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       Sotto l’egida dell’Assessorato alle Manifestazioni del Comune di Ventimiglia, nella settimana precedente il Natale, la Cumpagnia, con l’incarico di decana, riunisce tutte le Associazioni volontaristiche ventimigliesi nella Sala Consigliare del Municipio, per scambiare gli auguri di Buone Feste con le Autorità cittadine. In nome di tutti i presenti, la Cumpagnia offre al Sindaco la tradizionale giaretta istoriata con un tassello raffigurante un mestiere o una professione, tra quelle che la moderna evoluzione ha situato fra i nostri ricordi, oppure è cambiato al punto di dover essere ricordato nell’antica veste. La giaretta, simbolo di prosperità, contiene sciacümi e secümi, frutta secca o essiccata, altro simbolo d’abbondanza, nella qualità d’antica riserva commestibile per affrontare il lungo inverno.

 

La cerimonia

    Da oltre trent’anni, alla vigilia delle festività di fine anno, la ultra novantenne Cumpagnia d’i Ventemigliusi riunisce l’associazionismo cittadino, composto dagli oltre cento sodalizi spontanei ventimigliesi, per un incontro con le Autorità municipali.

    Nello scambiare gli auguri, si porge al Sindaco la “Strena de Deinà”, il dono simbolico per il Natale e come augurio d’un miglior anno futuro. In concreto si tratta di una piccola giara, contenente mandorle, noci, nocciole, castagne e fichi secchi, guarnita da una fronda d’alloro.

    La giara in cotto è opera della ceramista Clara Perotti, che ogni anno tassella l’opera con uno sbalzato raffigurante il lavoro nella vita locale, con ampi riferimenti al passato e alla tradizione. La ceramista predispone anche un prototipo di "Tundu de Deinà", un piatto istoriato con la scenetta naif del mestiere locale interessato.

    Analizzando in profondo i significati del dono, si scoprono molti particolari derivanti dalle consuetudini; che vanno ben oltre la già indicativa simbologia del mestiere che vi è raffigurato.

 

Antichissima originalità

    Nel corso delle festività di Capodanno, presso gli antichi Romani, era usanza di invitare a pranzo gli amici, per scambiarsi le “strenae”, che altro non erano che ramoscelli d’alloro, posti ad ornamento d’un candido vaso, come vedremo.

    Nella tradizione preromana, il rametto d’alloro veniva raccolto nel bosco sacro a Strena, la divinità della forza, proprio negli ultimi giorni dell’anno, quando la forza del sole sembrava maggiormente compromessa. Portando il lauro in dono al loro re, i Sabini intendevano propiziargli la forza necessaria a rigenerare una nuova prospera stagione, col sole nuovamente trionfante.

    Nell’antica Roma dei primi re, lo scambio delle strenne, avanti che il Capodanno venisse spostato a gennaio, era un’usanza primigenia primaverile, effettuata nel primo giorno di marzo, il Capodanno d’allora, appunto. In quel giorno si sostituivano i vecchi rami d’alloro con i nuovi, davanti alle porte del “rex sacrorum” dei Flamini maggiori, delle Curie e del tempio di Vesta.

    Quei rami erano connessi al simbolismo dell’Albero Cosmico, quello che offriva la sua energia al cosmo, per attuare il rinnovamento dell’anno. L’alloro, albero sempreverde, ha continuato a conservare una significativa presenza anche a gennaio, permettendo la conservazione integrale del rito. Inoltre, questo fatto si associa al significato generico di fecondità; la stessa che appartiene a tutta la vegetazione.

 

L’alloro

    Come tutte le piante che rimangono verdi d’inverno, il lauro è legato al simbolismo dell’immortalità ed è ritenuto inoltre protettore dal fulmine. “Non c’è opera alcuna senza lotta ne’ trionfo”; per questo, l’alloro esprime l’identificazione progressiva del lottatore con i motivi e le finalità della sua vittoria.

