Ancöi l'è e i sun e ure
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MARINARìA

VENTEMIGLIUSA

Nostalgia per un’attività che è stata grande, anche quando, per attraccare, i barchi si dovevano spiaggiare alla Marina. Oggi questa attività non viene praticata a causa della mancanza di un porto, che non sia solamente turistico.

 

 

A MÜRA

MARINARA

Luigin Maccario  - 2002

    Int’a marinarìa, a müra a l’è a çima o a ghìa ch’a tégne tesà vérsu prùa a bügna d’i trévi burdài, ch’a sta’ survavéntu, cume a scòta a tégne tesà a bügna sutavéntu, versu pùpa. Inscì i trévi i l’àn e müre, cume e véře d’â “fòrsa d’ê véře” e chéle de tàgliu.

    Se méte in tiru a müra e a scòta pe’ dispùne a lünàda d’a véřa segùndu l’urientaméntu d’u penùn duv’a l’è inferìa. Gh’è cuscì e müre de drita e chéle de lérca e se dìxe che u batélu u l’à e müra a drita o a babòrdu, segùndu da duv’u pìglia u véntu.

    Tüta ‘sta fìřa de paròle aduveràe ìnsc’i batéli a véřa, a l’è pe’ çercà de lançà in càmpu in po’ de “naveřìsmu”, ch’u séreva a tendénsa de penscéiru versu l’afermasciùn d’î besögni marìtimi d’in pàise, cume u nòstru, ch’u l’è delongu ciü destacàu d’â sou marìna, in mancànsa d’u sou pòrtu.

                                                                                    LA VOCE INTEMELIA  - anno LVII n. 10  - ottobre 2002

 

 

GOZZO LIGURE

 

 

Struttura:

a prùa                      prora  - parte anteriore dell’imbarcazione

a pùpa                     poppa  - parte posteriore dell’imbarcazione

a caréna                  carena

u scàfu                    scafo  - corpo dell’imbarcazione

a chìglia                   chiglia

a pernacia                polena alta  - prolungamento rituale del dritto di

u paramezà              paramezzale                                   prora /V (6)

u drìtu de prùa         dritto di prora /V                  (9)

u drìtu de pùpa        dritto di poppa /V               (10)

a ròda de prùa         massiccio di prua

a ròda de pùpa        massiccio di poppa

u bàncu                   banco /V                              (4)

e bancàsse              bancali /V

u pagliö                   pavimento praticabile

e cainéle                  agganci metallici del traino, esterni sulla poppa

a scàssa                  sede dell’albero                                          (7)

e stamenàire            ordinate dello scafo  - staminali /AZ /V (1)

e tòure                     fasciame

a tòura de l’inçénta   lo stesso che falchetta         (12)

l’inçénta                   falchetta  - opera viva navale centrale che

u traversìn                traversino del fasciame             trattiene le costole

u righìn                    righino

u bòrdu                   bordo                                   (2)

u carabutìn               carabottino  - deposito chiuso

a scherméira            scalmiera /V                          (3)

u schérmu                scalmo /V

a curénta                 corrente  - supporto dei sedili

u bàncu                   banco  - sedile

u parchétu de prùa   palchetto di prora

u parchétu de pùpa  palchetto di poppa

i pagliöi                   paglioli  - calpestabili prodieri e poppieri      (18)

i guvùi                     ripostigli  - gavoni prodieri e poppieri

a cainéla                  agganciatore legnoso di poppa

l’ügliétu                    agganciatore metallico di poppa

e scùe                     supporti laterali per il rimessaggio                (11)

u lézu                      tappo vuotatore

    Attrezzatura accessorie del gozzo

i rémi                       remi | u rému |

u timùn                    timone

a sàssuřa                 sassola  - raccoglitore per l’acqua imbarcata  (19)

u bugliö                   secchio

a dràga                    zavorra  - sacco per la stabilità

a gàfa                     mezzo marinaio

u rampìn                  rampino

a pedàgna               puntapiedi per rematori

a barbéta                 cima di prora

a cuéta                    cima di poppa

l’àrganu                   argano

a tàglia                    carrucola                         (20)

u lavù                      paranco                           ( “ )

l’émbrixu                  embrice  - cavo da varo

i ganci                     ganci dell’embrice             (5)

i parài                      scivolatori  - legni ingrassati per spiaggiare e

    Parti del remo                                                    varare le barche

a pàřa                      pala  - opera viva              (15)

u zenùgliu                ginocchio

u zirùn                     giglione  - bilanciamento del remo (14)

l’agàntu                   impugnatura

u ströpu                   stroppo  - cordicella per agganciare il remo (13)

    Parti del timone

l’agiàixu                   barra per governare                      (16)

a làma                     pala  - opera viva

l’agugliòtu                agugliotto per agganciarlo             (17)

a füméla                  femminella per ricevere l’agugliotto

a ciàza                     la spiaggia                                     (8)

   

 

 

ANDA’ pe’ MA’

Il Piccolo cabotaggio ventimigliese

                                                                                                                                          Luigin Maccario - 1997

    L’attività marinaresca ventimigliese è stata grande per tutta l’antichità, fino al basso medioevo, servendosi prima del porto-canale sul Nervia, e poi dell’attivo bacino nel Roia, sistemato alle falde dello Scoglio, nel sintomatico quartiere Lago.

