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MONEGASCHI  ILLUSTRI

BIOGRAFIE

 

LOUIS  NOTARI

Commemorazioni  tenute  nella  Sede  Centrale

dell’Istituto  Internazionale  di  Studi  Liguri

il giorno 11  febbraio  1962

    Gli Anni Venti, all’indomani della Prima Guerra Mondiale, hanno segnato il principio di una profonda trasformazione materiale e spirituale dell’Europa e del mondo. La fine di una civiltà che, nonostante i sintomi premonitori della Rivoluzione Industriale del secolo XIX, era rimasta pur sempre una civiltà tradizionale, derivata per naturale evoluzione dalle civiltà più antiche.

    La nascita di una civiltà interamente nuova, che ci porta ogni giorno meravigliose scoperte ed invenzioni, ad un ritmo in crescendo spaventoso, ma che sta anche livellando le caratteristiche di tutti i popoli e rende sotto i nostri occhi quelli che erano, soltanto pochi lustri or sono, i modi di vita particolari di ognuno di essi materia da museo etnografico.

    Non è forse senza legame con questa rivoluzione, che abbiamo vissuto inconsciamente e di cui soltanto oggi cominciamo ad intravedere la portata, che, in quegli anni venti, sia sorta in molti di noi una spontanea ribellione al livellamento che minacciava di distruggere le caratteristiche tradizionali dei nostri paesi, le loro usanze, i loro costumi e i loro dialetti.

    Una spontanea ribellione che si è tradotta in un supremo tentativo di salvare i valori che a questa tradizione si collegavano, alzando come bandiera i dialetti e cercando di dare ad essi nobiltà letteraria, pur senza tradire la linfa popolare che li aveva plasmati attraverso i secoli.

    Così, all’insaputa gli uni degli altri, nell’antico territorio intemelio, pur diviso da molteplici confini, che segnavano in quegli anni anche profonde ed acri divergenze politiche, è nata una letteratura popolare, che può paragonarsi - si parva licei componere magnis -, per la spontaneità e per l’entusiasmo delle sue manifestazioni, al «Felibrige» provenzale.

    Fra questi scrittori voglio ricordare, assieme all’amico Rostan qui presente, Marcel Firpo di Mentone, Vincenzo Jacono di Ospedaletti e Mario Scotto di Monaco, che ancora oggi tengono alta la bandiera di quell’ideale, e i molti, i troppi che prima di Louis Notari ci hanno lasciato: Alessandro Varaldo di Ventimiglia, Silvio Andracco di Seborga, Gin De Stefani di Sanremo, Antonio Allavena di Pigna, Enrico Boyer di Sospello, Stefano Rebaudi di Castelvittorio e Jean Allaria di Bajardo, per non ricordare che i maggiori.

    Ma fra questi «felibre» nostrani riuniti nel Cenacolo de «A Barma Grande», la rivista che per gran parte degli anni trenta ne raccolse annualmente l’opera migliore, ebbe certo un posto particolare e preponderante Louis Notari, non soltanto per la sua produzione letteraria, ma anche per la sua azione diplomatica, che permise allora, attraverso il «trait d’union» monegasco, la collaborazione italo-francese in questo campo, come la permise più tardi, all’indomani della seconda guerra mondiale, nel campo degli studi storici, con la sua assunzione alla presidenza del’Istituto Internazionale di Studi Liguri.

    L’origine svizzera dell’avolo, Pietro Notari, architetto ticinese venuto a stabilirsi a Monaco verso la fine del ‘700, aveva forse esaltato in lui le virtù civiche e l’amore per la piccola Patria, proprie del popolo elvetico, mentre il suo imparentamento con le antiche famiglie locali dei Médecin e dei Crovetto ne ancorava profondamente le radici alle tradizioni monegasche.

    Louis Notari nacque nell’antica casa di famiglia, sulla Rocca di Monaco, il 2 ottobre del 1879, da Giovanni Stefano (molto noto anche a Ventimiglia come u sciù Nin) e da Anna Luisa Crovetto.

