Bordighera. È lo stesso curiale che stende la richiesta in un forbito latino.

    Il 4 marzo 1756, da Bordighera, prese dovute informazioni e dedotta la moralità dei costumi della richiedente e famiglia scrive: «Oratrici precibus benigne facultatem delegamus nostro Provicario ut attente inspecto pradio in eo locum designet ...». Richiede inoltre un pubblico «istrumento» atto da inviarsi in Curia e che l’Oratorio sia fornito «dotationis decem saltem librarum annuarum ...» la quale dotazione sia posta su censi o fondo fruttifero della famiglia Belhomo.

    Il 20 marzo, nel Palazzo vescovile il cancelliere verga l’«istrumentum dotations» e, a nome della Bellhomo assente per indisposizione, sottoscrive le condizioni richieste la di lei figlia, moglie del notaio Gaspare Lanfredi.

    L’Oratorio sarà dedicato ai Santi Angeli Custodi e a San Lorenzo Giustiniano; dovrà avere la porta su pubblica strada; non vi si potranno amministrare i Sacramenti senza espressa licenza del Parroco; non si raccoglieranno elemosine ne si accetteranno doni; nelle solennità dell’anno liturgico non si celebreranno messe.

    La Bellhomo desiderando quanto prima l’erezione della Cappella, indica al Provicario il luogo «in certa sua terra aggregata olivata denominata la Villa, a cui in testa e ai piedi la strada; verso monti li Magnifici Pasquale e fratelli Galleani in parte e dall’altro il Canonico Biamonte e dall’altro lato Gio. Viale».

    Sarà gelosia o celata invidia, non tardano a sorgere le prime difficoltà e gli inspiegabili atti oppositivi. Si legge nell’atto notarile del 23 marzo «siccome resta loro difficile il poter congregar li rispettivi propinqui per avere il conseguo e il consenso, perciò per non commetter nullità se ne ricorrono alla previdenza del Magistrato di Terra Ferma e al consiglio illuminato del Capitano della città di Ventimiglia, G. Batta De Negro».

    L’atto è sottoscritto nello scanno del Notaio Lanfredi. Contemporaneamente si redige l’atto di donazione «per il mantenimento o sia manutenzione, decoro e decenza convenevole con erigendo lire dieci moneta di Genova corrente fuori banco annue da spendersi ed impiegarsi in vantaggio e beneficio del precitato Oratorio». È’ il 26 di marzo, nell’abitazione del Capitano Di Negro.

    In primavera si iniziano i lavori e in men che non si pensi «è adempiuto quel tanto che vi è prescritto dalli memorati decreti ...». Il notaio Lanfredi a nome della Famiglia rivolge nuova supplica al Vescovo «di darle il permesso che, previa benedizione solita, poter eleggere un sacerdote che celebri il primo sacrificio».

    è lo stesso Provicario «che, con una certa sollenità e ispirate parole, vi celebra il primo sacrificio. Nel sussiego degli estati saranno i Bellhomo a scegliere sempre un celebrante».

                                                                                                                     Archivio vescovile Filza 81 n. 58-59)       LA VOCE INTEMELIA annoXLVII  n. 11  - novembre 1992

    Edificato nel 1756, e stato distrutto dal terremoto del 23 febbraio 1887, con la villa che gli era accanto.

    Riedificato nel 1889, gli venne addossato l’allargamento della villa. All’inizio degli Anni Novanta è stato riassestato.

  

 

RIPA  SANTO  STEFANO

                                                                                               Luigino Maccario 1994

RICERCA DEL SITO

    Sia nella memoria dotta che in quella popolare ventimigliese pare sia scomparsa del tutto la ubicazione del sito contenente la chiesa medievale di Santo Stefano e del relativo toponimo, in quella che è stata «ripa Sancti Stephani».

    Se ne cercherebbe il sito archeologico nei pressi del Mattatoio, o tutto al più poco oltre il Mulino di Peglia, mentre i toponimi esistenti, ancor vivi, ed il vago ricordo dei residenti lo porrebbero nei pressi del Piazzale autostradale.

    La zona a settentrione della Porta Piemonte è stata ed è certamente Olignana, mentre «ad ripam», dopo l’attuale Peglia, è consolidato «u Prau», percorso dal rudere arcato di una condotta aerea per l’acqua, probabilmente convogliata verso la isola dei Gorreti fin dal medioevo. Quindi si può escludere sia il Mattatoio che il Mulino, che comunque sarebbero restati inglobati in quel lungo molo  - prolungamento del porto Lago  - verso settentrione: manufatto di evidenti origini medievali.

