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Selezione da “VENTIMIGLIA e dintorni - Guida illustrata, storica, artistica, amministrativa, commerciale e industriale”,

edita nella raccolta “Nuova Italia” - Torino - 1922

V E N T I M I G L I A

CORNICE OVEST, NEL 1929

 

Caserma dell’Annunziata - Umberto I°

    La strada maestra, appena usciti dalla vecchia Ventimiglia, continua a salire e fortemente lungo un bel viale, ove sono le caserme del presidio locale e qualche opera avanzata di fortificazione. Sul culmine della collina, a destra - come abbiamo visto, sorgono le rovine dell’ex Forte S. Paolo, quel Vecchio forte, smantellato, in posizione formidabile !

    La montagna è qui a gradinate, in parte a ulivi bellissimi, in parte a vigne, in più gran parte a fiori: è un succedersi di piccole valli non del tutto prive di acque e altresì di ombre, per ulivi di forme e dimensioni straordinarie. Anche la strada risente di questa speciale configurazione ed è abbastanza faticosa: essa si addentra nelle vallette; il panorama è limitato, solo a tratti compare la linea piana del mare, laggiù, tra il cupo fogliame degli alberi. La campagna è quasi deserta: qua e là qualche graziosa casina, sepolta nella verdura, occhieggia curiosamente il passante.

    Lasciata la Caserma dell’Annunciata (ora Umberto I°), antico convento nel 1503 e trasformato in caserma nel 1831, e proseguendo un duecento metri sulla carrozzabile di Mentone, si riscontra un piccolo sentiero che, conducendo alla frazione Ville, ci porta in men di dieci minuti ad altra storica meta: La Porta Canarda.

 

Porta Canarda

    è una torre che apriva, verso occidente, l’accesso alla città murata. Vi passava ab antico la strada che da Roma emetteva in Provenza ed in Ispagna. Sulla torre, fatta restaurare dal comm. T. Hanbury,. è stata murata la seguente epigrafe: Reliquia medioevale / Sopra la Romana strada / Ora scomparsa / Perché rammenti al viandante / Che qui passarono / Papa Innocenzo IV il 9 maggio 1231 / Nicolò Macchiavelli nel maggio 1511 / Carlo I° Imperatore nel novembre 1536 / Papa Paolo III° nel luglio 1538 / Napoleone Bonaparte il 2 marzo 1796 / Mi volle ristorala / II Commendatore Tommaso Hanbury / MDCCCLXXX. Al disopra dell’iscrizione, si vede il gruppo in marmo di San Giorgio, il patrono della Repubblica di Genova.

    Con dolce discesa si ritorna in cinque minuti alla carrozzabile, sulla strada classica, ove natura ha spiegato le  sue maggiori ricchezze che, oltre alla bellezza, del cielo e mitezza del clima, all’aria profumata dall’olezzo dei fiori che la fiancheggiano, ha concesso il suolo più ubertoso ove crescono piante d’ogni regione e frutta sopra ogni dire squisita.

    Il secentista Fulvio Frugoni ne volle celebrare, ben a ragione, con superlative lodi il soggiorno e i Ventimigliesi, i magnifici ne hanno fatto da antichissimi tempi il convegno dei loro ozi autunnali, costruendovi deliziose ville.

 

LATTE

    A 4 km. si passa davanti al!e case di Latte in mezzo a grandi coltivazioni di fiori: regione favorita da un clima dolce, mai turbato dai venti di nord. Quivi gli antichi Intemeli avevano ville. Leggiamo in Tacito che nelle guerre fra Ottoniani e Vitelliaai veniva sgozzata in una sua villa e in questi dintorni la veneranda matrona Giulia Procilla, madre del grande capitano Giulio Agricola, datore di leggi e civiltà alla remota Albione (anno 69 a.C.).

    Da Latte si diparte una strada che mette, per la mulattiera che si biforca a circa duecento metri, all’ameno villaggio di SEALZA, frazione fertile, con una popolazione di 150 laboriosi coltivatori. Proseguendo invece la carrozzabile per due chilometri si giunge ai CARLETTI ed indi alla frazione di SANT’ANTONIO parimenti ben coltivata ad ulivi, uva e fiori.

 

Al Grammondo

    Dilettevole escursione che si inizia a Latte, sorriso e trionfo della Ligure Riviera. Si prosegua per le viscere dei monti che rapidi terrificanti si precipitano sino al piano. Le solinghe valli, incoronate di pace e di silenzio sembrano farci festa. Dopo la visione della Costa Azzurra, diadema di rubino sul manto vellutato, colore verde cupo di una campagna ridente, salutiamo Sealza. Molti non hanno visto, troppi ignorano esista questo imponente belvedere, incastonato in una amena posizione che domina tutto il vago paesaggio dai monti al mare. Precipizi orridi e attraenti. Fra dirupi, uniti qua e la da ponti sospesi, si prosegue pei comodi sentieri ove il lavoro manuale ha trovato il ben efficace concorso della natura. Passano visioni splendidissime di monti titanici, valli gaie, con bruni paeselli vegliati dalla sagoma grave dei campanili, estese coltivazioni di oliveti; colline chiomate di pini, ruderi di castelli medioevali che conservano tutti il loro fascino: entriamo in VILLATELLA fiera e gentile; segue assai dappresso Grammondo col suo fascino emozionante. La eco delle cime severe si sveglia ai lazzi degli escursionisti. Il cicalio e i pettegolezzi mondani tessono la cronaca del giorno. Il sole comincia ad essere stanco per aver riscaldato tutta la giornata e si incammina verso occaso. è il tramonto; lo sport perde la sua attrattiva.

 

LA MORTOLA

    Lasciato l’amenissimo seno, denominato Pian di Latte, il terreno si scopre e vi si affiorano grandi banchi di pietra viva: tra i massi rotolati dall’alto crescono i rododendri e svettano i pini ombrelliferi in lunghe file, curvati in una stessa direzione sotto il soffio del vento periodico delle piccole gole. La salita è dolce per il percorso di circa un chilometro. Quivi ergesi uno dei punti più pittoreschi della nostra incantevole Riviera; La Mortola ! L’estremo lembo di terra adagiato in faccia al mezzogiorno ci avverte che qui comincia la Provenza con quella sua indefinibile nota caratteristica, ed è qui dove si goda di un clima quasi orientale ! Il panorama è dei più suggestivi. L’occhio contempla a levante la mole severa della vetusta Ventimiglia, che si asside come regina sul capo omonimo, e poi l’espandersi dalla città nuova, la pianura delle Asse e, più lontano la palmifera Bordighera, che si specchia nel mare di Sant’Ampeglio. A ponente la vista è una magnificenza: Ecco Mentone. il Capo Martino, Montecarlo, Monaco, La Turbia; il monte Agello, la Testa del Cane, dalle creste leggere e nude; i golfi dalle curve armoniose, ove si nascondono ville ricchissime; il Capo Ferrando, il Capo di Antibo, la punta estrema delle storiche isole di Lerino; nelle mattinate luminose; e come sfondo del quadro lontana ed imponente, la catena dell’Esterel.

    Alla sera lo spettacolo non e meno stupendo. Sul crepuscolo, migliaia di lumi, disegnano i capricci della costa ed accendono le colline. Li vicino, esce Mentone, e la sua passeggiata degli Inglesi: Montecarlo con le sue terrazze e, ad intervalli, i fari di Villafranca e di Antibo, luminosi nella notte profonda.

    Il paese è formato da piccole e graziose case, che corrono come una bianca striscia da levante a ponente. Sulla punta più avanzata sorge la bella Chiesa parrocchiale, dedicata a San Mauro, quasi in atto di sicura protezione. Gli affreschi magnifici, l’Altare artistico, il confessionale, il pulpito, tutto è splendido. La Chiesa, eretta in Parrocchia nel 1922, fu decorata e pitturata nel 1926 nella felice coincidenza delle feste giubilari per le nozze d’argento del Prevosto, e per la chiusura dell’anno santo. I quadri grandiosi o affreschi sono: a destra nella grande parete: Gesù che guarisce gli infermi; a sinistra: Gesù tra i fanciulli. Nel coro, a destra: l’istituzione del Sacramento della Penitenza; a sinistra: l’Ultima Cena e l’istituzione dell’Eucaristia; dietro al coro in basso: la scena commovente del Calvario, con armati, cavalli, le tre Croci, ecc., e in alto nella mezza cupola: l’omaggio di tutte le Nazioni del Mondo al Sacro Cuore.

    L’Altare artistico, in marmo e ceramica, con Santi scolpiti è della Ditta Ernesto Paleni di Bergamo; gli affreschi sono dei pittori Vittorio Arneri di Torino e Mario Albertella di Milano, l’artistico confessionale con belle sculture è dovuto al genio dell’ebanista G.Batt. Cassini di Isolabona.