    Cominciò i suoi studi in francese al Collegio St.-Charles di Monaco e li continuò poi in italiano sempre a Monaco al Collegio dei Gesuiti, che frequentò fino alla licenza liceale. Iscrittosi al Politecnico di Torino, dovette ben presto interrompere gli studi per la prematura morte del padre, richiamato a casa dai doveri di capo famiglia, e soltanto parecchi anni più tardi, quando già era sposato e si era creata una famiglia, gli fu possibile laurearsi in ingegneria.

    Apprezzandone appieno il valore, il Principe Alberto, «le Prinçe savant», lo chiamava nel 1911 alla Direzione dei Lavori Pubblici del Principato, e gli diventava ben presto amico, appoggiandolo in pieno nel progetto di creare il Giardino Esotico, che è oggi uno dei più originali ed ammirati parchi di tutta la Riviera. A questo importante posto rimase fino al 1943, portando un contributo fondamentale a tutti i lavori di sistemazione urbanistica e di abbellimento del Principato.

    Al momento di andare in pensione fu nominato dal Principe Luigi Consigliere di Stato e nel 1946, presentatosi alle elezioni comunali, divenne Assessore ai Lavori Pubblici ed ai Giardini, carica che ricoperse con prestigio fino al 1955, continuando l’opera che aveva iniziato sotto altra veste.

    In riconoscimento dei suoi meriti civici fu nominato dal principe Ranieri prima Commendatore e poi Grand’Ufficiale dell’Ordine di San Carlo.

    Questa intensa attività dedicata al progresso del paese non bastava però a soddisfare appieno l’amore di Louis Notari verso la sua piccola patria, ma gli faceva sentire forse ancora più profondamente il dovere di fare qualcosa per salvare la tradizione, la cultura, lo spirito monegasco. Impresa difficile, quasi sovrumana.

    L’opera di livellamento della civiltà moderna era già troppo avanzata nel territorio del Principato, dove i monegaschi rappresentavano una infima minoranza di fronte agli immigrati, e tenevano inoltre loro stessi in dispregio il dialetto e le tradizioni del paese.

    Per far fronte a questa situazione, che lo rattristava e lo scoraggiava, fondò, con alcuni amici, il Comitato delle Tradizioni Monegasche e nel 1927 pubblicò il primo volume in dialetto «A Legenda, de Santa Devota», ispirato ad un testo latino del 1602, ritrovato negli archivi del Palazzo, che racconta la tragica epopea della Santa patrona del Principato ed è oggi considerato come il poema nazionale monegasco.

    Analoghi Comitati erano sorti a Ventimiglia ed a Mentone, e fra essi nacque spontanea l’idea di collaborazione per affermare con maggior forza i comuni valori spirituali che li ispiravano.

    Non era certo un’impresa facile. In Italia lo scrivere in dialetto era considerato in quegli anni quasi un delitto di lesa Patria, i mentonaschi. Erano tenuti d’occhio per le loro manifestazioni, alle quali si attribuiva un carattere frondista, e i monegaschi, le cui attività culturali erano messe in particolare risalto dalla indipendenza politica del Principato, incontravano non minori difficoltà.

    Bastava in quegli anni una semplice questione di grafia nella trascrizione dei dialetti per essere accusati del più nero tradimento di Patria, e ci volle veramente un grande coraggio da parte di tutti, e specialmente di Louis Notari, se si poté giungere ad una grafia comune e ad una fraterna collaborazione fra gli scrittori intemelii.

    Un passo importante in questa direzione fu appunto compiuto per iniziativa di Notari con l’istituzione del «Festin Munegascu», la cui prima edizione ebbe luogo il 14 giugno del 1931.

    Nell’incomparabile parco «de Revére». Un antico uliveto dagli alberi secolari, miracolosamente conservato nel cuore del Principato, una grande manifestazione nasceva dalla collaborazione dei Comitati delle Tradizioni di Monaco, di Mentone e di Ventimiglia e il disprezzato dialetto diventava di colpo, per il patronato e l’intervento delle più alte cariche dello Stato Monegasco, un blasone di nobiltà di cui ogni cittadino andava fiero.