MEMORIE ORALI

    Tale molo, oggi sotterrato dal ponte ferroviario e dal terrapieno che sopporta il Tennis Club, nella parte più a nord, è ancor vivo nella memoria di Antonio Parodi ed amici, che dicono di averlo usato, anteguerra, per fare «e ciumbe inta lòna de Peglia».

    Sul colle, verso tramontana, ad Olignana seguono Le Lisce, Parmarin e la collina dei Maristi, poi Maneira, ma già abbiamo superato il probabile Santo Stefano, luogo vivo e vivace nella memoria di Vittoria Muratore, novantatreenne, che vi ha abitato per molti anni fino al dopoguerra. Nel suo ricordo è ancora vivo il nome di «San Steva» dato alla zona dove gestiva «a Fascia Longa», contenente un antico muro, forse proprio quello descritto nelle «Notizie» del 1901, da Girolamo Rossi.

    Detto luogo, che ha perso la antica identità toponomastica dopo la costruzione della Caserma Gallardi, è oggi in piccola parte sommerso dal terrapieno De Villa - Fonte e per la massima parte si apre verso le palafitte del piazzale autostradale, alle falde del poggio che ospita la strada per San Lorenzo.

MEMORIE CARTOGRAFICHE

    Una cartina di anonimo, del giugno 1745, «Marche de l’Armée de Menton a la Bordighera», pubblicata a Parigi nel 1775, riporta «S.to Stefano» chiaramente indicato fra la mulattiera per Castel d’Appio e le case di un eventuale San Bernardo.

    Una carta del Gustavo, detta «Tipo visuale del fiume Roia» pubblicata a Genova nel 1793, presenta una strada importante che da Sant’Agostino, percorsa la riva sinistra, guada il fiume presso Roverino per inerpicarsi verso Costel d’Appio. Dovremmo considerare molto ampia la probabile vastità del Lago antico e medievale, che avrebbe caratterizzato la foce del fiume Roia, concedendo un porto ampio e sicuro alla nostra città.

    L’alveo del Roia è veramente esteso; inoltre oggi dobbiamo tener presenti i possenti apporti alluvionali, sicché nel medioevo la zona umida sarebbe stata inferiore di almeno sei metri, m molto più ampia e ad un livello all’altezza di Roverino. Certamente dobbiamo pensare che il punto di apporto dell’immissario nel Lago fosse situato molto vicino alla zona attuale dell’Autoporto.

IPOTESI CONCLUSIVE

    Da quest’area il Lago era contenuto ad oriente dall’isola dei Gorreti, delimitata sull’altra sponda da un importante braccio di fiume che da Roverino finiva ad inondare i Paschei.

    Un probabile facile guado avrebbe potuto permettere di guadagnare da «Royrino», verso la riva destra, la strada per Tenda; strada che per l’altro verso conduceva in agevole pendenza fino a San Michele.

    La presenza di un’antichissima chiesa dedicata al primo dei martiri cristiani, presso un bivio stradale di grande importanza, darebbe un senso alla sua frequentazione altomedievale, in una zona priva di importanti insediamenti abitativi.

    Darebbe senso ancora al suo rapido decadimento con l’apertura del ponte in zona Borgo, mentre porrebbe il tracciato dell’antica via Romana in prospettive finora mai percorsa.

                                                LA VOCE INTEMELIA  anno XLIX  n. 5  - maggio 1994

 

 

La Cappella di Santa Maria de Varaje

di Nino Allaria Olivieri

    Nell’elencare le donazioni e le conferme di esse ai monaci di Lerino nella marca Ventimigliese, il Cartulario Lerinese menziona la Grange di Varaje e una cappella ad essa affiancata. La notizia si riscontra in una carta di donazione di un certo ventimigliese, Giovanni Cavaria, proprietario di due mulini, dei quali cede due metà ai monaci, indicandoli posizionati presso la chiesa di Santa Maria de Varaje.

    L’atto di donazione è stato all’anno 1070; non può che dedursi che in quell’anno presso la menzionata cappella fosse attiva quella che nei cartulari lerinensi viene menzionata “La Grange di Varaje”.

