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COSTUMANZE INTEMELIE

Storia, folclore e tradizioni nelle festività stagionali

 

ALZANI editore

 

Nel calendario che scandisce l’esistenza di una comunità, ben stabilizzata in una determinata località; i giorni dedicati alle feste rappresentano, o meglio, dovrebbero costituire momenti di particolare condivisione, proprio perché la socializzazione, che viene a stabilirsi in quelle occasioni, realizzerebbe una base insostituibile di modello e di vitalità per le future generazioni, quelle che si andranno ad insediare sul medesimo territorio.

Con il passare dei secoli, le ricorrenze all’interno di una collettività possono aver mutato forma o dedicazione, ma tendono tuttavia a mantenere il significato ancestrale; anche quando questo non fosse più facilmente riconoscibile a causa di mutate sensibilità devozionali, o di necessità pratiche.

Una sensata mobilità delle persone tra le comunità, se accompagnata da reciproca integrazione, è stata da sempre un valore concreto nello sviluppo delle collettività. Fin dall’Antichità, le classi dominanti hanno tenuto conto di questo postulato, come ci insegnano le vicende storiche, persino in presenza di stravolgimenti epocali.

Con il sopraggiungere del Novecento, la politica nazionale e mondiale si è evoluta verso un modello meramente imprenditoriale, sovente noncurante della socialità; ma soprattutto, verso una ricercata gestione globalizzata, dove le transazioni finanziarie sono arrivate a soverchiare l’economia reale. Questo fenomeno è un famelico tarlo che, in attesa di stritolare le masse, ha compromesso i poteri governativi, a vantaggio di élite finanziarie, conducendo sostanzialmente le energie massoniche a confondersi con le faccende del clero, mentre fino ad allora questi campi avevano percorso provvidenziali strade antitetiche. Questo disordine è arrivato a scombinare persino il mero pensiero laico.

Per condurre i popoli cosiddetti occidentali verso il più sfrenato consumismo globale, in preparazione del conflitto mondiale, negli Anni Trenta, le politiche delle Nazioni hanno provveduto a cancellare i momenti aggregativi delle piccole comunità. Al termine del conflitto, in casa nostra, tali politiche hanno agito, anche abbastanza velocemente; applicando un assurdo spostamento di intere masse popolari, incanalate verso un redditizio abbassamento dei salari, quando non hanno addirittura predisposto decreti, atti a disseminare capillarmente persino gli affari della malavita. Provvedendo così a causare la mancata integrazione tra gli abitanti.

Nel nostro caso, la particolare collocazione della Zona Intemelia, terra di confine e di rilevanti flussi migratori, ha compartecipato alla dispersione, quasi totale, di antiche tradizioni, in specie laiche, immettendone di nuove, comunque legate ai momenti sacrali della comunità che si è venuta a formare. Le residue reminiscenze rituali, ancora attive, possono essere riferite solamente alle celebrazioni solstiziali, alle processioni di metà gennaio, in Val Nervia, con l’albero d’alloro, alle sfilate di carri a soggetto o alla Battaglia dei Fiori, legata come sembra, ai riti del maggio, anche se particolarmente cambiata dall’ottocentesco affermarsi della floricoltura sul nostro territorio.

Quando, nei primi anni Settanta, anche la nostra grandiosa Battaglia floreale sembrava dover soccombere per gli evidenti esborsi economici infecondi, alcuni cittadini ventimigliesi, riuniti attorno al tavolo dell’Azienda di Soggiorno, avvertirono l’esigenza sociale e culturale di rievocare quelle ritualità del nostro passato, badando però di mantenere il loro contenuto d’aggregazione con la sostenibilità economica.*  Lo fecero, dopo minuziose ricerche, sulle pagine della Storia della Città di Ventimiglia, di Girolamo Rossi, ma anche con numerose ricerche all’Archivio di Stato, dove si fosse trattato della vita ventimigliese e delle sue tradizioni, nei secoli.

Dall’XI al XV secolo, la festa più importante dell’anno cadeva a metà agosto, un “ferragosto medievale ventemigliusu”, quindi: partendo da tale indicazione, quei cittadini di buona volontà cercarono di individuare i particolari documentari di quelle aggregazioni popolari, con l’intento di riportarli in vita nell’odierno contesto:

Sullo slancio di quelle ricerche, altre documentazioni civiche emersero dalla memoria collettiva, interessando il calendario di tutto l’anno. Non potevamo mancare di raccoglierle e definirle, nell’intento di fornirle alle future generazioni, quando queste dovessero riappropriarsi d’una vita comunitaria, esente da sfruttatori e da impenitenti furbastri, come dai modelli di vita dei quali, prima o poi, dovranno rilevare la mancanza di sensatezza che li sorregge.

Col riprendere della socialità, al termine del disastroso conflitto mondiale, la ritualità e le tradizioni del popolo intemelio hanno saputo conservare una costante vivacità, almeno fino al divenire del “miracolo economico”. In quella circostanza le famiglie sono state pesantemente distratte da modelli importati mediaticamente, molto efficaci nello stravolgere soprattutto i comportamenti giovanili. Col sopraggiungere della prima crisi energetica, un certo ridimensionamento delle tracce globalizzanti ha concesso spazi alla ripresa di antiche tradizioni nostrane, non del tutto sopite, che hanno dato conforto all’attuale ritualità sociale e pubblica.

Dagli Anni Cinquanta, gli argomenti di storia e folclore inseriti dalla “Cumpagnia d’i Ventemigliusi”, sulle pagine de “La Voce Intemelia”, hanno mantenuto vitale l’argomento, fino a quando i Sestieri hanno cominciato ad impegnarsi in ricerche storiche di ampia portata; il tutto a restituire integra la nostra memoria.

“Costumanze Intemelie” cerca di delineare l’esistente in materia, proponendone la derivazione e la ipotizzabile evoluzione, nella perenne indagine verso il ritrovamento delle nostre radici. Per di più, l’inconfondibile tratto artistico di Anna Maria Crespi rende praticabili visivamente alcuni degli argomenti descritti, rendendo l’opera un evento straordinario.

 

  *)  In quel tempo, alla presidenza dell’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo era il dottor Mario Blanco, il quale, proponendosi di riportare in Ventimiglia una opportuna integrazione collettiva che, provando a ridare vivibilità al degradato Centro Storico sullo “Scögliu”, riconducesse ad opportunità di rilancio, almeno culturale; riuniva un drappello di volonterosi amici, allo scopo di dar concretezza ad un’idea di Erino Viola, sulla rievocazione dei fasti storici cittadini. Con Erino, a quell’appello rispondevano (in rigoroso ordine alfabetico): Franchino Amalberti, Giacomo Amalberti, Secondo Dino Anfosso, Giuseppe Biamonti, Dario Canavese, Nando Cremaschi, Elio Gastaldo, Nino Greggio, Luigino Maccario, Idelmo Roncari, Domenico Pio e, non ultimo, Guido Taroni.

 

 

                    U Fögu d’u Bambìn                                                              L'Arburu d'a Cucàgna