    Questa originale, riuscitissima manifestazione continuò negli anni trenta fino alla vigilia del secondo conflitto mondiale, parallelamente a «A Barma Grande», l’antologia pubblicata a Ventimiglia che raccoglieva ogni anno la produzione degli scrittori dialettali intemelii. Furono gli anni d’oro della letteratura locale e ad essi risale la produzione migliore di Notari.

    A parte quanto pubblicato sull’antologia, fu stampato nel 1931 il programma del primo «Festin Munegascu», contenente una serie di suoi componimenti poetici d’occasione.

    Nel 1932 fu la volta de «A Scarpeta de Margaritun» riduzione monegasca de «La pianella perduta nella neve», operetta in due atti di Oreste Morandi, rappresentata con successo alla seconda edizione del «festin».

    Seguì nel 1933 «Se paga o nun se paga?», anch’esso riduzione di un vecchio scherzo comico musicale in due atti di ignoto autore. Nel 1935, fu la volta di «O Belu Munegu !», una ispirata lirica sulla piccola patria monegasca.

    Nel ‘37 ancora l’adattamento di una farsa in un atto di Labiche con il titolo di «Toca aiçi Niculin», rappresentata nel «Festin» del ‘35 e seguita, nel testo pubblicato, da un piccolo lessico comparato delle -parole più caratteristiche, con le forme in uso negli altri dialetti della zona.

    Opera di maggior impegno, stampata nel 1941, «Bülüghe Munegasche» (faville monegasche), una raccolta di favole e indovinelli del folklore locale messe in versi, col testo preceduto, come le altre citate pubblicazioni, da osservazioni linguistiche e seguito da interessanti note a carattere storico.

    A questo primo volume ne sarebbero dovuti seguire nelle intenzioni dell’autore, per candu Diu vurrà, altri due, dedicati l’uno alle canzoni e leggende e l’altro ad una miscellanea di altri scritti monegaschi.

    Chiude infine l’elenco delle pubblicazioni un opuscolo in lingua francese, dal titolo «Quelques notes sur les traditions de Monaco», nel 1960.

    Ma più che con questo nudo elenco di opere penso di potervi ricordare degnamente il nostro grande scomparso parafrasando il saluto da lui portato agli amici di Mentone e di Ventimiglia nel 1931, in occasione del primo «Festin Munegascu», con parole che sembrano vaticinare la nuova Europa che si sta oggi creando, senza frontiere, ma fedele alle sue millenarie tradizioni: Amici di Mentone e di Ventimiglia siate i benvenuti nella nostra terra dove fate rifiorire la poesia della tradizione. Questa non è una terra dove si possono coltivare piante delicate: è una rocca battuta da tutti i venti e le piante che vi hanno resistito debbono aggrapparsi alle pietre con i denti perché la tramontana non le porti via.

    Ma la tradizione ha radici profonde ed il suo vecchio tronco è ancora vivo: come i fichi d’India abbandonati sui pendii, può rifiorire quando il sole la riscalda. Oggi voi siete il sole e voi siete la rugiada, e ci portate con la vostra calda amicizia l’esempio vivificante del vostro lavoro !

    Siate benvenuti e Dio vi aiuti, perché le tradizioni che fate rivivere negli usi. nel parlare e nelle altre cose restino per sempre consacrate e vive. Sono esse, o amici, che ci uniscono senza catene, perché sono sincere ed hanno una forza divina che non teme i secoli che passano né le frontiere.

    Sole benedetto che ci hai accarezzato l’estate come l’inverno, sulle terrazze delle nostre vecchie case, e che hai fatto tuo dominio delle nostre piazze, dei nostri giardini e delle nostre rocce, tu sembri dirci che ai tuoi occhi una frontiera non significa molto.

    Quando ti alzi, astro benedetto, laggiù al di là di Bordighera, e che tu sali in alto come per cercar Dio e il tuo fuoco vivo dardeggia su di noi tanto a Mentone che qui, che a Ventimiglia, poi quando tu discendi laggiù verso Nizza la bella e tramonti in Provenza, si direbbe che abbracci assieme tutti i tuoi figli.

