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ETIMI  e  CONCETTI

 

      Usanze e atteggiamenti, nel passato della nostra gente, hanno determinato i significati di molte parole e i concetti per molti modi di dire. Fino al periodo postbellico degli Anni Quaranta, molti comportamenti della passata Civiltà Contadina, vissuta dall'itala progenie, hanno lasciato veri e propri reperti, che non potrebbero essere facilmente capiti da chi non abbia vissuto quei periodi.

       Per questo interveniamo ogni volta che la parola viene usata unicamente int’u nostru parlà..

 

PEGAGNA

     Nella Sala Lettura della Biblioteca Aprosiana, giovedì 2 giugno 1994, nell’ambito del ciclo dedicato al Territorio Intemelio, il Maestro Renzo Villa ha tenuto una conferenza sul dialetto intemelio. Una insegnante convenuta ha riferito di un’espressione con la quale il padre di una propria alunno ama apostrofare il capriccioso rilascio di parti alimentari, nel piatto, al termine del pranzo: «Nu’ staghe a lascià a pegàgna».

      Si è parlato di un improbabile termine dotto come “pecunia”: il significato di “pegagna” potrebbe essere ricercato invece nell’italiano “pégola” che porta al verbo dialettale “pegà”, ovvero intingere, inzuppare.

      Pégola: dal tardo latino “picula” - massa vischiosa di notevole estensione e di aspetto sgradevole. La pegola di pece dell’episodio dantesco dei barattieri. Nel nostro caso si deve tener conto anche del significato figurativo regionale di : sfortuna, disdetta.

      Lasciare nel piatto parti di cibo, sovente contornate dai sughi di cottura, potrebbe far pensare alla massa vischiosa, ma il significato più probabilmente intrinseco di “pégagna” andrebbe ricercato nel significato figurativo.

      Nella trascorsa Civiltà Contadina, il cibo rappresentava una ricchezza a qualunque livello. Il fatto di snobbare anche una minima parte di tale ricchezza, veniva messo alla stregua di un misfatto apportatore di future disdette.

      A tale proposito ricordo una delle frasi ricorrenti, lanciate verso il bimbo d’un tempo, che avesse lasciato il piatto troppo ingombro, anche delle semplici briciole di pane: «A Madona a l’è carà da cavalu, pe’ cöglie ina brügaglia de pan».

                                                                          L.M.              LA VOCE INTEMELIA anno XLIX n. 7 - luglio 1994

       Peagna è la fila di grossi sassi a formare un guado.

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PAGLIÀSSU  CERCHIATO

      L’involto di tessuto a foggia di cerchio, usato da chi porta pesi sul capo, si chiama “cércine”, nome che gli deriva dal latino circinus, col significato di compasso, derivato dal greco kirkos: anello.

      In piena civiltà contadina e fino ai primi decenni del Novecento, sul territorio dell’estremo Ponente Ligure, l’uso di portare pesi sul capo era riservato alle donne, che arrotolavano all’uopo qualunque pezzo di tessuto, se non avevano a disposizione l’apposito rettangolo di tela grezza, largo quanto un asciugamani, che si chiamava “pagliàssu” e faceva parte della dotazione di ogni contadina, delle “camàle”, delle “bügaréire” e di quante si recavano alla fontana pubblica, per riempire il “rüxentà”, il capace secchio di rame che attingeva anche l’acqua dai pozzi.

      Le donne ponentine erano bravissime a portare pesi, o ampi volumi, tenendoli in equilibrio sul capo; infatti, una volta issato l’oggetto, o l’ampio contenitore di cose, e raggiunto l’equilibrio di sostegno, liberavano le mani che raggiungevano la grossa tasca interna dell’ampia gonna “u gunelùn”, estraevano gli aghi da maglia, col lavoro già incamminato, dal momento che erano infilati nel gomitolo, che tornavano a riporre, libero, nella tasca e riavviavano i punti della maglia, mentre intraprendevano il primo passo di un lungo e magari impervio cammino.