 

Il Giardino dell’Inglese

    Sopra una striscia di terreno che, per una superficie di 40 ettari, si insinua dolcemente nel mare, come un bosco incantato, sorge il famoso Giardino di La Mortola. Io non so di aver contemplato mai attraverso le rive capricciose, della nostra Liguria e della vicina Provenza, un luogo pia caratteristico di questo. Di notte; in mezzo il riflessi lunari, prende l’aspetto di un vascello misterioso, cullato dalle acque silenziose. Questo meraviglioso Capo della Croce di Mortola, va rassomigliato al classico promontorio della Madonna della Ruota a Bordighera, presso l’Osteria del Mattone, resa celebre in Italia ed in Inghilterra dalla penna di Giovanni Ruffini.

    è aperto al pubblico, il lunedì e il venerdì nel pomeriggio. Il provento dei biglietti d’ingresso viene versato alle opere di beneficenza locali. Il catalogo generale è in vendita alla portineria. A tutti si distribuisce gratuitamente un libretto che da indicazioni per la visita. I visitatori oltrepassano i 10.000 all’anno. A pochi passi del portone di entrata i visitatore trova la Fontana della Sirena, ed abbraccia collo sguardo la distesa imponente del sito verdeggiante. Tornano  alla mente i versi del Carducci: Amor dal monte, che di foschi ondeggia frassini al vento mormoranti e lunge per l’aure odora fresco di silvestri salvie e di timi ..... . E verrebbe fatto di seguitare, con leggera variante: Salve, Mortola verde ! Una serie di aiuole e di sentieri va intersecando tutto il giardino; ma il visitatore può inoltrarsi sicuro, per la dolce china, affidandosi a qualunque verso, perché tutte le strade conducono al mare, e si riferiscono al centro ove sorge il ricco ed elegante castello.

    Posto a mezza strada fra Ventimiglia e Mentone, è facile congetturare che questo fosse la residenza di un vassallo del Duca di Savoia. è merito preclaro di Sir Tommaso Hanbury l’aver conservato al castello l’impronta medioevale quando la fece trasformare nell’attuale grandioso palazzo. Tomaso Vallauri vi scrisse la seguente epigrafe, certo d’interpretare il pensiero dal munifico proprietario: Domun hanc / In usum rusticationis / A Violante virg. Deo devota / ex nobili Lanteriorum genere / Novissima / M.co loan. Bapt. Orengo Ventimil / Ann. MDCXX / Venundatam / Vetustate fatiscentem / Splendidiore cultu / Restituit atq. Decoravit. / MDCCCLXVII.

 

Il Palazzotto

    Nell’antica casa abitavano già nel 1400 i Lanteri, patrizi genovesi, i quali la cedettero nel 1620 alla nobile, famiglia 0rengo. Quivi indubbiamente, soggiornò nella terza decade del 1511, il segretario fiorentino Nicolò Macchiavelli, quando la Signoria di Firenze lo spediva commisario a Luciano Grimaldi, Signore di Monaco. In compagnia del nobile ventimigliese Antonio Lanteri percorse il lungo e disagiato cammino che offriva allora la Liguria occidentale e ottenne  cortese ospitalità in questa amenissima villa.

    Fanno fede del nostro asserto, due documenti tratti dal R. Archivio di Stato in Firenze (Diplomatico, Riformagioni. Atti pubblici) che rendono nota la missione del Macchiavelli in Monaco, e ne sia ai lettori prova la inedita copia della lettera, cha accreditava a Firenze l’inviato Lanteri: A li illustrissimi Signori et Signore, Gonfalonieri, Conseglio et Sinoria de la excelsa Repubblica di Firenze. «Ill.mi Signori Confalonieri. Consiglio et Signoria. Lo lator de la presente sarà  Messer Anthonio Lanteri  citadino de Ventimilla nostro bon amico, qual mando dalle Signorie vostre per conferere cun quello de alcune cose che da lui intenderanno  -  Si che preghole se degnino darli audientia et de quanto gli farà intendere de mia parte, gli vogliano prestare piena fede, quanto a me proprio.  - Et non più che alle presente. III. S.V. ma ricontando et offero preghando Dio le conservi in  bono et felice stato. Monaci VIIII Aprilis 1511. L’amico et servitore Lucianus de Grimaldis Monaci dominus etc.»

    All’entrata principale, sotto l’atrio, si ammira un bel mosaico, opera delSalviati di Venezia. Esso rappresenta Marco Polo, il primo europeo che esplorò la Cina, coma lo indica pure la iscrizione che si legge intorno: Marcus Polus Venetus / nato MCCLlV ob MCCCXXIII / Sinae peregrinator primus. Sopra l’arco del porticato v’e questo motto: Inveni portum / Spes et fortuna valete / Sat me lusistis / Ludite nunc alios.  - Ho trovato il porto, speranza e fortuna, addio ! Per troppo tempo mi avete illuso, or ingannate gli altri !

    Una targa in marmo, murata a ponente del palazzo, ricorda che il 25 marzo 1882, la Regina Vittoria era ivi ospite del grande Inglese, e che in breve ora Ella dipingeva su acquarello una vista magnifica del paesaggio, quale essa si gode dalla veranda del salone.

    L’epigrafe spira un latino classico e puro: Hae in aula sedebat / Victoria / Regina nostra Serenissima / Nobiscum  urbanitate regali colloquelatur / Magnaque cum admiratione / Circumspectibus omnibus / Gloriam una voce incessabili enarrantibus / Domini Dei Creatoris / Prospectum pulcherimum / Manu sua propria delineavit / XXV die mensis martii / MDCCCLXXXII.

    Dalle terrazze che sono a mezzogiorno si gode un punto di vista dei più svariati; li vicino si trovano gruppi superbi di piante grasse; nella vasca si scorgono i curiosi pesci cinesi, specie interessante e veramente straordinaria. Al ritorno, vicino alla campana giapponese, i visitatori si trovano all’entrata della Pergola, dove ergesi questa iscrizione: Rara iuvant; primis sic maior grafia pomis / Hibernae pretium sic meruere rosae  -  che traduciamo: Le rare cose son le più guardate; i primi frutti sono tra i migliori, e le rose d’inverno in mezzo ai fiori sono fra tutte ognor le più stimate.

    La Pergola è al livello ed all’est del palazzo: essa adorna un bel sentiero coperto, fiancheggiato da pilastri di pietra, circondati da un gran numero di piante rampicanti. Al fondo della Pergola, ove si gode il panorama incantevole del Golfo di Latte, un poco a sinistra si legge, nel muro, la iscrizione biblica: Audiverunt vocem Domini Dei deambulatis in horto. - (Genesi III, 8)  - Hanno sentito la voce di Dio che di sé riempiva il giardino.

    Al di sopra del pergolato trovasi una grotta di capillari, e una ricca collezione di agave e di aloè. Più sopra si apre una aiuola circondata da canne d’India, che mette capo ad una piccola fontana nel cui centro mostrasi un gentile bronzo giapponese, contornato dai superbi papiri di Cipro  - il famoso papiro degli antichi, usato come carta. Nelle vicinanze si può vedere la grotta di stalattiti e stalagmiti.

 

Balzi Rossi

    Ultima borgata del confine occidentale è GRIMALDI, nome che rimase a questi località dopo che di essa fece acquisto nel 1351. Carlo Grimaldi, Signore di Monaco. Bella Chiesa dedicala a San Luigi: é del XVIII secolo.

    La Dogana Italiana sorge poco discosto, sopra un enorme scoglio a picco sul mare. Qui la discesa lungo la montagna detta di Garavano, nei cui fianchi si sprofondano grotte che dettero agli studiosi ricca messe di oggetti preistorici. Chi seguendo la strada Iitoranea che da Ventimiglia per Grimaldi immette a Mentone, attraversato appena l’attuale confine politico tra Italia e Francia, corrispondente a quell’angusto e scosceso burrone di San Luigi, si trova ad un tratto innanzi ad un’antica rupe di calcare giurassica, entro la quale, sopra una scarpa detritica, si apre una serie di anfrattuosita e di caverne distribuite a varia altezza sul livello del mare. Quelle rupi nude ed aduste ritraggono un  aspetto fantastico non solo per le forme bizzarre, ma anche dalla tinta rossiccia della roccia, donde il nome di BALZI ROSSI: tale era la dimora di una popolazione selvaggia di stirpe bene diversa da quella dal Ligure odierno. Là il troglodita nostro antenato chiudeva gli occhi al sonno, li fabbricava le sue armi e le sue suppellettili, là componeva per l’ultimo riposo le salme dei suoi morti, ponendo loro accanto gli ornamenti e le armi che in vita avevano portati insieme alla scorta di cibo che occorreva al gran viaggio.