                                                                                                            Emilio Azaretti

 

 O O O O O O O O O O O O O O O O O O O O O O O O O O O

 

    La prima volta che incontrai Luigi Notari fu, se ben ricordo, nell’estate del 1937. Fu in questa sala, e mi pare ancora di vedere viva e presente, come fosse ieri, la scena del nostro saluto e del nostro commiato. Io ero da pochi giorni insediato quale Commissario governativo della Biblioteca Internazionale e Museo Bicknell di Bordighera, e pensavo al suo futuro e all’Istituto Internazionale di Studi Liguri, giovane di anni e di speranze e già di delusioni, dopo l’abbandono forzato del campo albenganese che aveva offerto la prima palestra al nostro movimento di studi.

    Luigi Notari, fin dalle origini nostro socio, legato al movimento dialettale intemelio e veramente come il padre spirituale di esso, era nella piena maturità delle sue forze e del suo intelletto, sprigionava volontà e simpatia. Mi colpì, anzi mi si scolpì subito nel cuore per la sua profonda umanità, per la luce ideale che irradiava dal suo fare bonario e semplice, ma autoritario e tutto di un pezzo.

    Un ligure, egli mi parve subito, il tipo ideale di un autentico ligure, dei nostri tempi e di tutti i tempi; e compresi quanto lo fosse, e quanto ci fossimo compresi, alle prime battute del discorso. Come se ci fossimo sempre conosciuti, come se quell’istinto atavico dei liguri di sempre: sentirsi uniti di nazione, cioè di origine e di sangue, anche se divisi di nazionalità e di dominazione politica, avesse rotto gli argini sotto la molla di un sentimento misterioso.

    Fu da quel primo incontro, seguito da altri, che nacquero molte idee e molti progetti germogliati in seguito: egli, come l’amico Rostan, come Emilio Azaretti, aveva salutato l’insediarsi della Società Storico-Archeologica Inganna e Intemelia al Museo Bicknell di Bordighera come un evento di grande portata nella vita della famiglia ligure ponentina, della Val Roia divisa da una frontiera, e intravedeva i nuovi sviluppi internazionali che esso recava in germe.

    Veniva a cercarmi nel Museo Bicknell come in un nuovo porto sicuro, da cui il nuovo corso della storia e della tradizione regionale avrebbe potuto prendere le mosse verso un destino migliore e più unito, come egli sognava. Sentii, da quel giorno, che avrei avuto in lui il più fedele ed esperto consigliere, in quel difficile cammino che i tempi preannunciavano e che sboccò nella guerra.

    Ci vedemmo più volte in quegli anni, conobbi il suo mondo famigliare ed intimo: un santuario, da antichi patriarchi, in cui la sua personalità, la sua umanità dominavano sovrane, e si respirava a pieni polmoni l’aria sana della nostra stirpe antica.

    Era proprio questo il miracolo che affascinava. In una Monaco bacata e snaturata da mille tentazioni e soggetta ai tentacoli più diversi, a pochi passi dal Casinò di Montecarlo, veder nascere un esempio così luminoso di vitalità autoctona incorruttibile, salda come una roccia, paladino della tradizione ligure e intemelia da cui la cultura, il dialetto, lo spirito della vecchia Monaco traggono le loro linfe vitali.

    Un poeta che aveva in comune con Mistral la idillica serenità, latina e virgiliana, della natura e del verso, indurita però come dalle rocche pietrose del paesaggio monegasco, e che affermava prepotente la forza della tradizione ligure in un mare di gente e di tendenze esotiche.

    Ma, più ancora che un poeta, un uomo, un carattere. Per questo chiunque avvicinava Luigi Notari rimaneva soggiogato dalle sue qualità di umano equilibrio e di rude volontà. Credo di poterlo affermare: non ebbe nemici, se pure pochi furono in grado di apprezzarne a fondo il valore e la personalità e di essergli intimamente amici.

    Quante volte, durante gli anni duri della guerra senza speranza, la sua casa e il suo focolare non furono il rifugio sicuro delle lunghe fatiche, ove le forze si ritempravano e si equilibravano per il domani ?