    Traffici d’ogni genere avrebbero caratterizzato l’attività di cabotaggio, primo fra tutti il trasporto di legname, il quale scendeva dalle foreste di Tenda, seguendo la corrente del Roia.

    Anche navi da guerra e grandi galee trovavano ricetto ed arsenale nel nostro porto, tanto che il 10 maggo del 1219, quando i genovesi catturarono una nave, carica di frumento, diretta in città, i ventimigliesi armarono una cetéa, nave dai cento remi, la quale, eludendo l’assedio, riusciva a catturare due galee genovesi, nel mare di Trapani.

    Poi la nostra grande marineria tramontava, proprio nel XIII secolo, per mano degli stessi genovesi che interrarono il Lago, deviando irreparabilmente il corso del fiume, lontano dalle mura.

    Ma il piccolo cabotaggio ha continuato a servirsi dei bassi fondali rimasti attivi nel Lago, almeno fino al XVII secolo, come risulta dalla bella incisione dell’Hardy, datata 1832, ma anche da notizie d’archivio, per i secoli dal XVI al XVIII.  Raffigura una decina di bastimenti a vela, detti e scùne, alcuni tratti a secco tra i gozzi, mentre altri in rada, trasbordavano le merci su piccole chiatte.

    Molti ventimigliesi hanno lavorato in marineria, concludendo sovente la carriera come “padroni marittimi” in proprio. In precedenza erano stati “nocchiero”, il marittimo che aveva il compito di controllare le attrezzature e le manovre a prua, di scandagliare il fondo, di tenere sempre sotto osservazione il mare per prevenire gli ostacoli galleggianti, gli scogli, le secche e ogni altro pericolo, osservando la superficie del mare, il suo colore, le increspature e il modo in cui le onde si frangono, ascoltandone il rumore; scrutava l’orizzonte per studiare il tempo e prevederne gli eventuali cambiamenti, per riconoscere i punti cospicui lungo la costa.

    Durante gli ormeggi in porto o gli ancoraggi in rada seguiva tutte le manovre a prua, in stretta collaborazione con il pilota e il timoniere che le dirigevano da poppa.

    In quel periodo, le rotte commerciali più battute, giungevano in Sicilia ed in Spagna, da dove traevano frumento e vini pregiati.

    Si svolgevano normalmente con imbarcazioni piccole o medie che, si spostavano da porto a porto sulla stessa costa. Il loro grandissimo sviluppo era determinato dalla concentrazione di molte attività economiche presso il litorale, che consentivano di svolgere un commercio di ridistribuzione locale e dai vantaggi che il trasporto su acqua offriva rispetto a quello terrestre, meno sicuro e più costoso.

    è Girolamo Rossi a fornirci notizie sull’attività dell’ultimo imprenditore marittimo locale, nella sua “Cronaca” d’allora.

    Nel gennaio del 1885, il capitano Paolo Viale acquistava il vapore “Balaclava”, che il 10 maggio veniva condotto in rada dal comandante Federico Aprosio, al fine d’intraprendere una serrata importazione di vino dalla Sicilia.

    Nel giugno del 1886, un secondo vapore andava ad aggiungersi alla piccola flotta del Viale, questo si chiamava “Chambeze”. Le altre navi, che erano a vela, si chiamavano: “Silvia”, “Olga” e “Giuseppe”.

    Un terzo vapore, denominato “Vilna”, si aggregava agli altri nel 1892. Infatti, il 31 luglio di quell’anno, sbarcava dalla nostra rada ben millesette genovesi, venuti per una gita di piacere. Lunedì 4 agosto, un migliaio di ventimigliesi salparono per Genova, dove andavano a visitare l’Esposizione Colombiana.

    Come risulta da un’incisione di Ferdinando Perrot, datata 1845, che ritrae la spiaggia della Marina, con lo Scoglio Alto e la Margunaira, l’attività trovò scalo in rada.

                                                                                 da “I tasseli d’a Strena de Deinà“, anno 1997

 

 

 

U  GUSSU  MURTURATU

                                                                                                                                                de Rensu Villa  - 1977

    A parola gussu nu’ se sa ben de duve a vegne: paresce ch’a l’arrive dau venessian perchè là ai barchi da pesca i ghe dixeva «bragozzi» o «bargozzi» e pöi ciü sulu «gozzi».