    La ricerche di Grand, di Forel, di Perez, di Moggdrige, di Lechantre, di Broca, di Rivière, di Costa di Beauregard, di Sulien, di Bonfils, di Verneau, dell’abate di Villeneuve, di Cartailhac e del compianto Arturo Issel furono coronate del più felice successo. Le tombe dei trogloditi dei Balzi Rossi furono oggetto di vivaci discussioni da parte di chi volle determinare l’epoca, ne sarebbe ancora risolta la questione, senza l’opera del Colini, il quale con esauriente studio di analisi e di critica ha potuto riconoscere essere recisamente «neolitici»; che lo scheletro rinvenuto nella quarta caverna appartiene al gruppo etnico dolicocefalo dei Cro-Magnons, spettante al periodo quaternario, caratterizzato specialmente dall’ascia levigata, dalla introduzione delle stoviglie, con l’uso del rito funebre dell’inumazione.

    Controversie circa l’età del depositi: Arturo Issel asserisce: «Uno degli studi più estesi, e pregevoli .sulla stazione di Balzi Rossi certamente il più comprensivo, se cosi posso esprimermi, pel numero delle osservazioni riferite e discusse, e sopratutto pel confronto fra i manufatti delle celebrate caverne e quelli di altre stazioni di epoche diverse e di vari paesi è la memoria del Colini. Il Colini conclude il suo elaborato studio con queste parole: «Pertanto sotto qualunque aspetto si consideri la questione dell’età delle tombe dei Balzi Rossi, si viene sempre alle medesime conseguenze, che cioè mancano argomenti per farle risalire ai tempi geologici, nonché per i caratteri fisici degli avanzi umani, si collegano alle sepolture neolitiche della Liguria.

    Pei caratteri dei manufatti e dei fossili ivi scoperti fino a quella data (1835) le caverne di cui si tratta si possono legittimamente attribuire all’epoca delle renne, se si tiene conto della posizione geografica e topografica di Ventimiglia e se si riflette che sotto quella latitudine e sulle rive del nostro tiepido Mediterraneo le specie postplioceniche di tipo artico forse non giunsero e l’estinzione di certi mammiferi quaternari del tipo meridionale, per esempio dei grandi felini, deve essere avvenuta più tardi che altrove, si è naturalmente condotti a ringiovanire i depositi dei «Balzi Rossi» fino al punto di collocarli fra quelli di cui il renne suol essere il fossile caratteristico».

 

Il Materiale raccolto

    Enorme davvero il materiale archeologico raccolto dai numerosi ricercatori e da anonimi saccheggiatori. Se ne arricchirono un poco tutti i Musei del Mondo: in rilevante misura il Museo Antropologico di Monaco (Principato), quello di Hanbury ai Balzi Bossi, il Museo Nazionale e l’Istituto Cattolico di Parigi, i Musei di Ginevra, di Berlino, di Nizza, di Lione, Musei d’America e, più modestamente il vicino museo artistico di Mentone e i musei nostri di Genova, Siena e Torino.

    Il prodotto generale degli scavi consiste in parecchie centinaia di manufatti silicei, in numerosissime schegge di selce e diaspro (salvo poche eccezioni questi oggetti sono di piccole dimensioni, assai grossolani e lavorati non solo nelle varietà più tenaci di pietra, ma anche in quelle che presentano più vago aspetto per lucentezza e tinta vivace), rifiuti di lavorazione, in conchiglie marine e terrestri (di specie per lo più scomparse, o abitanti di altre latitudini, tali la Cunis Rufa e lo Strombus Bubonius), e in ossa o denti di mammiferi, di mammouth, dell’elefante circumpolare, dell’orso, del leone, del rinoceronte, della renna, ma principalmente di cinghiali; di cervo e di capra. Tra questi oggetti soni da notarsi i coltellini di piromaca o diaspro, gli uni terminati in una punta ottusa, gli altri appuntati , dal margine tagliente, ben sovente ritoccato a piccole schegge; punte di freccia a mandorla; punte di freccia ad alette o che fanno transizione al tipo ad alette senza peduncolo e sono fatte delle medesime pietre, punteruoli a sezione triangolare, bulini, raschiatoi litici in forma di larghe lamine dal margine tagliente, e cuspidi, accette triangolari, ciotoli ovoidi di serpentina, diorite e afanite, ecc.

    Di mano in mano che si sale dagli strati più bassi ai superiori, i manufatti si vedono in po’ meglio lavorati, forse anche perché si lavorava la migliore pietra di prima. Essi consistono accora in lame, punte, scalpelli in parte di quarzite. Vi sono anche oggetti di arenaria. Rara nei più profondi strati è la selce, ma si va facendo sempre più preponderante; negli strati meno antichi.

    Accanto agli oggetti di pietra si trovarono quelli di osso e di corno cervino. I più notevoli esemplari di manufatti furono trovati sempre accanto agli scheletri umani. Tali le belle lame di selce e  i molti piccoli oggetti forati, come conchiglie, denti di ruminanti, vertebre di pesce, destinati ad ornamento della persona.

 

I Cavernicoli

    Il cavernicolo dei Balzi Rossi non era ne pastore ne agricoltore; viveva di caccia e di rapina: contro il nemico belva, si difendeva con le pietre scheggiate, colle affilate ossa, e con clave e spuntoni di legno. Assaliva o catturava in preparate insidie, il cervo, l’alce, il camoscio, il castoro, la linee e l’orso, la iena e il grande bovide ed altri animali in parte diversi dalle specie oggi esistenti: tra questi il grande orso delle caverne. Gli animali uccisi costituivano per il  cavernicolo la sua più grande ricchezza: nelle carni trovava il suo miglior nutrimento; nelle pelli gli indumenti, nelle ossa materie prime per foggiar punte micidiali e molteplici utensili.

    Le tribù dei Balzi Rossi collocavano i loro morti con molta cura nelle proprie grotte, secondo un rito prefisso e deponevano loro accanto le armi e le cibarie come fecero di poi i cavernicoli neolitici. I cadaveri urano fregiati di collane e monili (formati di vertebre di pesce, di denti d’erbivori o di conchiglie forate) e in gran parte coperti di indumenti ornati di conchiglie. Nelle tombe era sparsa molta polvere di ematite, forse col pensiero di renderle più gradevoli all’occhio, o perché il rosso fosse tenuto in conto di colore sacro alle divinità. Abbiamo, adunque, dinanzi a noi una catena estesissima, continua o quasi, così nell’ordine dei caratteri scheletrici, come in quello dei costumi; possiamo anche affermare che i cavernicoli dei Balzi Rossi sono gli aborigeni della Liguria, e che la medesima stirpe  si è mantenuta, ad onta di qualche commisto, sino all’aurora dei tempi storici.

 

Il Museo

    L’esplorazione sistematica dèi Balzi Rossi entrò, per iniziativa del Principe Alberto di Monaco, in una nuova fase, e colà furono eseguiti nuovi scavi in larga scala, sotto la direziono di scienziati competenti: il «Museum Præhistoricum» di Grimaldi e il Museo Antropologico di Monaco ne raccolgono i frutti poiché visitati continuamente da colti stranieri e in cui posarono attento lo sguardo i membri del Congresso Antropologico tenutosi in Monaco, nell’aprile 1906.

    Conviene pure ricordare come il commendatore Sir Tommaso Hanbury, tanto benemerito della Liguria per le sue opere di illuminata beneficenza, fece costruire a sue spese, dinanzi alla Barma Grande (la quinta delle nove caverne) un piccolo edificio a Museo Preistorico, perché vi fossero conservati gli oggetti (scheletri umani, ossa e mammiferi, fossili, manufatti) rinvenuti nella caverna dai proprietari del fondo, i signori Abbo.

    La caverna stessa, ora quasi completamente sgombra dai detriti che ne riempivano la parte inferiore, costituisce come un annesso del piccolo Museo, in cui possono studiarsi, nella posizione che occupavano originariamente, i tre scheletri umani più recentemente rinvenuti.

 

Delizie e mondanità dei Balzi Rossi

    Sono gli incantevoli locali, recentemente riaperti al pubblico, che coronario gli sforzi dei proprietari in favore dell’industria del forestiero. Osiamo dire che i luoghi Internazionali di delizia siano di gran lunga sorpassati dai miracoli operati in quella plaga incantevole ! Chi solo guardi e domini con lo sguardo la deliziosa vista che si dispiega ai piedi dell’Hotel Miramare, dal quale a mezzo di un ascensore, opera ardita di ingegneri italiani, si discende ai Balzi Rossi non può rimanere entusiasmato dal seducente panorama. Mentre il mare azzurro di Liguria si perde all’orizzonte, a destra le colline verdeggianti di Mentone e di Capo Martino fanno contrasto con la fiorita Riviera di Latte, il tutto si fonde in uno spettacolo, di bellezza indimenticabile.

    Se è vero che nell’al di là esistono gli Elisi essi devono rassomigliarsi certamente a questa plaga benedetta. E alla brillezza della natura si accoppia lo sforzo dell’uomo ! I Balzi Rossi sono un edificio dotato di tutte quelle comodità che chiamar si usa con la frase di confort moderno. Una ampia terrazza domina il mare e i saloni possono accogliere e difatti accolgono la più elegante colonia di ricchi forestieri.

    è l’Hotel Restaurant des Grottes con l’annesso «Circolo Cosmopolita», maggiormente allettano a più brillanti successi !