    Luigi Notari fu, e rimase fino alla morte, un credente nell’autonomia monegasca, concepita non come un affare di dinastia o di economia, ma come un’estrema difesa di se stessi. I versi del suo «Campanin de San Niculau», modulati sulla melodia di un salmo o di un lamento antico, sono lo specchio della sua anima: la vecchia chiesetta romanica, calda e mediterranea, che se ne va inesorabilmente e cede il posto sulla Rocca di Monaco a una fredda e pesante imitazione delle Cattedrali nordiche, è l’immagine reale, inestinguibile, della posizione spirituale intima dei «nativi» verso il mondo moderno, turistico e cosmopolita, che avanza e vuole sommergerli. Da questo sentimento e da questo canto patetico parte tutta la sua poesia e anche tutta la sua azione, nell’ambito del Comitato delle Tradizioni Monegasche come verso l’Istituto di Studi Liguri.

    In tale azione di difesa Luigi Notari, è d’uopo ricordarlo, concepì e inserì anche i rapporti tra Monaco e l’Italia, e la funzione di Monaco come anello di congiunzione fra le due Ligurie, quella d’oltralpe che si chiama Provenza dai Romani in poi, quella cisalpina e marittima della cui capitale, Genova, Monaco fu nel Medioevo un avamposto e una filiazione.

    Vi inserì a fondo l’amicizia fra l’Italia e la Francia, di cui fu sempre un fervente sostenitore, al di là delle contingenze e, posso affermarlo con cognizione di causa, al di sopra della guerra. Non per nulla nella sua famiglia, cellula primigenia della sua vita, aveva inserito due, anzi vari pilastri culturali equidistanti da Monaco: due figli laureati architetti a Roma, due a Parigi.

    Un doppio giuoco sano e onesto, limpido come la sua concezione della vita e della diplomazia. In più ebbe una figliola esemplare, da lui prepotentemente adorata, che sopratutto ne rappresenta la continuità spirituale in mezzo a noi e che egli seppe educare una e trina come dovrebbero essere tutti i liguri di questa terra di frontiera, nel suo attaccamento a Monaco, alla Francia e all’Italia.

    Intemelio di parentela e di origini, sebbene conservasse gelosamente il passaporto svizzero-ticinese dei suoi avi lontani, sposo ad una genovese puro sangue, impregnato di ricordi classici del Liceo monegasco dei Gesuiti, egli fu il grande patrono e protettore della colonia italiana ma più specificamente intemelia del Principato di Monaco: quella anonima schiera di agricoltori che si riversarono dalla Val Nervia nel Principato di Monaco dalla fine del secolo scorso ai primi decenni del nostro, e che ricorsero infinite volte a lui, nei lunghi anni della sua vita e della sua attività pubblica, come al loro più fedele tutore e difensore; e l’Ordine della Madre di Dio, titolare della parrocchia di San Carlo, ebbe pure in lui il più strenuo e generoso difensore fino alla guerra.

    Ebbe una concezione tutta sua della storia di Monaco, tante volte addomesticata a scopo di Corte o a scopo di parte, e la affermò coraggiosamente in ogni occasione, se pure più da poeta che da critico. Vide i Liguri alla base della vita e del popolamento del territorio monegasco, arroccati ai castellari delle montagne circostanti, e senza avvedersene ne faceva come il ritratto di se stesso; amò vederveli persistere incorrotti, com’era il suo ideale, nell’età romana e nell’alto Medioevo.

    Vide giustamente nella fondazione di Monaco genovese, nel 1191, l’origine prima e la ragione storica e politica dell’autonomia monegasca, il fondamento della dinastia regnante, la fonte viva del limpido dialetto genovese antico che si conserva a Monaco.

Larga parte delle sue idee egli infuse, ricordo, nel mio opuscolo «La funzione storica del Principato di Monaco», pubblicato nel 1943 come inizio di una «Collana Monegasca» che sarebbe rimasta ferma al primo anello.

    Ma Luigi Notari non si chiuse mai - e questo fu il suo merito più grande, che gli abbiamo riconosciuto chiamandolo a presiedere l’Istituto di Studi Liguri quando esso divenne internazionale - nella angusta cerchia del Principato di Monaco.