    Aiscì a Napuli ina pecina barca a se ciama «u vuzzariello», e fina int’u catalan, a ina barca pe’ andà a pescà se ghe dìxe «gussi».

    ‘Sti ani, esse patrun d’in gussu nu’ l’eira ina cousa da ninte. Tantu pe’ di’, au patrun d’u gussu, s’u l’eira aiscì patrun d’î inzegni (ch’i sereva i tremari e i autri atrassi da pesca), gh’aspeitava mezi i pesci che se pigliava; i autri mezi u patrun u s’i divideva ancura ina vouta cun i pescavui ch’i gh’andava a agiütà.

    Ma pöi, dopo l’autra gherra, i pescavui i se sun alumentai e, a forsa de fà, i sun arresciüi a divide i pesci a in’autra moda: se, metemu, insc’in gussu gh’ira u patrun e tre omi, i pesci i se divideva in sei parte, tre i l’andava ai omi, üna au patrun, üna pe’ i inzegni e üna pe’ u gussu. (Feve i conti e viré che cuscì e couse i l’andava in po’ ciü ben pe’ i pescavui).

    De gussi ghe n’é de tante mene, a segunda d’ê pesche che se vö fà. Pe’ e pesche grosse cume u ganghi, a sciabega, e manate, i tremari o e bugarie ghe vö in gussu de aumenu vinticatru o vintiçinche parmi, che sereva a dì da çinche a sei metri de longhessa.

    I parmi i se mesüra cun ina lensa, partendu dau dritu de prua a chelu de pupa. Pe’ fà bulegà inte l’aiga in gussu cuscì ghe vö catru remavui: tre i rema de voga e i stan assetai, ün u sta’ in pei, a pupa, e u rema de scia.

    I remi besögna ch’i sece prupursiunai â longhessa e â larghessa d’u gussu: pe’ in gussu de venticatru parmi, o vintiçinche, ghe vö de remi de ünze parmi e mezu, duze au mascimu, perche sedunca i s’incruxa.

    I gussi i li fan a Çerià e a Varigoti, ma ina vouta, gh’eira de cheli ch’î fàva iscì chi, o aumenu i l’arrangiava. Candu in gussu u l’è veciu se dixe ch’u spande cume in cavagnu o ch’u l’è ina cascia da brenu.

    Pe’ fà in gussu besögna metise int’in postu au largu e veixin â marina perché a nu’ l’arresce cume a cheli dui d’Ê Grimaude ch’i s’eira messi a fà in gussu int’in fundu e, dopu aveghe travagliau pe’ de mesi, candu u gussu u l’è stau feniu, u nu’ passava d’â porta e cuscì i sun stai ubrigai a derrocà in tocu de müraiglia pe’ faru sciorte.

                                                           LA VOCE INTEMELIA anno XXXII n. 7  - luglio 1977

 

 

 

U Sciabecu  e  u  radeu

                                                                                                                            di Nino Allaria Olivieri

    Nell’anno 1737 Francesco Lascàris, Signore di Castellaro, nel suo testamento lega ai due figli, oltre ai beni terrieri, la metà di uno sciabecco in comproprietà “con Matteo da Ventimiglia, capitano e nocchiero” e assegna la nuda proprietà di due leudi e di un pinco all’ancora del porto di Mentone.

Nel codicillo annota l’ottima riuscita della Società con il Matteo e per la sua durata consiglia di sorvegliare i marinai all’atto del “Radeu” affinché “alcun committente abbia per cattivo lavoro reso dare merce ad altri Patroni di naviglio”.

E lapalissiano che il nobile Lascàris, tramite Matteo, gestiva trasporti marittimi non solo nei porti rivieraschi da Savona a Nizza, ma all’occasione praticando il “Radeu”, о “l’alato” attraccasse a Ventimiglia nelle acque antistanti la Rocca, essendo impraticabile il porto fluviale, soggetto alle alluvioni e ad un sempre crescente abbandono. Tra il 1600 e la metà del 1700, tuttavia, Ventimiglia conta un passabile parco di naviglio di piccola stazza che permette alla città, ancora chiusa fra mura, smerciare i prodotti agricoli in eccedenza e importare il fabbisogno dei materiali per le crescenti costruzioni.

Trovo annotati nel “Liber Mensæ Episcopalis” vari accenni dai quali si evince attorno all’attività marinara: un leudo denominato ufficialmente “Portiere” espletava servizio postale bisettimanale tra Ven­timiglia, San Remo e Oneglia e tre volte alla settimana salpava verso Mentone, Monaco e Villafranca, recando missive ufficiali e private.