 

Le Grotte

    Venendo adunque dal Vallone San Luigi, si incontra la prima: la «Grotta dei fanciulli». Presenta da principio (1874) un certo numero di avanzi di cinghiale e di cervo, scarse conchiglie, selci scheggiate, manufatti d’osso ed articoli d’encrini fossili, che si suppongono oggetti d’ornamento. Il 7 luglio 1875 a maggiore profondità, vi si rinvennero due scheletri di bambini coperti o circondati nella regione lombare da circa un migliaio di conchiglie «Ciclonassa neritea» forate. Vi si rinvennero più tardi quattro scheletri umani di particolare interesse, il 10 aprile 1801 ad altra profondità di m. 1,90 lo scheletro di una donna e l’altro di un adolescente dai 15 ai 17 anni. La loro posizione era delle più bizzarre.

    La grotticella N. 2, che è un piccolo cavo formato da una sporgenza rocciosa di quella stessa ripa in cui si apre la prima spelonca, non fornì che denti di Cervus elaphus, associati a qualche scheggia di diaspro e ad altri residui di scarso interesse.

    Nel numero 3, grotta che misura m. 9,59 di larghezza e 7 di lunghezza, si trovarono ossami in copia, con alquante selci, un ciottolo di serpentina ammaccato ed arrossato di ocra ad una estremità due pugnali di osso, un lisciatoio di corno, ecc.

    Più in alto, di fianco all’ingresso est della galleria ferroviaria, si apre la Barma del Cavicchio, le cui dimensioni erano di m. 19 per la lunghezza. Si trassero a vari livelli residui organici, nonché pietre, conchiglie ed ossa più o meno lavorate; poi uno scheletro umano, ben conservato di adulto, a m. 6,55 sotto al livello primitivo. Giaceva verso la parte laterale destra della cavità, coricato sul lato sinistro, in atteggiamento di riposo, col capo un poco sollevato e il mascellare adagiato sulle ultime falangi della mano sinistra a contatto della base craniense e della regione posteriore dello scheletro, v’erano varie pietre greggie, più o meno voluminose, come sa avessero servito di sostegno al capo.

    Lo scheletro è tra i fossili umani uno dei più completi, non mancandovi che alcune ossa dei piedi e pochi frammenti della tibia del perone sinistro. Il suo cranio di forma dolicocefala, assai allungato, convesso alla sommità, offre strette analogie con quelli ben noti: le suture di questo cranio sono tutte saldate e, per lo più, poco appariscenti, le orbite di forma rettangolare hanno tal particolarità comune coi teschi di Cro-Magnon; l’angolo facciale è assai aperto e manca, nella faccia, ogni segno di prognatismo e di altro carattere che accenni a razza inferiore; l’angolo della mascella è arrotondato; le aposifi coronoidi sono poco sporgenti. I denti sono sani o logori e non vi si scorgono più ne tubercoli, ne incavi; la superficie loro prettamente piana e orizzontale, fatto singolare se si consideri che i caratteri osteologici dell’individuo, che doveva raggiungere almeno, m. 1,85, non sono quelli di un vecchio.

    Il cranio era circondato da circa duecento conchigliette marine, artificialmente forate e da ventidue canini di cervo, comune egualmente forati. è impossibile non riconoscere in questi oggetti gli avanzi di una acconciatura che adornava il capo del defunto. A contatto del cranio del medesimo, di contro al frontale, si raccolse un radio di cervo, appuntato forse ad uso di stila, presso l’occipitale, e si trassero dal terreno due lame di selce a sezione triangolare, infrante entrambe alla base.

    La caverna numero 5 o «Barma Grande» è più estesa perché penetrava nella roccia per ben 28 m. presentando larghezze variabili nei diversi suoi strati. Il suolo di essa constava di un terriccio umido e nero, sparso di pietre angolose, il quale conteneva numerosi manufatti litici, schegge di piromaca, punteruoli d’osso e moltissimi avanzi di animali. Nel febbraio 1892, si rinvennero tre scheletri incastrati in un terreno ossifero nerastro, misto a detriti di roccia, che giacevano l’uno vicino all’altro, anzi in piccola parte sovrapposti, all’imboccatura della spelonca, trasversalmente al suo asse, in una zona di circa m. 1,20 di larghezza. Cranio ampio, dolicocefalo, con distinto prognatismo facciale e dentale; statura media metri due. Una selce di 17 cm. di lunghezza fu trovata presso la mano del primo scheletro ed un coltello o lama di selce bruna, di circa 33 cm. di dimensioni invero straordinarie, fu raccolto accanto al terzo teschio. E il 12 gennaio 1894, a circa m. 1,50 dai precedenti, verso il fondo della cavità e a m. 1,60 al di sopra si rinveniva un nuovo scheletro umano. Si rinvennero parecchi raschiatoi di arenaria di lunghezza variabile dai 7 agli 11 cm. Tra le selci segnalate in questa grotta è bene ricordare due tipi non comuni; il raschiatoio doppio, lunga lama di selce terminata a ciascuna estremità da un tagliente ad arco, lavorato a sottili schegge, ed il perforatore, il quale presenta una punta acuta atta a forare ed un margine scheggiato ad uso di tagliente. La fauna, risulta precipuamente di numerose specie fra le quali si reputano emigrate quelle designate coi nomi di «Felis Spelaci», «Capra Primigenia», « Bos Primigenius» ed un suino affine al «Sus Larvatus».

    Sulla punta estrema del promontorio, sempre più in riva al lido, si apriva la «Barma del Bausu d’a Ture», completamente distrutta dalle cave di pietra installatevi. Era assai più prossima al mare delle precedenti, larga m. 16 si inoltrava per soli 12 m. Il suolo di essa, sotto in cumulo di detriti caduti dalla volta, si presentava formato di una breccia rossastra, ricca di residui organici. Presso la superficie, vi si trovano spoglie di piccoli roditori, al di sotto, ossa e denti di ruminanti e d’altri mammiferi, conchiglie (specialmente mitili e patelle), nonché parecchie punte di freccia e punteruoli d’osso, il tutto misto a cenere, carbone e frammenti di roccia. Tra i testi di mammiferi, debbono essere segnalati un canino d’orso delle caverne od una mandibola di lupo raccolta alla profondità di m. 2,75. Un po’ più in basso, a m. 3,75 di profondità si scoprirono tre scheletri umani, due di adulti ed uno di giovane. Lo scheletro del primo era accompagnato da armi, suppellettili ed oggetti vari d’ornamento. Per quanto incompleto offre i caratteri più segnalati nell’esemplare della quarta caverna, ma di statura più alta: oltre i due metri. Presso l’omero destro, si trovò una grande lamina di selce irregolarmente ellittica, un poco smarginata nella parte media, e perciò si argomenta che fosse originariamente unita ad un manico e potesse adoperarsi ad uso di mazza.

    Il secondo scheletro umano, scoperto a m. 3,90 di profondità in mezzo ad un deposito di ceneri carboni, ossa di animali, conchiglie, ecc. presentano un colore rosso particolare che il Rivière attribuisce ad una tinta ocracea, applicata al cadavere all’epoca del seppellimento. Identica colorazione la si osserva sui manufatti, sulle conchiglie, su denti forati rinvenuti a contatto od in prossimità di quelle ossa umane. Riposava sul fianco sinistro, sopra un piano inclinato dall’avanti all’indietro e dall’alto in basso. Era incompleto: mancante di gran parte del torace, della colonna vertebrale, di un osso oliaco, del sacro e di parecchie parti delle estremità inferiori: forse in parte divorato dalle fiere ?

    Il cranio presenta una dolicocefalia pronunciatissima, e una larghezza non comune della regione facciale: le orbite sono rettangolari come quelle degli scheletri dei Cro-Magnons. La testa del morto era circondata di piccole conchiglie e da canini di cervo perforati, formanti quasi un copricapo od una corona.

    A breve distanza, avanzi di un individuo giovane, cioè ossa alterate e quindi fragilissime, prive di ornamento e della tinta ocracea osservata negli altri. Lo scheletro giaceva disteso, col torace in basso e i piedi in alto presso l’apertura della grotta. Negli scavi praticati posteriormente, a profondità alquanto maggiore, si ebbe a verificare che mancavano i soliti utensili di selce e di diaspro ed erano sostituiti da manufatti d’arenaria quarzosa a grana minuta.

    Girato il promontorio o risalendo pel sentiero sino a qualche passo sopra la strada ferrata, si incontra la grotta numero 7 che ab antico prendeva il nome da un non esistente Ponte Romano e che si ch’amò Caverna del Principe da quando acquistata ancora vergine di scavi dal Principe Alberto di Monaco, il magnifico creatore del Museo Oceanografico vi fece eseguire accurate e fortunate ricerche. Le dimensioni sono m. 33,70 di lunghezza, dai m. 9 ai 16 di larghezza con un’altezza di m. 21 ed è questa attualmente, la Grotta più vasta dei Balzi Rossi.