    Monaco fu per lui la perla, o il perno se più vi piace, di un vasto mondo mediterraneo, di comune origine ligure e di cultura profondamente latina, che irradiava la sua influenza, da Monaco e dal litorale intemelio e nizzardo, in un vasto alone ligure-provenzale-catalano, e quindi italo-franco-spagnolo, come si è venuto configurando il nostro Istituto sotto la sua presidenza.

    Potranno dire gli ignari che egli fu un Presidente simbolico, scelto come un comodo espediente per far da congiunzione fra l’Italia e la Francia. Posso attestarvi che non fu assolutamente così. Con la discrezione che gli era propria, con l’autorità morale e il fine tatto diplomatico che usava in ogni circostanza, egli ebbe su chi vi parla, sugli amici e su tutto l’ambiente internazionale dell’Istituto un’influenza decisiva, sia durante la guerra sia dopo la guerra, nella formazione del concetto internazionale degli Studi Liguri, quali si sono venuti fissando nel tempo e nello spazio.

    Fu questo il suo capolavoro, ed era il suo maggiore intimo orgoglio: avere saputo attenuare, modellare e infine capovolgere una posizione d’avanguardia e di conquista, come quella da cui aveva preso le mosse l’Istituto di Studi Liguri nei riguardi del mondo transalpino, nel lontano Convegno del 1939 che ne gettò le basi in questa sala, in una posizione di convergenza, di solidarietà e di comunione spirituale ligure-provenzale, e di conseguenza italo-francese, quale ha assunto nel dopoguerra e negli anni che viviamo.

    Quale servigio egli non ha reso alla causa della Latinità, dell’Europa che oggi si va faticosamente costruendo, con quest’opera di saggezza, di aderenza ai tempi e alla realtà ?

    Io prego i presenti e anche gli assenti di meditarlo da soli, fermandosi un istante nell’intimo della propria coscienza sul cammino che stiamo percorrendo. Certamente senza di lui l’Istituto di Studi Liguri non avrebbe potuto diventare internazionale pur restando profondamente ligure e attaccato alla tradizione intemelia, rinnovarsi ed allargarsi al suo vasto ambito attuale mantenendosi fedele al suo «credo» originario.

    Questo è, in sintesi, il più positivo significato della sua presidenza pluriennale, la ragione per cui mai parve possibile sostituirlo anche quando egli ne manifestò il desiderio per la forzata inazione.

    Gli ultimi anni della sua vita furono fisicamente un martirio, che egli accettò da saggio, con fèrreo e cosciente dominio dei suoi mali. Si è spento lentamente, e anche la nostra sofferenza nel vederlo così dileguarsi a poco a poco si è come diluita nel tempo; ne abbiamo accettato il trapasso come qualche cosa di ineluttabile e di fatale, e impercettibile è stato anche per lui il passaggio da questa all’altra vita.

    Anche quando la sua presenza era divenuta veramente un simbolo, lo abbiamo sentito sempre così intimamente vivo in mezzo a noi, che la sua parola e il suo buon senso ligure sembrano ancor destinati a nutrire ed illuminare perennemente di luce ideale coloro che continuano sul cammino tracciato.

    No, amici, italiani e francesi e d’ogni nazione. Luigi Notari non ci ha lasciato, non ha cessato e non cesserà mai di svolgere la sua missione di padre spirituale del nostro Istituto. Attraverso le generazioni venture, quelle che già stanno raccogliendo la nostra fiaccola, rimarrà l’immagine di un vegliardo che aveva per tutti una parola giusta e saggia, che impersonava il genio ligure nella sua fermezza e nella sua bontà, che nei momenti duri e nei momenti felici seppe sempre dire all’Italia e alla Francia, alla «Razza Latina» di Mistral, una parola non vana: amatevi, non siate divisi, e l’avvenire è vostro.

                                                             Nino Lamboglia

                                                                  Pubblicate su  LA VOCE INTEMELIA Anno XVII  - n° 2  - febbraio 1962

 

 

A MONACO  1979

La scomparsa del Padre Frolla

    Lo scorso mese di dicembre ci è giunta, improvvisa e inaspettata, la triste notizia della scomparsa del Padre Luì Frolla, vicepresidente del “Cumitau d’ê Tradiçiue Munegasche”, a cui ci univano vecchi legami di cordiale amicizia.