      Il nome pagliassu è decretato dalla paglia che serviva a comporre gli originari cércini delle contadine, come da quella minor quantità di fieno, che, introdotta nel telo prima di avvoltolarlo, serviva ad aumentare la consistenza dello strumento, quando i pesi erano eccezionali.

                                                                           L.M.             LA VOCE INTEMELIA anno LX n.5 - maggio 2005

        Pagliaccio s.m. paglia trita” 1547 - buffone da circo 1741 - persona poco seria, che si comporta in modo ridicolo o senza dignità 1841.

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     Una glossa plurivalente

STACHETA

      Nel medioevo, con “stachéta” era chiamato un corto chiodo, a sezione quadrata, di testa larga, usato da calzolai e tappezzieri.

       Con quel tipo di chiodo, molto simile alla “bròchéta”, veniva segnato il livello delle misure minori, nell’interno delle misure in legno per liquidi. I barili che si fabbricavano erano capaci di tre o quattro stachete.

       Da questo uso prese nome il valore di metà o di un quarto della misura originale: stachéta e mésa stachéta, che nella lingua nazionale suona come “mezza tacca”.

      Nilo Calvini, nel Nuovo Glossario Medievale, rileva come la frase passò anche al senso figurato e fu, dal popolo, attribuita per dispregio alle persone di poco conto: mésa stachéta.

               L.M.

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METE  E  LEVÀ  RAMA 

      Quali scampolo dei frequenti colloqui sul dialetto del Maestro Renzo Villa, vengono in mente alcune riflessioni sul suo postulato dialettale di “mete e levà rama”.

     Dall’antichità e fino a tutto il Medioevo, considerando la relativa vicinanza alla campagna dei centri commerciali cittadini, era usanza di “segnalar Bottega” con l’appendere un ramo reciso davanti alla porta, quale insegna universalmente nota.

     Il viandante forestiero sarebbe entrato senza verecondia, certo di trovarsi all’interno di un’osteria o d’una bottega, magari attirato proprio dalla verzeggiante insegna.

      Nei secoli più recenti, per l’eccessivo distaccamento della campagna dai centri cittadini, l’usanza della frasca è venuta meno, sostituita da altri tipi di insegna mobile, allestiti in materiali meno deperibili.

      Dalle nostre parti, una delle ultime categorie ad abbandonare il surrogato della “rama” è stata quella dei macellai, che ancora negli anni Cinquanta, usavano appendere un drappo bianco, retto da apposita ferramenta, sullo stipite della porta di bottega.

       Il telo, rigorosamente bianco ed appeso con opportune fettucce, veniva chiamato “bunda” ed a volte era ricamato con le iniziali del titolare, qualche volta anche con l’intero nome.

      Intanto, ai giorni nostri, notiamo l’allignare della consuetudine d’esporre due vasi contenenti cespugli magistralmente potati, ai lati dell’ingresso d’un negozio da inaugurare.

       Non è forse l’inconscia ripresa dell’antica tradizione di segnalare con le frasche l’apertura di una bottega ?

      Sarebbe però opportuno che la sera, alla chiusura, i vasi venissero ritirati, a scanso della miseranda fine loro riservata da parte dei “soliti ignoti” vandali, così diffusi, attivi ed impuniti, nel corso delle nostre notti.

                                                                     L.M.                LA VOCE INTEMELIA anno XLIX n. 7 - luglio 1994

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“Me intra a souma”

 

      In margine alla “Strena de Deinà”, si faceva due chiacchiere sull’uso degli equini nel passato, partendo dallo spunto che il vescovo Careggio aveva lanciato nel suo intervento augurale, quando ha valorizzato l’istinto dell’asino impiegato dai paesani per tracciare il percorso di una nuova strada di montagna, tra i dirupi e qualche volta i precipizi.