    L’ultimo «focolare» dei cinque substrati, quivi rilevati si riferisce indubbiamente ad una fauna medio quaternaria (od anche infra quartenaria, consentendo ad un ordinamento informato ad altri concetti) e ciò in contrasto con l’opinione del Colini. Infatti mancano ossa e denti lavorati. Quivi invece si raccolsero in copia manufatti grossolani e poco svariati consistenti da schegge subtriangolari ritoccate sopra due margini o sopra un solo margine, in doppie punte, cioè schegge appuntite alle due estremità e per lo più ritoccate in punte arrotondate ad un capo e rese acuminate colla scheggiatura all’altro.

    Proseguendo verso Ventimiglia scorgesi la successiva n. 8, che non è che un’angusta anfrattuosità della roccia, che presentò finora poco di notevole.

    Il n. 8, a Barma dei Gerbai, piccola cavità che rimase tagliata dalla trincea aperta per far luogo alla ferrovia, offrì ossa di mammiferi pertinenti a buon numero di specie, tra Ie quali son citate: l’Ursus Speluens, il Canis SpeIaeus, (propriamente il Canis Aureus o sciacallo) la Hyaena Spelaea, la Felis Spelaea, il Felis Antiqua o lince, rinoceronte di specie indeterminata. A queste si trovarono associate alcune ossa di gazza, di pernice e di colombo.

 

Condizioni Climatiche  - Temperatura.

    Ecco .le temperature estreme rilevate durante un periodo di dieci anni con una media centigrada massima e minima: gennaio da 3 gradi centigradi a 14 / febbraio da 3 a 14 / marzo da 4 a 16 / aprile da 7 a 20 / maggio da 9 a 23 / giugno da 11 a 23 / luglio da 17 a 28 / agosto da 15 a 29 / settembre da 14 a 29 / ottobre da 12 a 27 / novembre da 2 a 20 / dicembre da 2 a 18.

    La temperatura media è dunque dai 10 agli 11 gradi centigradi. L’elevazione della colonna barometrica è di 0,753. La pioggia si può calcolare al massimo dai 40 ai 45 giorni. Le nevi sono quasi totalmente sconosciute, le nebbie rare, una o due volte all’anno e scompaiono in brevissimo tempo. Predominano talvolta i venti.

    Le stagioni qui si allacciano cosi bene con l’inverno - un Arcade direbbe con anella di rose a viole - da fondersi quasi insieme, le tre stagioni, come una sola, lunghissima, deliziosa, quintessenza di primavera. Tema assai difficile l’indicare anche approssimativamente il numero degli analfabeti: dai dati raccolti però esso è da ritenersi bassissimo.

    Ventimiglia offre ai figli delle famiglie che vi soggiornano mezzi di educazione e coltura non indifferenti. Le scuole pubbliche italiane offrono alla gioventù il modo di compiere i loro studi attraverso le scuole elementari, ginnasiali, e corsi tecnici e normali (femminile), in modo da ottenere il diploma di licenza dalle scuole medie di primo grado. Ottime le scuole della Colonia Francese: La «Ecole Française», fornisce agli alunni della consorella latina i primi elementi, che il Collegio Saint-Charles di Bordighera concreta poscia con la preparazione al baccellierato.

    Vi sono pure ottimi e provetti insegnanti privati per corsi preparatori, e per l’insegnamento delle lingue estere e della stenografia, e professori di musica e di canto. La mitezza del clima e la sua bella natura ha attratto in Ventimiglia qualche valoroso artista di pittura, che per modestia ormai notoria preferisce l’anonimo, ma per cui la visita degli studiosi deve essere raccomandata al nostro forestiero.

    La città ha inoltre ottimi Istituti di educazione per ambo i sessi, da notarsi fra questi l’Istituto Monico, e per Signorine, la Pensione di N.S. dell’Orto e quello di Vallecrosia, nonché i molti altri tenuti da religiosi e religiose di varii ordini francesi.

    La città è provveduta di varie e alquanto fornite librerie moderne, di una abbastanza ben fornita Biblioteca classica quale la Civica Aprosiana, di una moderna nella R. Scuola Complementare, di quella dell’Alliançe Française e di numerose e ricche biblioteche private pure accessibili al colto pubblico.

 

Igiene

    Le condizioni sanitarie si possono dire ottime sotto ogni rapporto. La posizione stessa della città, il fiume Roia, la vicinanza del mare, garantiscono la nettezza del suolo. - Una perfetta conduttura di acqua potabile assolutamente pura e incontaminabile contribuisce allo stato saluberrimo di questa città. La totale mancanza di grandi opifici, di officine e di simili industrie, la benefica brezza marina, fanno sì che le malattie infettive vi siano del tutto sconosciute. Rarissime le malattie acute, quindi straordinariamente minima la percentuale della mortalità.

 

Emigrazione

    Nel Mandamento di Ventimiglia deve distinguersi in emigrazione all’estero e all’interno; tanto l’una che l’altra minima, instabile e periodica. Il vero cittadino ventimigliese a affezionato alla sua città natale.

 

Divertimenti

    Ventimiglia possiede un ameno teatro, sufficiente, ove si danno alla sera opere, operette, concerti classici, produzioni drammatiche e comiche, e vi agiscono a turno compagnie di primaria e secondaria importanza. è pure sede di un bene avviato cinematografo, apprezzato luogo di convegno ricreativo della cittadinanza. Ne è impresario l’egregio e gentilissimo signor Amedeo Verrando cui ogni ente ricorre saltuariamente per qualche serata di beneficenza.

    Ventimiglia vanta puro un fiorente club sportivo: l’Unione Sportiva Ventimigliesa. Vi è pure un ottimo cinematografo, il «Cinema Intemelio». E gli stabilimenti Bagni Olimpia, e Nevina ci offrono nella bella stagione il più sincero aspetto di Stazione Bagni colle distrazioni del gran mondo.

 

Ospedale Santo Spirito

    L’antico Ospedale di Santo Spirito, bene avviato nella formazione di una adeguata sostanza, mercé le cure assidue delle passate Amministrazioni e della opera filantropica dell’illustre Comm. Hanbury, sotto la retta coscienza dell’emerito  direttore Cav. Avv. Ferrari, corrisponde assai bene alle esigenze del Comune, del Mandamento e assai spesso a quelle di altre parti del Regno, pei poveri malati che vi si collocano, provenienti dalla Francia.

    La direziono sanitaria è affidata al valente Dott. Cav. Uff. Ughetto, che con cure paterne si consacra interamente per dare sollievo e guarigione ai suoi malati.

 

Colonia Marina

    In un moderno fabbricato del viale Regina Margherita, per nobile iniziativa dell’illustre sanitario dottor Ughetto Cav. Uff. Giuseppe, sorge imponente la Colonia Marina, ormai riconosciuta di utilità pubblica e di indiscutibile vantaggio ai bambini ipoveri di Ventimiglia. In gran maggioranza i piccoli ricoverati sono scelti tra gli orfani di guerra, tra i bimbi dei mutilati e degli ex combattenti; gli altri appartengono alle classi meno abbienti tra i fanciulli riconosciuti da apposita Commissione medica bisognosi della cura marina.

    Nella colonia i ricoverati godono, oltre ai vantaggi altamente terapeutici dell’aria sana e vivificatrice del mare, dei bagni marini, della cura del sole, anche tutti i benefici di un vitto scelto e sostanzioso, di vita regolata da. buone norme igieniche, e di tutti i conforti moderni che il magnifico palazzo offre.

    Una palestra ginnastica, fornita di tutti gli attrezzi, irrobustisce i bambini i quali sono affidati alle cure del distinto prof. Alfonso Carbone, insegnante di educazione fisica nelle RR. Scuole Medie: due insegnanti occupano le ore libere dei fanciulli nelle discipline scolastiche.

    Numeroso altro personale, crocerossine, infermieri, assistenti ed altri assistono amorevolmente i ricoverati, i quali traggono grandissimo giovamento per il loro fisico gracile, durante il periodo della cura, dalla quale si può veramente dire ricevano la vita e la salute, oltre che la forza per trascorrere i lunghi mesi dell’inverno, tanto pericolosi per i deboli. Dovremmo dire del funzionamento economico della Colonia: essa vive specialmente per i contributi del Comitato Regionale Ligure della Croce Rossa, oltre che per le oblazioni di numerosi munifici privati, enti e società.

 

Il Ricovero Chiappori

    Tra le istituzioni di beneficenza, due maggiormente meriterebbero il contributo cittadino, mal negato dai ventimigliesi quando si tratta di compiere azione nobile e generosa, è il Ricovero Chiappori. Sorge in un sito ameno della saluberrissima frazione di Latte. L’edificio dall’aspetto sobrio e pure elegante nel contempo, nelle sue linee architettoniche, consta di un piano di sottosuolo al quale sovrastanno due altri piani. Vasti gli ambienti e illuminati da ampie finestre: abbelliscono il fabbricato spaziosi corridoi ed una graziosa cappella.

