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San Lorenzo d’Appio

I  PALMENTI

Sergio Pallanca  - 2009

    Anni or sono, durante una gita in campagna, l’amico Piero Eviri mi accompagnò a visitare un luogo di cui, io ventemigliusu, non conoscevo assolutamente l’esistenza.

    La bella e ridente frazione di San Lorenzo non è il primo nucleo abitativo di quella zona, ne esisteva uno molto più antico in una zona poco distante più in alto, verso la cima del Monte Magliocca; tale sito abitativo era costituito da una decina di casupole in pietre quasi a secco, legate con scarsa malta, basse con piccole aperture per entrata e piccolissime finestrelle, abitazioni che si possono facilmente classificare come altomedioevali. Nessuno degli odierni abitanti di San Lorenzo ne conosceva l’esistenza e questo per un motivo semplicissimo: le casupole erano da sempre coperte da una fittissima vegetazione mediterranea che vuol dire in parole povere rovi, lentischi, ginestre, corbezzoli, vegetazione che è in grado in pochi anni di far scomparire sotto la sua coltre ogni manufatto.

    Piero Eviri ed il figlio Daniele un giorno decisero di cercare e di dissotterrare quella cosa misteriosa, su indicazione di Dallio Bono, “l’intellettuale” del paese, nonché memoria storica, l’unico che conoscesse l’esistenza del manufatto senza sapere di che cosa si trattasse.

    Davanti alle misere abitazioni venne alla luce qualcosa del tutto inaspettato: su un grande banco di pietra calcarea levigata apparve uno strano manufatto: una grande vasca quadrangolare a fondo regolare piatto nella parte più alta del masso e che presentava nel punto più declive una canaletta che terminava con un beccuccio, uno scolmatoio (vedi foto) che andava a cadere su una vasca rotondeggiante sottostante, anch’essa scolpita nella roccia con a fianco una vasca più piccola.

      Santa Caterina Jonica                                                                Palmento toscano                       

    Rimasi perplesso; non avevamo idea di che cosa si trattasse, scattammo diverse foto proponendoci di contattare le “Belle Arti”, la Soprintendenza al Patrimonio Artistico, ma i nostri contatti non ci fornirono alcuna risposta.

    Tempo dopo lessi per caso sulla Rivista della Regione Calabria un interessante articolo sui Palmenti di Ferruzzano che ha dato una risposta all’enigma e mi ha indotto a scrivere queste brevi note.

    Dal latino: Palmentum, atto di pigiare qualcosa.

    La definizione di palmento in italiano è: antico frantoio ove si pigia l’uva; la definizione è poi passata a significare le macine del mulino che schiacciavano le olive per produrre l’olio o frantumare il grano per ricavarne farina.

    Le macine non erano mai più di due e quasi sempre una sola; da questo deriva il modo di dire “mangiare a quattro palmenti” ovvero: mangiare con voracità come un mulino che macina il doppio, con quattro macine, cioè divora, maciulla il doppio del grano, dell’uva, delle olive.

                                                                                            Ferruzzano Schiavuni

    I palmenti erano diffusissimi nell’Italia meridionale: Puglia, Calabria, specie zona della Locride, Basilicata con Potenza e Sicilia con Montalbano Elicona, Camastra, Motta, Moio Alcantara.

    Sembra che l’uso dei palmenti sia stato importato in Puglia dai monaci bizantini fuggiti dall’oriente a seguito delle persecuzioni iconoclaste ed insediatisi in Italia ove si diffusero in tutto il meridione. I palmenti hanno diverse tipologie, ma tutti rispettano gli stessi canoni costruttivi: due vasche degradanti, intercomunicanti per mezzo di un foro, nel nostro caso un canaletto con beccuccio; in alcuni è presente sul fianco una piccola vasca, anche nel nostro caso esiste, che forse è collegata a riti sacrificali connessi alla morte e resurrezione della vite, impersonata nella mitologia da Bacco. In sostanza la pigiatura avveniva direttamente nelle vigne. I palmenti più arcaici erano scavati nella roccia, all’aperto, in posizione rilevata; si versava l’uva nella vasca superiore, occludendo il foro di scolo con argilla pressata. L’uva pestata “nudo pede” restava 24/48 ore in macerazione all’aria, quindi si stappava il foro, passando allo sgrondo del mosto, che veniva filtrato con un mazzetto di foglie di asparagi, posto davanti al foro, e che quindi percolava nella vaschetta sottostante.

    Altri tipi di palmento sono costituiti da vasche formate da pietre cementate con malta, ove non esistevano banchi di roccia da scolpire, sempre all’aperto; altri sono scavati in grotte nella viva roccia ed altri infine sono all’interno di casupole.

    Questa potrebbe essere una spiegazione semplicistica del manufatto in questione; un meridionale che l’ha visto ha detto: «Esistono anche da noi e servivano per pigiare l’uva!».

 

    Ferruzzano nella Magna Grecia                                                 Ferruzzano Saccuti

    La posizione nel pianoro davanti alle casupole ne suggerisce un uso comune per gli abitanti, un po’ come i vecchi forni di paese, molto diffusi anche nelle nostre zone. A San Lorenzo ne esiste tuttora uno, ma io vorrei andare oltre: la posizione lungo una via che porta dal mare alla cima del monte può suggerire anche un percorso di tipo religioso. Ad Albano di Lucania, per esempio, esistono palmenti simili al nostro lungo una via sacra che potrebbero risalire agli albori della storia, anche se gli anziani del luogo asseriscono che erano utilizzati per pigiarvi l’uva e le olive. Questo utilizzo può essere stato un reimpiego forse originariamente servivano a decantare l’acqua lustrale come le vasche presso i santuari egizi; ci si bagnava in onore delle divinità astrali con l’acqua di stelle, un’acqua che era stata tutta la notte sotto le stelle durante il novilunio dei Pesci, quando la luna si allinea perfettamente fra il sole e la terra (17 febbraio).

    Quindi data l’origine e l’uso ancestrale, il nostro palmento è antichissimo; i colpi di piccone o di scalpello che lo hanno modellato non si vedono più, cancellati dall’acqua piovana. Inizialmente forse era adibito a scopi religiosi, riti solenni, specialmente in primavera per propiziarsi messi abbondanti con canti, danze e sacrifici e forse tuttora sopravvive nella festa cristiana del falò della notte di San Giovanni Battista, tra il 23 e il 24 giugno, che corrisponde alla festa pagana del solstizio d’estate per la purificazione dei campi e per la nuova vita della terra.

    Sarebbe interessante approfondire l’argomento che ritengo molto suggestivo, qualsiasi lettura se ne voglia dare, materialistica o spirituale; di certo si tratta di un manufatto rarissimo per noi. Personalmente non ne conosco altri in zona e una sua valorizzazione, previo uno studio specialistico, è certamente auspicabile.

LA VOCE INTEMELIA  anno LXIV  n. 11  - novembre 2009  - p. 5

 

Pietragalla - Lucania