    Ci si attaccava alla coda del mite animale e si seguiva docilmente, marcando il tracciato, per poi accomodarlo a vantaggio dei più instabili bipedi.

      Dove passa l’asino il cammino è sicuro e se l’animale si impunta, non volendo proseguire, a volte è per il fatto che ha più giudizio di noi umani.

      Sugli usi e costumi della frazione Torri, Albino Ballestra ha esposto il significato della frase “Me intra a sòuma”. Nel passato, il capitale per acquistare e poi mantenere un mulo era abbastanza proibitivo; cosicché le famiglie di contadini, che del mulo avevano bisogno inderogabilmente, si associavano per l’esigenza, acquistavano l’animale e tracciavano un calendario per la gestione, uniformando le loro necessità di trasporto, da e verso le campagne, col periodo di disponibilità del portatore.

      Il cambio di gestione avveniva alla fine di una giornata, sovente in ore notturne, quando il cedente aveva portato a termine l’ultimo viaggio spettante. Il particulà ricevente, per quella sera non prendeva altri impegni, dando come casuale del diniego “Staseira nu’ pösciu, me intra a müřa".

        Ricevuto l’animale lo conduceva nella sua stalla dove iniziava a strigliarlo ed accudirlo, preparandosi ad adoperarlo fin dal mattino seguente, per tutte le giornate del periodo assegnategli. Gli altri assegnatari controllavano con riservatezza.

      Una frase simile era usata la sera nella quale si veniva a disporre del flusso d’acqua dal canale interpoderale. Ci si recava alla chiusa che ci riguardava lungo il “beà” comune e si provvedeva a “zirà l’àiga”, deviandone il flusso verso la nostra campagna.

         Anche per quella sera ogni impegno era rinviato con: “Staseira me intra l’àiga”.

                                                                        L.M.               LA VOCE INTEMELIA anno LXI n.1 - gennaio 2006

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CAUSSA  E  SCARPIN

      Alla fine dell’Ottocento, le prime aziende tessili industriali si sono messe a produrre calze e calzini, contrastando una delle mansioni più diffuse tra le massaie del tempo: la realizzazione di calze ai ferri, per le necessità di tutta la famiglia.

      Per tutto l’Ottocento, coi tre o quattro classici ferri da calza, aghi muniti di punte da ognuna delle due parti, di varie grandezze a seconda della intensità di maglia che si voleva ottenere; con una matassina di cotone o di lana, opportunamente acquistata nella bottega o sulla bancarella del mercato o della fiera annuale, in grandi quantità; la massaia dell’epoca non perdeva occasione di impiegare il tempo libero, (si fa per dire) nel portare avanti quella produzione.

      All’acquisto, u zögu d’aguglie, la parure degli aghi da calza era di cinque ferri; oltre ai tre o quattro impegnati nel lavoro, un quinto serviva a tenere in attesa i punti negli accrescimenti o nelle diminuzioni; oppure nelle opzioni più complicate, come poteva costituire la riserva, in caso di deprecabile smarrimento.

       Le donne di campagna, che dovevano percorrere lunghe distanze tra l’abitazione in paese e il fondo campestre dove operare; una volta caricato sulla testa “u curbin” con gli attrezzi ed i viveri, posandolo sull’apposito “pagliassu” avvoltolato sul capo; estraevano dalla “bertéira”, sacca interna al “gunelùn”, il “grumiscélu” di filo che sosteneva i tre aghi, piantati in esso dall’ultima occasione; riavviando il lavoro di calza, col gomitolo che forniva il filo in caduta dalla cesta sul capo.

       Operavano la maglia a memoria, senza guardare il lavoro, impegnate com’erano nel badare alle malagevolezze della strada; intanto che reggevano pesi di una certa entità, in equilibrio sul capo. Da questa pratica, le donne di campagna dei secoli passati derivavano un incedere attraente e dignitoso che le rendeva simili alle modelle d’oggi, le quali frequentano lunghi studi per ottenere risultati meno spontanei.