    Fu costrutto per 40 persone: 20 uomini e 20 donne, ma, come sempre, il numero maggiore dei ricoverati è dato dal sesso maschile. è pure circondato da un vasto giardino, ove i ricoverati possono trovare comodo sfogo per le loro passeggiate nei giorni nei quali non o permessa l’uscita. Il fabbricato, misurato al livello del pianterreno, ha m. 42,50 di larghezza sul fronte e 19,70 sui lati: la facciata principale è a sud. L’altezza media dal marciapiedi al cornicione è di m. 11,15. E l’insieme comprende circa 40 vani tutti arieggiati e di sontuosa vastità. Progettista fu l’illustre ing. cav. Antonio Tornatore di Sari Remo e la costruzione fo affidata alla Cooperativa Muratori di Ventimiglia, l’impianto dell’acqua, bagni, cucina ecc. alla ditta Pianca, pure di Ventimiglia, a quello, per l’illuminazione elettrica alla Ditta Paderni di San Remo.

    I lavori furono iniziati il 23 Marzo 1912, indi collaudati dall’ingegnere Grand’Uff. Pietro Agosti nel luglio 1914. La spesa complessiva dell’edificio ascese a Lire 128.657,30.

    L’ospizio non funzionò per la sua naturale destinazione per le vicende della guerra e sopratutto perché mancava la fognatura. Costrutta questa con l’aiuto del Comitato regionale della Croce Rossa Italiana, ospitò per due anni numerosa colonia marina dello stesso Comitato.

    Dal 23 febbraio 1920 è aperto ai vecchi dei Comuni di Ventimiglia, Sestri Ponente e Camporosso: i tre comuni interessati per disposizione del benemerito fondatore comm. avv. Ernesto Chiappori, al quale l’amministrazione ha elevato un artistico monumento nel vestibolo.

    Da allora sono passati nell’Ospizio una sessantina di vecchi indigenti: presentemente ne accoglie 36. E questo rappresenta il numero massimo che il bilancio, dato il caro vita, può ora sopportare.

    Vi sono addette tre suore dell’Istituto di Santa Marta ed un unico impiegato, secondo il rogito di fondazione, con funzioni di direttore-segretario, carica oggi coperta con amore e disinteresse dal filantropo canonico Anfossi cav. uff. Filippo. L’Amministrazione è composta dal parroco pro tempore della Cattedrale, di un rappresentante del Comune e di un rappresentante della famiglia del fondatore Ernesto Chiappori.

 

Industrie cittadine

    Ventimiglia è ricca di importanti stabilimenti industriali fra i quali oltre i molti magazzini ad oleifici che costituiscono una delle parti principali del: suo commercio, sia per la bontà che per la finezza dell’olio d’oliva per cui va celebrata in Italia ed all’Estero, annovera pur anche tre preclari ditte per la concia e rifinizione delle pelli, uno tra i più reputati pastifici della Liguria, due officine elettriche, un .promettente stabilimento enologico, fabbriche di ghiaccio, gazose, ecc.

    Nel rettilineo di via Tenda, lungo il Roia, sorgono infatti le tre officine per la lavorazione delle pelli. La più antica, di ottima fama, per la lavorazione, si, afferma la Ditta Lorenzi Filippo. Venne fondata nel 1840 dal defunto titolare cui successe nella direziono tecnica ed amministrativa dell’azienda il figlio Andrea. Questi nel 1888 iniziò ed impiantò in Ventimiglia, unica del genere in Italia ed in cui impiegava circa 5OO operai, l’industria della concia e manifattura delle pelli di capra, del quale articolo fino allora l’Italia era tributaria dell’estero, ed all’uopo stabili Filiali a Tangeri ed a Marsiglia, mietendo alti allori in questa lavorazione in Italia. Sviluppò e progredì modernizzandola l’industria della concia in Ventimiglia, creando in tal modo una provetta maestranza e favorendo così la costituzione di altre fabbriche che apportarono non pochi, benefici alla città.

    Modernizzò pure ed aumentò la produzione del Vitello bianco che s’imponeva anche su tutti i mercati esteri e che ancora oggigiorno non ha rivali. Partecipò a varie esposizioni ed ottenne medaglie d’oro all’Esposizione Nazionale di Palermo nel 1892, all’Esposizione Italo Americana di Genova del 1892, all’Esposizione Generale Italiana di Torino nell’anno 1898, conseguì premi e diplomi all’Esposizione Internazionale di Nizza nel 1884 ed all’Esposizione Italiana di Torino del 1884.

    Con R. Decreto del 20 Febbraio 1921, il Proprietario dell’Azienda Cav. Andrea Lorenzi, veniva nominato Cavaliere al Merito del Lavoro. Un secondo stabilimento di minor mole, ma, pure assai promettente, è quello gestito dalla rinomata Ditta AZARETTI. Più sopra elevasi un terzo stabilimento: la premiata Società Anonima Cooperativa fra Operai per la lavorazione delle pelli.

    Fondata il 30 marzo 1902, sino da quell’epoca il suo successo fu assicurato e la sua importanza accrebbe di giorno in giorno al punto che adesso la Cooperativa Pellettieri è fra le più importanti della Liguria Occidentale e da essa possono uscire le migliori qualità di pelli, e più specialmente di vitelli e vacchette bianche a tomaia. La produzione poi della Cooperativa è tra le più ricercate, e assai apprezzata sotto la marca «Warrot»: la entità della produzione, assai forte, varia a seconda dei tempi e del mercato. Ne è presidente l’egregio sig. Tonelli Domenico, e direttore amministrativo, quel fine sparito di larghe, pratiche e pronte vedute, che si compendia nel sig. Domenico Gibelli.

    Degni di particolare nota i due calzaturifici: il Calzaturificio Taverna in corso G. Crispi, che va acquistando gran fama, e il Civallero in via Chiappori.

    Sarebbe ovvio rammentare ai nostri lettori l’importanza del Pastificio Ligure, già Cassanello, che sorge imponentissimo lungo corso Umberto I e viale Regina Margherita, la cui direziona tecnica è affidata all’egregio sig. Bevilaqua.

    In ampio caseggiato esiste pure lungo via della Marina il nuovo Pastificio Val Roia, e nelle adiacenze di Piazza Vittorio Emanuele, il pur rinomato Pastificio Salomone.

    Mirabile esempio di cooperativismo e dato dalla ben avviata Società Anonima Cooperativa di Costruzione fra Lavoranti Muratori ed Affini, che si erge ed esplica il suo circo d’affari nella sede sociale propria di Piazza Vittorio Emanuele. La Cooperativa Muratori, fondata il 30 maggio 1905, è ormai la più quotata nel campo dell’edilizia cittadina: vano sarebbe ormai ogni pubblico elogio e lo sfoggiare di tutte le sue affermazioni, poiché ad essa vennero sempre affidati i più importanti lavori.

    Da circa nove anni si è affermata la Ditta «Vermouth Principe» della quale è proprietario l’attivissimo sig. Ghibaudo Gioacchino. Avviato stabilimento, impiantato in regione Nervia, o meglio ne’ Piani di Camporosso: fornito di perfetto macchinario per la fabbricazione del suo prelibatissimo vermouth, dei liquori, sciroppi e prodotti enologici in genere. Notevole il suo sviluppo; i prodotti che escono da questo Stabilimento infatti, per bontà e mitezza di prezzi si affermano facilmente sul mercato italiano e sulla Riviera Francese.Alle nostre feconde industrie regionali adunque, vada il nostro fervido augurio: «ad multos annos».

 

Industria floreale

    Nella ligure zolla collinare, gli antichi oliveti, ormai per multiple cause poco produttivi, vengono soppiantati con le culture floreali che ora adornano i nuovi biondi terrazzi dai muri di arenaria e di puddinga; e il colle, sotto lo smeraldina cielo dell’estrema Liguria, è infinitamente bello per il contrasto di luci e di colori tra i bruni olivati rimasti e le nuove piantagioni di fiori, disseminate di bianche casette; il tutto proprietà dell’industre agricoltore.

    Infatti, nella zona litoranea della Liguria occidentale, non v’è alcun’altra cultura di gran reddito che si possa sostituire ai fiori, che danno lavoro a gran parte della popolazione, che altrimenti dovrebbe abbandonare queste terre, oggi ridotte a giardini, perseverando un impiego incredibile di capitale e di lavoro. Il floricoltore non tesaurizza, ma impiega tutto il disponibile, e sovente anzi ricorre al prestito di Istituti di Credito Agrario o di Banche, per immetterlo nel terreno, che per sé stesso non ha alcun valore.