    Padre Frolla, nato a Monaco nel 1904, da una nota e stimata famiglia monegasca, dopo aver terminato il liceo classico nel collegio dei Padri Francescani di Montecarlo, frequentò la Facoltà di Filosofia e Sociologia dell’Università Gregoriana di Roma, presso la quale, in preparazione del sacerdozio, seguì i corsi di Teologia e parallelamente anche di Filologia e di lingue semitiche.

    Costretto per motivi di salute a lasciare Roma, andò a terminare gli studi alla Facoltà San Luigi di Napoli, diretta dai Padri Gesuiti, ottenendo il dottorato in Teologia a pieni voti.

    Buon conoscitore fin dall’infanzia della parlata monegasca, Padre Frolla ci ha lasciato, grazie alla sua preparazione letteraria e linguistica, una Grammaire monégasque, con un’appendice di poesie, stampata nel 1960 dalla Imprimerie Nationale de Monaco, che nel 1963 pubblicava anche il suo Dictionnaire monégasque-français. Oltre alla pubblicazione di queste opere fondamentali ha dato la sua preziosa collaborazione alla istituzione dei Colloques de dialectologie, organizzati a Monaco dal Cumitau d’ê Tradiçiue e giunti ormai alla terza edizione, dei quali ha sempre curato l’introduzione e le conclusioni, oltre a contribuire con interessanti relazioni proprie.

    A lui si deve anche la Messa munegasca, che in occasione dei Colloques è stata officiata per i congressisti dal canonico Franzi ed è ormai di prammatica nelle manifestazioni tradizionali del Principato.

    Instancabile nella sua opera, stava ora lavorando, assistito da un’apposita Commissione, alla preparazione di un dizionario francese-monegasco, dopo aver pubblicato una Histoire de Monaco, per gli allievi delle scuole secondarie del Principato.

    Ma oltre a queste opere dotte, Padre Frolla ha scritto piacevoli composizioni dialettali in prosa e poesia alcune delle quali come Cunfidense a San Niculau, L’ajibertu e I dui scoegli: Ventemiglia e Munegu pubblicate sui volumi XII e XIII de A Barma Grande. E a suo ricordo mi sembra opportuno ristampare sulla “Voce” quest’ultima poesia, dedicata alla nostra Città e ai ventemigliusi, a cui era legato da sincera amicizia.

 

0 Ventemiglia, cara Ventemiglia

Saci che semu üna stessa famiglia

Tü da levante e min da punente

Purtamu au nostru cö l’amù crescente

D’a nostra terra e de so’ tradiçiue

D’a nostra lenga e de so’ ambiçiue.

Tant’è prodiga cun nui a natüra

Che se speglia in tüta a creatüra,

Purremu navigà, virà u mundu

Nun truveremu mai in fundu, in {undu

Chel’imagine duçe e savuria

D’a nostra tantu aimà riva sciuria.

A marina che u celu blö razunze

Ch’u brün pescaù vugandu munze,

I valui ch’arosu i toi giardin

Enghirlandai cuma per in festin,

E valade garnie d’aurivei,

De vigne, röse, verdi parmurei,

Chele muntagne che te fan curuna

Che a gianca neva l’invernu ünviruna,

U surigliu che spande l’armunia

Au to’ bon populu cin d’alegria,

U campanin de’a veglia Catedrala

Che cun amù te cröve d’a so’ ala,

Sun tanti beli incanti

Che pöi mete in avanti

E che tiru i strangei

In mezu ai toi figliöi.

Ma piglia garda au gioegu

Per nu’ tumbà int’u fögu.

Coe che’ per nui amiraçiun

D’autri desgancia l’ambiçiun

Per nui gioia e meraviglia

Pe’ eli invidia e girusia.

Nui generusi e prudenti,

Eli faussi e prepotenti !

Cari cumpagni ventemigliusi

Lasciamu a critica ai mariçiusi,

Agimu fede au nostru ideale

Sarvagardia de l’arima ancestrale

Cuscì seran cuntenti i nostri vegli

D’a sacra cumüniun d’i nostri scögli.