         Per ogni paio di “causse”, formate dal solo elastico e gambale, producevano una serie numerosa di “scarpin” formate da: “stàfa”, in maglia normale, con gli accessori: “carcàgnu” e “capelòtu” in maglia elastica, per rinforzarli.

        Al ritorno a casa, cucivano al bandolo del gambale il bordo della staffa e la calza era terminata. Alla consunzione più frequente dello scarpino, invece di rammendare grossolanamente; staccavano questo nel punto di riunione e lo sostituivano. Smontato lo scarpino guasto, ottenevano filo nuovamente efficace per la messa in opera d’un nuovo scarpino.

        Inizialmente le industrie di maglieria producevano calze e scarpini separati. Nell’acquistare, la massaia si tutelava di avere una serie di scarpini per ogni paio di calze; infatti pensava le stessa ad assemblarli, mentre nel tempo libero, che si riduceva vistosamente, continuava ad operare sugli scarpini.

         Le botteghe di merceria esponevano le calze, ossia: “lasticu” e “gambà”, appesi in lunghe file, dalle quali scegliere. Si trattava per lo più di maglia a righe bianche e rosse orizzontali, in cotone un po’ andante; produzione suddivisa in due o tre taglie di larghezza.

        Poi l’industria ha saputo unire calza a scarpino e la massaia ha impoverito il proprio bagaglio culturale, assumendo persino brutti vizi nella deambulazione, almeno fino al recente avvento delle palestre

                                                                           L.M.             LA VOCE INTEMELIA anno LXI n.3 - marzo 2006

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MATURNU  E  SUTÜRNU

due parole dialettali a confronto

                                                                                                                                          Renzo Villa - 1991

      Durante l’ultimo incontro di dialettologia all’Unitre Intemelia, è sorta una piccola divergenza sul significato della parola maturnu, secondo me “mattacchione, mezzo matto”, mentre qualcuno sosteneva trattarsi di un “tipo chiuso e taciturno”.

      Fermo restando che tradurre dal dialetto alla lingua non è sempre cosa facile a farsi, ritengo che, in questo caso, non vi siano dubbi sull’esattezza del significato di maturnu, che viene attribuito generalmente a persona non proprio “matta da legare”, ma che si comporta in modo piuttosto strano e cervellotico.

      Per dirla con una locuzione oggi di moda, maturnu sarebbe, in italiano, uno che “è un po’ fuori di testa”. E, su questa accezione, concordano vari ed autorevoli studiosi i quali, della voce dialettale maturnu, danno le seguenti definizioni: “mattoide” E. Azaretti, «L’evoluzione dei dialetti liguri» 23 ediz., Ǿ 250, pag. 256; “originale bisbetico” P. Carli, «Dizionario dialettale sanremasco-italiano», pag. 154; "chi fa cosa illogica (mei frai u l’è megiu maturnu = mio fratello è mezzo squinternato), G. Pastor, «Ciabroti in legagiu biijinòlu, ecc.», pag. 100; matòrniu “pazzoide” L. Ramella «Dizionario onegliese», pag. 82.

     Anche il piemontese maturlo viene tradotto in italiano “mattuzzo” nel «Gran dizionario piemontese italiano» del Sant’Albino, pagg. 760-61 e “pazzerello, stravagante” nel «Vocabolario piemontese - italiano e italiano - piemontese» di C. Brero, vol. I, pag. 383.

      D’altra parte il maturnu è colui che fa le maturnìe “azioni da matto”, Azaretti; “pazziate”, Carli; “mezze pazzie”, Pastor; tre autori nostri che non si discostano da R. Arveiller «Étude sur le parler de Monaco», Ǿ 43, pag. 33, e L. Frolla «Dictionnaire monégasque-francais», pag. 190, per i quali le maturnaire sono rispettivamente i “caprices” e le “extravagances”.