    Sono lavorazioni assai costose, concimazioni rilevanti, costruzioni di vasche in cemento armato, tubature di ferro, spese di acquisto di acqua al prezzo di quella potabile delle principali città. La collina ligure, così sistemata, in faccia al suo storico mare, nello sfondo del cielo azzurrigno, da all’agricoltore un senso di nobile fierezza per il cumulo di lavoro che essa assomma per difficoltà sorpassate; l’occhio nostro non si stancherebbe poi di ammirarla. In quella stretta zona litoranea di piano che incornicia i fioriti colli liguri nell’azzurro puro del mare e del cielo della Riviera, stanno di preferenza le culture di garofani, violette, ecc., perché qui vi è più comodità nel giovarsi di acqua da irrigazione, di cui queste piante hanno tanto bisogno. Parte coltivate all’aperto, parte in serra tiepida, poche in serra calda, viste dall’alto quando il sole gioca coi suoi riflessi sui vetri delle lunghe serre, allietano d’uno spettacolo meraviglioso.

    Pochi hanno un’idea di quanto sia importante dal lato tecnico, nonché da quello finanziario la coltura nazionale dei fiori, che rappresenta non solo un buon ramo di esportazione, ma anche un provento di parecchie centinaia di milioni ogni anno.

    è prevalentemente una «Flora mirabilis» di garofani di ogni sorta e colore dove l’occhio soavemente si riposa su quei lari cilestrini fra i quali spiccano qua e là, come fiammelle, teste vivaci di centinaia di varietà di garofani. Qui si palesa veramente la coscienza floreale, qui su la natura, ove prima fu un relitto del mare, uno sterile arenile, ci manifesta oggi tutta la volontà industriosa e tenace dell’uomo nostro !

    Le acacée arboree, ondeggianti al vento sopra le umili rose, danno poi agli stretti terrazzi una nota di calma serena, come gli antichi ulivi; e quei piccoli infiniti loro fiorellini gialli, nelle loro diverse qualità, e in mezzo a tutto quel verde, sono così belli che non ci si dovrebbe stancar mai dall’ammirare l’aprico ligure colle cosi gaiamente rivestito.

 

La Nuova Industria

    I terrazzi collinari piantati a rosa, a violacciocche, a giacinti, narcisi ed a mimose, conservando tuttavia lungo il ciglio in avvallo o sporgente dal muro la vite, che vi prospera benissimo e produce vino generoso, assai alcoolico, 14 gradi, che viene anche esportato. Così il famoso vino di Piematone che fa, dire «Vino di Piematone, vino da signorone».

    La concimazione delle rose è specialmente a base di crisalidi e anche di concimi chimici; ma l’agricoltore nostro vi da anche del bottino portandolo sul campo con barili di legno della contenenza di circa 32 litri.

    Alcune varietà di fiori, come abbiamo visto, si proteggono con serre, varie per lunghezza, a seconda della forma del campo coltivato; della larghezza di circa 10 metri.

    Altre meno delicate vengono ricoperte con stuoie di paglia di segala o di cannizzole, rotolantisi sopra una leggera impalcatura fatta di correnti in legno di circa 3x4 centimetri di sezione, sporgenti fuori dal terreno metri 1 a 1,30, distanti l’un dall’altro circa un metro, e collegati superiormente da lunghi correnti su cui si avvolgono al mattino. Internamente, le serre sono sorrette da cinque ordini di pali di legno di castagno; dei quali uno mediano dell’altezza di due metri dal terreno; due laterali a questo di m. 1,50 ed altri due periferici di metri 1. Distano uno dall’altro m. 1,50 - 2, nel mezzo vi è un sentiero che può servire anche da cunetta per l’acqua. I vetri sono portati da telai, in genere, di legno e sono sorretti da incavallature di semplici tavole connesse ai pali nel senso dello spessore.

    Vi sono telai invetriati che si possono aprire esternamente; le serre decorrono, in generale da est ad ovest. Occorre por mente ancora alle difficoltà di ogni specie che accompagnano la coltivazione dei fiori: lotte accanite, epiche, contro le malattie crittogamiche e parassitarie; frequenti lavorazioni della terra; abbondanti concimazioni chimiche e organiche; irrigazioni incessanti, reclamate dalle scarse precipitazioni atmosferiche nei periodi della vegetazione forzata delle piante; necessità di ripari agli orti delle terrazze per salvare fronde e fiori dalle impetuosità dei venti di mare ... e cento, e mille altre esigenze culturali specialissime che rendono il costo effettivo della produzione oneroso. Se si sommano tutte queste spese e quelle per riparazioni e ammortamento del capitale impiegato, se si tiene calcolo del valore vero della mano d’opera prestata dai proprietari od affittuari che lavorano direttamente i terreni non per 8 o 10 ore giornaliere ma che si alzano all’alba d’estate e faticano sino a notte e d’inverno lasciano il letto prima assai che spunti il sole, non crediamo essere lontani dalla verità calcolando a poco meno della metà dei 30 milioni il costo effettivo della produzione nostrale.

    La raccolta dei garofani si fa da uomini e da donne in tempi della giornata che possono variare a seconda dell’ora che necessitano per lo smercio: si raccolgono con la destra e si porgono adagiati sulla sinistra, poi si posano su di un tavolo e si fanno i mazzi di cento se devono essere portati al mercato; se chi li produce li esporta direttamente allora si passano al magazzino fiori dove, in genere, vengono riuniti in mazzi di dodici.

    Nei mesi di ottobre, novembre, gennaio e febbraio, si preparano le talee di garofano, che formose contadine, pazientemente dispongono in ben concimati piantonai alla distanza di circa 5 centimetri in ogni senso.Si annaffiano assai di frequente, specie nei primi tempi, e si ricoprono con stuoie o vetrine per proteggerle dalle cause nemiche meteoriche. In aprile si procede al dirompimento dei garofaneti, e, tolti i bastoni che formano le piccole siepi, da alcuni si procede con l’aratro, ma i più con la zappa e col bidente sradicano i cespi di garofano. Questi poi, dalle contadine, dopo di essere stati liberati della terra aderente alle radici, vengono allontanati con cesti o con carri e portati alla spiaggia del mare e ivi spesso abbrucciati.

    Pure nel mese di aprile-maggio i piantonai si vuotano per provvedere le talee radicate da piantarsi in piena serra. Le norie a maneggio mosse da un asinello per sollevare l’acqua di irrigazione vanno poco a poco scomparendo. Alle norie si sostituiscono motopompe elettriche della forza da uno a due cavalli che sollevano una notevole quantità d’acqua più sollecitamente ed economicamente.

    Sono oggi in Liguria, e prevalentemente in Provincia di Imperia, e in costante aumento, le famiglie agricole che dalla floricoltura traggono sostentamento svolgendo incessante attività in quelle plaghe ora tutte coltivate a garofani, ad anemoni, a giacinti, a viole, a rose, a margherite, a palmizi; rilucenti di spaziose serre e costellate di campi policromi che alimentano i mercati di Ventimiglia, di Ospedaletti, di San Remo, di Taggia, quello estivo di Vallecrosia, per recare nei punti più remoti d’Europa il sorriso del più apprezzato prodotto d’Italia.

    Alcune tra le più splendide varietà di fiori si sono originate per ibridazione naturale, cioè per l’incrocio prodotto dai pronubi, insetti di varie specie, che posandosi su un flore per succhiarne il nettare, si ricoprono nello stesso tempo le ali di polline che poi vanno a posare sugli stimmi di un altro fiore originando così le prime e più meravigliose e bizzarre varietà di fiori.

    Ma se si vuole noi stessi creare alcune fiche necessita ricorrere alla ibridazione varietà di fiori che abbiano qualità speci-artiflciale colla quale si trasporta appunto il polline di un fiore, opportunamente raccolto, sugli stimmi del fiore, che si vuole incrociare, operando con pennelli finissimi e poscia proteggendo il fiore da ulteriori visite di insetti e dall’azione ibridente del vento, a mezzo di appositi sacchettini di garza.

 

Mercato dei Fiori

    Poco lungi dalla stazione, ha luogo uno dei più importanti mercati di fiori dell’Italia. è un’occhiata caratteristica e che si rinnova ogni giorno. Sono i fiori di Pian di Latte, della Val Nervia, di Bordighera, di Ospedaletti che ostentano sotto gli occhi ammirati dei nostri ospiti tutta la gamma dei loro colori ! La mente non può immaginare spettacolo pili nuovo, più pittoresco, più vario, più ricco di vita. L’apertura del mercato è per sé stessa interessantissima. Si apre alle 3 e 30 pomeridiane, ma già un’ora prima comincia quel movimento di carrette, carrettini, e charabancs, diligenze, veicoli d’ogni forma, dimensione ed epoca che recano fiori dai paesi vicini; è un affrettarsi faticoso di uomini, di donne che giungono a piedi portando cesti di fiori e in due o a spalla o sul capo. I cesti di fiori ricoperti di giornali o di teli, vengono man mano allineati che arrivano sul piazzale, formando una diecina di file, separate le une dalle altre dal solo spazio indispensabile alla circolazione del pubblico acquirente. Alle 3.30 una guardia municipale da il segnale di apertura. Al fischio segnalatore tutti levano la copertura che per regolamento devesi mantenere sul cesto fino a tale momento e incominciano allora le compere da parte dei grossisti.