Sarvamu l’arima, è tempu ancura,

D’a nostra lenga ch’a va’ in malura,

Aa nostra terra, ai nostri morti,

Daremu a pröva de esse forti;

Daremu ai zuveni in belu esempi

De seghe sempre, in tüti i tempi.

* * *

    Presentiamo, anche a nome della Cumpagnia d’i Ventemigliusi, del Teatru Ventemigliusu e della Voce Intemelia, all’amico avv. Robert Boisson, presidente del Cumitau d’e Tradiçiue Munegasche, l’espressione delle più vive e sincere condoglianze, pregandolo di comunicarle agli altri dirigenti del Cumitau, ed ai fratelli di Padre Frolla M. Alexandre e M. Marius.

                                                                             E. Azaretti

                                                                                     LA VOCE INTEMELIA anno XXXIII  n. 1  gennaio 1979

 

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A MONACO  1997

Addio  al  Canonico  Franzi

    Con la sua scomparsa la lingua monegasca ha perso un tenace difensore e coloro che l’hanno conosciuto un fraterno amico.

    Lo scorso 13 gennaio, un grave lutto ha colpito il Principato di Monaco in festa per celebrare i Settecento anni della dinastia dei Grimaldi. All’Ospedale Princesse Grace dove si trovava ricoverato, cessava di vivere il Canonico Georges Franzi, personaggio conosciuto e stimato da tutti nel Principato, in Provenza e in Liguria. Nato a Monaco il 23 giugno 1914, dopo aver frequentato le scuole pubbliche, seguendo il richiamo della vocazione sacerdotale, entrò nel Seminario di Nizza dal quale uscì nel 1940 ordinato sacerdote. Dopo aver svolto la sua missione pastorale in varie parrocchie del dipartimento delle Alpes Maritimes, nel 1964 fece ritorno a Monaco, dove in seguito sarebbe stato nominato canonico della Cattedrale.

    Dal momento del suo ritorno nel Principato, il Canonico Franzi cominciò ad affiancare, alla missione religiosa vera e propria, un’intensa attività volta alla salvaguardia della lingua e delle tradizioni monegasche. Dapprima entrando a far parte del Cumìtau Naçiunale de Tradiçiue Munegasche, di cui in questi ultimi anni fu presidente, e poi come membro fondatore della Académie des langues dialectales.

    Assai feconda la sua produzione letteraria con la pubblicazione di poesie, saggi e contributi ai Colloques del langues dialectales nonché con la preparazione di testi per l’insegnamento della lingua monegasca nelle scuole del Principato dove fu direttore dei corsi. Affabile e burbero nello stesso tempo, ma sempre con il sorriso sulle labbra, il Canonico Franzi era a Monaco una vera e propria istituzione mentre da ogni parte contava amici ed estimatori.

    Nel 1981 gli era stata consegnata la “Cicala d’argento” con la quale nel Felìbrige provenzale si contraddistin-guono i Mestre d’obro. Per molti anni il Canonico Franzi fu rappresentante del Cumìtau in seno alla Consulta Ligure alla quale l’associazione monegasca fu una delle prime ad aderire.

    E, nel 1985, A Compagna di Genova gli aveva conferito il prestigioso “Premio Luigi De Martini” per essere stato - come si legge nella motivazione - “un attento difensore dei valori tradizionali della nostra terra, promotore di iniziative intese a valorizzare la parlata di Monaco e al suo ricupero didattico”.

    La cerimonia funebre, presieduta dal Vescovo di Monaco Mons. Joseph Sardou si è svolta nella chiesa cattedrale giovedì 16 gennaio. Ad essa, oltre al rappresentante del Principe Ranieri, sono intervenuti membri del Gopverno e della Municipalità del Principato mentre un picchetto di guardie gli rendeva gli onori.

    Anche noi, da queste colonne , a nome di tutti gli amici, intendiamo dare il nostro commosso addio, al Canonico Franzi che certo non dimenticheremo.

                                             R.V.

                                                                  LA VOCE INTEMELIA anno LII  n. 2  - Febbraio 1997