    Fu eretta sulla strada Bevera - Passo dello Straforco. La strada si dipartiva da Porta del Lago presso Ventimiglia, seguiva la proprietà dei monaci nei pressi della Fonte Peglia per proseguire sul lato del Roia fino al fiume Bevera. Lambito l’agglomerato abitativo di Bevera, continuava a metà costa del monte Pozzo per proseguire sino a Varaje; da qui con vari tornanti, s’inerpicava al Passo dello Straforco e, con percorso in cresta, giungeva alla Colla di Airole per immettersi lungo il Bevera alla Torre di Olivetta e da qui in Sospello.

    Ai primi tornanti verso lo Straforco, un tratturo di breve percorso menava alla cappella, che per la posizione e la sua vocazione, divenne in tre secoli centro di interessi locali e militari e resterà testimone di fatti politici e dirà della vita lavorativa dei monaci. Della cappella restano alcuni reperti murari, che, oltre al tempo epocale, richiamano la storia dell’operato lerinense. Nel costruire vennero osservati i dettami dell’arte muraria cistercense e se non può affermarsi essere stata esclusiva manodopera monacale, si evidenzia per il computo metrico e sistema costruttivo, la presenza e direzione di un mastro della pietra.

    L’abside volgeva ad oriente in direzione della Rocca di Sion in Gerusalemme, a ricordo della chiesa del Tempio sorta sulle rovine del Tempio di Salomone. L’ingresso volgeva ad occidente per indicare agli adepti, monaci o meno, che in direzione dell’occidente sorgeva altra Grange, presso cui si poteva, notte e giorno, trovare riposo e cibo. Di identico costrutto e posizione restano nei territori di dominio lerinense i ruderi di altre cappelle: quella in amministrazione alla grange della vergine in Sospello, di Santa Margherita al Cianetto in Olivetta, di NS del Poggio in Saorgio, di santa Maria in Breglio, di San Pietro in Zerbulo ad Airole.

    La pietra di costruzione è locale, squadrata ed assemblata con calce cotta sul luogo. I resti litici indicano rifacimenti avvenuti nei secoli XII e XIII, quale una ricostruzione in toto all’interno e perimetrale esterno. Sono leggibili: la conservazione delle mura primitive di base, in parte rivestite da murature comuni, che inglobano il tutto con finalità di sostegno.

    Fu nel corso dell’azione di conservazione che abbattuta l’abside, nell’interno, si ripiegò in un incavo, in cui venne collocata un piccola statua lignea della Vergine, e successivamente sostituita da una icona lignea raffigurante Maria Madre di Cristo con ai lati Sant’Antonio Abate e San Agostino di Ippona.L’iconografia post rifacimento potrebbe essere indice di un indirizzo di devozione imposto dalla pietà monastica in onore di due santi: Antonio Abate, padre del Monachesimo orientale e Agostino, maestro della regola canonicale.

    All’origine la cappella, per essere unita alla Grange, non aveva alcuna sacrestia, ne cella campanaria; in uno dei rifacimenti un semplice ed angusto costrutto, verrà innalzato al lato sinistro ad uso del cappellano. Una cella campanaria, in periodo non definibile, sorgerà in costrutto quadrato, di minima altezza, e nel rifacimento del 1800 svetterà esile in un barocco indefinibile.

    Allo stato attuale dei pochi resti si rende aleatorio dire di altre caratteristiche e attorno a particolari usi della cappella nel corso della sua storia.

    Terminata la vita della Grange, è certo che sia servita agli abitanti delle comarche vicine. Una piccola porta, sul lato sinistro immetteva alla Grange ed era ad uso esclusivo dei monaci, i quali dalla vicina Magione, dal magazzino e dalle stalle potevano recarsi alla preghiera.

    La cappella per lo spirito e l’ascetica cistercense aveva altri compiti, costruita sulla pubblica strada poteva essere dormitorio ai pellegrini, di riparo sicuro ai proscritti dalle leggi ecclesiastiche, ai rifugiati politici.

    A tale fine nella cappella sempre aperta, lungo il perimetro interno, veniva costruito un banchetto su cui potersi riposare ed essere giaciglio per una notte.

    In due cartulari si legge che nell’anno 1200 Bertram de Berre, cataro, e cavaliere per meriti serventesi, perseguitato dalla città di Albi, riparasse sulla riva occidentale e stretto dalla miseria, per non essere accolto dai signori locali, si convertisse al monachesimo e in Ventimiglia cantasse la città il porto, il fiume Roia e che i monaci, timorosi di essere inquisiti, lo destinassero presso la Grange e vivesse presso la cappella, ove in un inverno freddo lo colse la morte.

LA VOCE INTEMELIA  anno LVI  n. 9  - settembre 2001

 

San Bartolomeo in Latte