Il “Portiere” poteva essere noleggiato dal committente. Il Vescovo Gandolfo noleggia il Portiere per smerciare una certa quantità di vino moscatello in Nizza e sulla via del ritorno imbarca buona quantità di derrate per la famiglia ecclesiastica: canonici e clero. E il leudo di patron Luigi che, noleggiato dal vescovo e dal Parlamento, sbarca il Vescovo di Riez in Villafranca, fatto prigioniero dalle guardie di mare nella baia delle Ruote, ove sua galea aveva gettato l’ancora per un improvviso fortunale. Altri leudi imbarcavano alla Spiaggia oli, legni, carboni, lane e carni ovine, per i porti di San Remo. Due leudi, nella stagione propizia, scaricavano limoni e cedri in Savona e in Genova. In mancanza di carico il leudo veniva adibito alla pesca di alto mare.

Leudi, Pinchi e Sciabecchi non potevano attraccare alle bitte del porto fluviale.

Giunti nelle acque antistanti la Rocca e Porta Marina calavano l’ancora e a seconda del carico e della merce il capitano ordinava lo “Alato”, che consisteva nell’alleggerire il pescaggio per iniziare la manovra di avvicinamento alla spiaggia.

Tempo permettendo, s’iniziavano le complicate manovre di scarico, operazioni lente, attente ed impegnative, riservate ai soli marinai di professione e ai camali. Per legge marinara la consegna della merce non era a carico del Patrone, ma impegnava il capitano cui incombeva l’onere della consegna del trasporto in buone condizioni, e ordinare e assistere al “Radeu”.

Mai, per giustificata prudenza, si iniziava il “Radeu” all’avanzare della notte o a mare agitato.

Marinai di professione, camali, uomini e donne presi a giornata dai committenti, all’apparire delle bianche vele, si riversavano sulla spiaggia, perché ad ogni Radeu era sicura una mercede.

Sul veliero i marinai apprestavano le merci e sulla spiaggia si attendeva l’inizio dei Radeu, uso a praticarsi non solo in Ventimiglia, ma nei luoghi privi di porto. Simile operazione veniva praticata nella baia di Roccabruna, in Bordighera alle Ruote e in Ospedaletti. Il Lascaris, Signore di Castellar, sbarca, con l’aiuto di pescatori ventimigliesi, alla spiaggia di San Nicola da Bari sessanta pecore e due cavalle.

Il “Radeu” (parola di derivazione latina: “Ratis”, zattera che poi troviamo nel latino medievale; “Rades” tronco trasportato per via fiume) era praticato nello scarico dei vini, dei grani e del bestiame. Aperte le balconate del veliero, le botti di vino erano, con l’ausilio di corde, fatte scivolare in mare e, legate in fila, trainate dai gozzi sul bagnasciuga. Sulla spiaggia si iniziava il travaso del vino nelle “baie” o tinozze (contenitori in legno) e dalle tinozze nelle “Barì” (barili) dalla capacità di 30 litri.

Era l’inizio del trasporto a domicilio; robusti carnali, per lo più donne, caricati i barili sul capo, in continua fila, recavano il vino alle osterie o ai privati.

Il Canonico Giauna spende per vino recato dalla spiaggia, in un giorno di lavoro soldi di Genova 62 e il famiglio del Vescovo lire genovesi 2 per una giornata di merce “dovute ai due uomini che dal basso portarono a Sua Ecc. quanto Egli aveva commissionato in Nizza”.

Al “Radeu” assisteva “u Cianciferu” (nocchiero in seconda) che, calata l’ultima botte in mare, con voce imperiosa urlava alla ciurma: “tirate su, serrate e, occhio al capitano gatto !». Il Capitano Gatto era un personaggio d’obbligo, sopra ogni veliero che trasportava vini o frumento. Se compito del primo nocchiero era tenere la rotta, al capitano gatto incombeva sorvegliare e ripulire le stive e la cambusa dai topi roditori.

Non era un intruso. Una ordinanza del Magistrato del Porto della Repubblica di Genova (oggi si direbbe “della Capitaneria Portuale”) vietava la partenza a quei velieri che non avessero a bordo uno o più gatti, “perché avrebbero preservato nel navigare mercanzie e da malattie di peste”.

La mancanza di un porto agibile non solo rese complicate le operazioni di sbarco delle merci, ma più impegnativo e costoso era effettuare i carichi in partenza.

Agli sciabecchi ancorati fuori rada si affiancavano i leudi o i gozzi e con operazione inversa al Radeu la merce era issata a bordo e stivata.

                                                                                      LA VOCE INTEMELIA anno LVIII n. 5  -  maggio 2003