       Quando, invece, in dialetto, si vuole indicare una persona scontrosa, cupa, taciturna, si usa (o, almeno, si usava, poiché oggi la parola è piuttosto desueta) il termine sutürnu sul quale concordano gli autori dei testi sopracitati.

      L’aggettivo sutürnu, oltre che a persone, può essere riferito, col significato di “cupo, malinconico", anche ai luoghi, come si può rilevare in una poesia di Andrea Capano della raccolta «Teragnae», pag. 29: inti stagi suturni suta e crote “nelle stalle cupe sotto le volte”.

                                                                                      LA VOCE INTEMELIA anno XLVI n: 3  - marzo 1991

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VERRUBIO  VERROBIO  COME  VERRUGIU

       In città come in campagna, un involto di piccole dimensioni lo abbiamo sempre chiamato mandriglià; mentre un involto di medie dimensioni, che in campagna aveva nome lensöirà, perché involto in un lensöirun, nella città marinara del passato veniva chiamata veřugiu, perché involta in un veřun, la tela da vele.

       Queste decise varianti di “fagotto” e di “involto” si possono constatare nel Glossario Medievale di Rossi e Calvini, dove sono riportati numerosi veřugi de füstagnu rivolti a viaggiare sulle scùne da Genova.

 

        Con queste osservazioni potremmo aver risolto l’etimologia del cognome “Verrugio”, ma forse non basta; perché a complicare l’analisi entra la glossa Verrogiu, col significato di: strumento di ferro per far buchi nel legno. Sarebbe il “succhiello” che viene anche conosciuto come “verina” o “vererina”.

                                                                 L.M.             LA VOCE INTEMELIA anno XLXVI n: 3 - marzo 2001

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CUITA : deverbale di  COITARE

In ventemigliusu la “premura”, intesa come “fretta”, è cùita, che deriva da COITARE, un deverbale di COEO - COEIS – COÌI (COIVI) – COITUM – COIRE : “unirsi”, “radunarsi”, “accoppiarsi”. Essendo stato verbo frequentativo di ANDARE, assumerebbe il significato di ANDARE a COIRE, determinando per la glossa cuita  il concetto di “fretta di andare ad unirsi”.

Sulla pur accurata “EVOLUZIONE DEI DIALETTI LIGURI, attraverso la grammatica storica del ventimigliese”, del dottor Emilio Azaretti, pubblicata da Casabianca – Sanremo, nel 1982; un banale refuso dava “cùita” derivato da COCTARE, che pare inesistente fra i frequentativi e quindi, persino fra i deverbali; impedendo una qualsiasi evoluzione nella ricerca.

Sorge il sospetto che “int’u nostru parlà”, i lemmi affini alla fretta, in buona parte, sono stati ispirati al coito; giacché, l’amico Scroi, l’autore bordigotto Franco Zoccoli, ci assicura del fatto che il termine descciulàsse, palesato come “sollecitare, disimpegnare”, derivi dalla richiesta rivolta ad una coppia di cani, da troppo tempo congiunta, intenta a “ciulà”, perché interrompesse in fretta quella poco edificante situazione.

                                                          L.M.                LA VOCE INTEMELIA anno LXVI n. 5 - maggio 2011

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MACCHIA  MEDITERRANEA

 

l‘agàixu                    ginepro rosso

l’aràstra                   ginestra selvatica, o dei carbonai

l’arburussìn             corbezzolo

l’auribàga                alloro

u brügu                   erica arborea -vegetale usato per scope

a cornabüsa            origano

a ferügura                timo

a gàrega                   gariga - tipo di vegetazione mediterranea

a ginéstra                ginestra - pianta tessile anche coltivata

u lentìscu                lentisco

a mùrta                   mirto

a pérsa                    maggiorana

u rumanìn               rosmarino

a savunàira             saponaria

u scornabécu          cisto

u tùmbaru               santoreggia