    Il forestiero od il passante che capiti a caso nell’ora della vendita, si arresta stupito ed ammirato allo spettacolo inatteso di questo fantastico alveare formato da gran ceste di garofani e di rose ed altre svariate qualità di fiori, da operose api umane che vendono o che comprano, da pochi curiosi nostrani e da molti d’oltrealpe, che girano tra le file delle ceste, inebriati dal movimento e dai profumi, abbagliati dai colori. E, a seconda della stagione, oltre alle rose ed ai garofani svariati, fanno pur bella mostra di sé mimose, tulipani, gladioli, narcisi, reseda, violette amorini, margherite e fasci verdi di pino, di asparago, di salsapariglia, di capelvenere, ecc. E quelle rose stesse ed i garofani in quante gradazioni di colori, di grandezza e di profumi ! A ben considerare, qual prodigiosa fonte di magnificenza, di gentilezza e d’ amore è oggidì questa  quotidiana mostra floreale che compendia tutta la nostra immensa propaganda di sentimento e di aspirazioni che, qual dono favoloso, offre all’Europa l’Italia «alma parens !»

    E Ventimiglia ha fatto molto di più: per prima ha costruito un’ampia tettoia in cemento armato formata da tre campate larghe m. 10 e lunghe 60 e tali da ricoprire in complesso 1230 quadrati di cm. 110 per 90 e seppe chiamare a raccolta i floricoltori d’Italia e d’oltraIpe indicendo la «Esposizione ligure biennale di floricoltura».

    è uso quando una partita di fiori è stata venduta di ricoprirla con panno o con carta: alla fine del mercato poi, il floricoltore porta i suoi fiori presso il carro o l’automobile del grossista e quindi avviene il pagamento.

    I grossisti francesi usano di venire sul mercato di Ventimiglia sul quale portano fiori finissimi e speciali che in riviera si usa poco coltivare e comprano i nostri, li pongono in grosse ceste che poi per mezzo dei carretti delle ferrovie portano al treno e quindi giunti nei loro paese li spediscono ai loro clienti.

    In vasti locali a pianterreno si offre innanzi agli occhi un nuovo spettacolo, sono i magazzini di imballaggio: nel mezzo un ampio tavolo ricoperto di fiori, intorno alle pareti lunghe scansie anch’esse piene di fiori. Garofani dai colori più svariati fasci di rose dalle tinte di ogni gradazione, dal vermiglio tenero al bruno, mucchi di bianchi narcisi, di giacinti crosei, carnicini e celesti, morbide tuberose, di violeciocche, attendono il lavoro delicato e complicato dell’imballaggio. Vi sono adibite una diecina di ragazze che a seconda del genere dei fiori fanno dei mazzetti di dodici o meno legandoli con fili di cotone e avvolgendoli in carta lucida e fine. Li ripongono quindi in cesti di canna fasciati internamente di giornali interponendo nei vuoti delle manatine di sfagno; quindi pesano il cesto, il quale non deve oltrepassare un dato peso, vario a seconda dei casi, per bene usufruire della tariffa ferroviaria. In ultimo vi uniscono la fattura, legano il cesto con spago e vi attaccano l’indirizzo.

    Le spedizioni per l’Italia sono eseguite direttamente dai floricoltori acquirenti ed indirizzate ai propri clienti, quelle per l’estero invece sono appoggiate agli spedizionieri di frontiera, che ritirano la merce, la smistano per i diversi paesi, compiendo sollecitamente le operazioni doganali, di transito, ecc., ed eseguendo le spedizioni con tariffe ferroviarie le più ridotte dei diversi stati. Da Ventimiglia a Roma i fiori impiegano ore 16, a Parigi ore 21, e 26 per arrivare a Monaco di Baviera, 36 per Vienna, 43 per Londra, 82 per raggiungere Varsavia, 88 per Leningrado e 118 per arrivare a Mosca.

    Così i nostri fiori varcano le frontiere ed arrivano a Parigi, nel Belgio, nella Svizzera, in Danimarca, in Svezia e Norvegia, nella Gran Bretagna .... e perseverano anche oggidì, malgrado la più sfavorevoli contingenze del momento, per quanto sufficientemente tutelate dal Ministero dell’Economia Nazionale, ed arrivano a Monaco a Berlino, a Vienna e nella Cecoslovacchia e Jugoslavia.

    Viaggiano tutta Europa, i fiori liguri, dopo una breve fermata a Parigi, per aver tempo di cambiare nazionalità e conseguente aumento di prezzo, e trovano della gente moderna che li fa proseguire per Rotterdam, Amsterdam o Londra stessa, con mezzi ancora più celeri, ove arrivano freschi e soddisfacenti dopo sole ore 1,20, 1,50 e 3,30, rispettivamente, avendo usufruito dell’aviazione, poiché ormai è un fatto normale.

    Occorrono dati statistici per dimostrare l’importanza della floricoltura ligure. I fiori che anche durante la guerra si vendevano sui mercati a 5, salirono a 30 e 50 e furono rivenduti in proporzione: le coltivazioni si estesero e si perfezionarono culminando nella «campagna 1921», la più florida, in un valore globale di qualche centinaio di milioni nel solo circondario di San Remo.

    I transiti principali sono: Ventimiglia, Zurigo, Modane, Chiasso, Brennero, Tarvisio, Basilea, Postumia. Dalle statistiche di questi ultimi anni si rileva anche un crescente continuo aumento delle spedizioni nell’interno del Regno ed una diminuzione per certe spedizioni all’estero.

    Ciò malgrado, accettando i dati dell’Ufficio Centrale di Statistica del Ministero delle Finanze, anzi che quello fornito dai vari mercati, si potrà calcolare l’introito dell’industria floreale nell’estrema Liguria occidentale. Accettando la media generale di L. 20 al kg., si aggiunge la bella cifra di 130 milioni. Ma si è fatto in realtà molto di più, senza tener conto del valore dei fiori consumati nei luoghi finitimi, a quello della produzione, alle spedizioni fatte a mezzo postale, dei vagoni offerti per feste patriottiche, o per esposizioni e, calcolando la produzione totale dell’ultima campagna in 8 milioni di kg. sulla base media di vendita di L. 30, valore previsto dalla nostra esportazione moderna, si raggiunsero i 240 milioni !

    Ma l’anima nostra esce là dai mercati, dove tutto si tramuta in denaro sonante, e si rifugia nei vecchi giardini e nell’anima nostra.

 

Industrie accessorie

    Oltre alla redditizia coltivazione dei fiori per esportazione, siamo ben lieti di poter constatare quell’altra di piante di profumeria che pure si avvia verso un rilevante sviluppo. Sono oltre 60 i benemeriti coltivatori che già attendono a questo ramo. In 1200 mq. di terreno coltivato a gelsomini si sono ottenute oltre 2700 lire al netto delle spese di lavorazione; la salvia sclarea arriva a dare quasi la metà, la rosa di maggio rende pure molto bene; si fanno in Provincia di Imperia coltivazioni estese di lavanda, gelsomino, rosa di maggio, salvia sclarea, issopo, ecc. Ne abbiamo constatato il merito preclaro della produzione di essenze che parecchi coltivatori seppero portare alle nostre esposizioni. E una piccola concorrenza al mercato francese di Grasse !

    Parallelamente alla floricoltura, si svolgono industrie ad essa strettamente connesse, cosi quella dei «Cesti di canna». Le canne vengono dapprima piallate con apposito arnese da uomini o da donne, sono quindi tagliate in tre strisce con altro apposito strumento. Con queste strisce si intesse il cesto che ha per ordito dei virgulti di salice: si incomincia a parte il fondo e quindi vi si girano intorno le quattro pareti, e in ultimo si fa il coperchio.

    Anche l’industria delle stuoie di paglia di segale e di cannizzole è strettamente connessa colla coltura floreale. Un semplice telaio di legno tiene in sistema l’ordito che è dato da un buon spago incatramato. L’operaia fa una manatina di cannizzole e le dispone orizzontalmente, indi con altrettanti spaghi, tenuti a mazzetto, quanti sono quelli dell’ordito, la lega con forte nodo a ciascuno dei fili dell’ordito, e così per una seconda manatina di canne una volta a destra, una volta a sinistra, in modo che non restino tutte le estremità colle infiorescenze da una parte e tutte le estremità del piede dell’altra.

    Quando il telaio è pieno, si allontanano gli spaghi dell’ordito e si arrotola il pezzo di stuoia fatto, tenendo una porzione di spago e ciò fino ad averne fatto una lunghezza di 5 metri. I montanti del telaio servono da guida per regolarizzare la stuoia tagliando con un grosso paio di forbici la parte sporgente esternamente ai lati di esso.

    A ben considerare, qual prodigiosa fonte di magnificenza, di gentilezza e di amore è oggidì questa quotidiana mostra floreale che compendia tutta la nostra immensa propaganda di sentimento e di aspirazioni che, qual dono favoloso, offra alla vecchia Europa l’Italia «alma parens» !