    Nella tradizione ligure, l’alloro è il ceppo ligneo associato al “Cunfögu”, detto anche “Scunfögu”, vale a dire, quelle cerimonie natalizie d’omaggio, che gli occupanti genovesi pretendevano dai popoli delle Riviere, nelle Podesterie e nei Capitaneati. Ancora oggi, un ciuffo d’alloro viene posto al culmine del pandolce natalizio, in mezzo ai tre segni rituali, incisi prima della cottura.

    Nel corso dei ricevimenti natalizi, gli ottocenteschi saloni dei palazzi nobili genovesi erano guarniti da abbondanti frasche d’alloro. Questi veri e propri alberi natalizi portavano appesi: limoni, arance, mandarini e biscotti di forma antropomorfa; forieri dei più nordici alberi di odierna fattura. Questa era usanza imitata dalla nobiltà intemelia, intanto che la significativa presenza dell’alloro, nei mesi invernali, è ancora attiva in tradizioni antichissime.

    Una di queste è rappresentata dell’albero itinerante, coperto di variopinte cialde, dette “papette”, nelle processioni in Val Nervia, per la ricorrenza di San Sebastiano.

 

La giaretta

    La giara è stata un simbolo comune in India e Cina, dove ha rappresentato l’inesauribile vaso dell’abbondanza, ereditato dai Veda. Il rumore prodotto colpendo una giara era assimilato al tuono, invece quell’incrinata avrebbe lasciato sfuggire la folgore dalle fessure.

    Comunemente si afferma che Diogene avesse deciso di vivere in una botte, quando invece si ritirò a vivere in una giara, in quanto, nell’antica Grecia, le giare rappresentavano le decisioni di Zeus. Queste erano appunto racchiuse in giare, site sulla porta del palazzo olimpico, una contenente i beni ed un’altra i mali, cosicché il dio vi attingeva a turno le gioie e le calamità che faceva piovere sugli uomini.

    Nell’evoluzione della nostra cultura, la giara viene quindi a rappresentare le più coerenti teorie del caso e della provvidenza. Per il popolo ligure e ponentino del passato, la giara era il contenitore del prodotto agricolo più prezioso per la famiglia, fonte di nutrimento, di medicamento, oltre nel caso, unico fattore vantaggioso di scambio: l’olio.

 

Il contenuto

    Il contenuto della nostra “giarréta” è costituito da “sciacümi”: nocciole, mandorle, noci, accompagnati dai fichi secchi, alimenti a lunga conservazione, ghiottonerie poco costose che la scomparsa civiltà contadina chiamava “i secümi”. Come abbiamo già accertato, questo rituale deriva appunto da quell’usanza antichissima, la quale ancor oggi c’impone lo scambio di strenne augurali.

    Sappiamo dunque come, fin dall’Antico Regno, nel giorno di ricorrenza del Capodanno, dedicato a Giano, i Romani usassero invitare gli amici per scambiarsi un candido vaso, guarnito con le “strenae” d’alloro di derivazione sabina, contenente miele, che conservava fichi secchi e gherigli.

    Le noci sono state per generazioni uno dei frutti tuttofare nella dispensa contadina, olio, pane e sovente companatico. Nella tradizione greca, il noce era legato al dono della profezia. Le nocciole, frutto d’uno degli alberi della fertilità, nella tradizione celtica erano spesso collegate a pratiche magiche.

    La mandorla è in genere simbolo contrapposto alla scorza e rappresenta l’essenziale nascosto da ciò che è accessorio, la spiritualità velata dalle dottrine e dalle pratiche esteriori. Nella tradizione mistica, la mandorla rappresenta il segreto che vive nell’ombra e che bisogna scoprire per nutrirsene. Nell’esoterismo medievale significa la verginità della Madre divina, la mandorla mistica.

    La castagna, fatta seccare nelle "cae föghene", i fumosi casoni campestri appositamente attrezzati, nel territorio di Buggio e Castelvittorio o della Media Val Roia, poi conservata in sacchetti di filo, costituiva una vera e propria riserva di proteine per l’inverno. Nel tempo aveva assunto il simbolismo della previdenza, avendo per molti secoli rappresentato soltanto la povertà e la semplicità contadina.
    Il fico, che rappresenta la fertilità e l’abbondanza, era associato ai riti della fecondazione ed ai misteri della fecondità, pieno com’è d’innumerevoli grani. Nell’antichità, a questo titolo, erano l’offerta deposta sulle rocce, luogo e santuario dei geni guardiani, offerta cui poteva partecipare il viaggiatore bisognoso, giacché costituiva il dono dell’Invisibile.

    Un miscuglio di miele, fichi e noci, in forma di dolcetti, col nome di “scunföghi”, era consumato in piazza, attorno al fuoco natalizio, nei villaggi della Val Verbone, fino al recente dopoguerra. Oggi l’usanza è decaduta ma il riscontro del confuoco locale viene confermato dal “Fögu d’u Bambin”, acceso, in molte “piazze” dell’entroterra, dal Solstizio fino all’Epifania, almeno.

    Nella dieta dei nostri antenati medievali, abitanti d’un territorio notoriamente ricco di fichi, il “fiorone” rappresentava una seria scorta di vitamine per l’inverno, oltre che una delle rare mercanzie da esportazione. Si tratterebbe di quei famosi “pani”, custoditi in un avviluppo di foglie della stessa pianta, che disseccheranno, ma conserveranno la morbidezza, chiusi dentro i barili, adatti per il trasporto. Ebbene, questa attività mercantile ci ha meritato, nei secoli, il soprannome di “figui”, poi abusato dalle comunità confinanti.

    Tornando al concetto dell’alloro come “stréna”; dobbiamo aggiungere come, quello che in dialetto è chiamato “auribàga”, sia stato albero consacrato ad Apollo ad alla Vittoria. Con le foglie dell’alloro si confezionano ghirlande per incoronare il poeta, l’artista ed il vincitore, in genere.

 

L’exenia

    In Genova, così come in tutta la Liguria, fin dall’antichità, il popolo aveva spontaneamente praticato la guarnizione con frasche d’alloro dei sacrificali, dedicati alle cerimonie per il Solstizio invernale, fino ad ornarne il medievale “cunfögu” e sovente gli “encenium” ad esso congiunti.

    Negli antichi Statuti di molti comuni del Ponente, il termine “encenium”, equivalente a regalo, era inutilmente citato tra le cose che il Podestà “non possit capere vel recipere”, vale a dire non pretendere.  Peraltro la “ensénia” era immancabile nella ritualità del Confuoco.

    Conservando lo spirito della tradizione applicata da sempre nell’estrema Riviera ponentina, in quest’occasione mettiamo da parte l’opprimente ceppo e non solo quello, vivificando il serto d’alloro, con tutti i significati del caso. Intanto, ci limitiamo a proporre la nostra strenna all’autorità costituita, con spontaneità e scevri dalle antiche soperchierie, rievocando la più vetusta “strena”, dunque, e non la medievale detestabile “exenia”.

 

Il tassello raffigurativo

    Il particolare saliente, che rende la nostra giara una realizzazione artigianale di pregio, di anno in anno, è il tassello, istoriato in un suggestivo stile naif. Il riquadro, foggiando attività umane, richiama la figura antropomorfa delle “sigillaria”, quelle statuette che venivano scambiate durante i Saturnali, di romana, antica memoria, sostituendo in maniera incruenta le vittime sacrificali. Oltre alla giara, dovutamente pezzo unico, verrebbero prodotti alcuni "tùndi cianéli", piatti, decorati con lo stesso argomento di tradizione.

    L’istoriazione prevede, appunto, la memoria dei mestieri antichi, con particolare riferimento a quelli scomparsi o in via di estinzione, per fissarne in qualche modo il ricordo. La ricerca, condotta a sostegno della figurazione è contenuta in un libricino allegato alla “strena”, per essere in seguito pubblicata nella speciale raccolta di tutti i tasselli delle giare, a cominciare da quella del 1985.

 

 

Le ricerche documentarie sugli argomenti dei "tasselli" sono ritrovabili sul sito:

WWW.TRUCCOONLINE.COM