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S E I C E N T O

PROSCIOLTO

    Causa della prima guerra fra il Ducato Sabaudo e Genova, fu la disputa accesasi circa l’acquisto fatto dal Savoia del minuscolo Marchesato di Zuccarello, presso Albenga, che l’Imperatore però pose all’incanto, vinto da Genova. Questo fatto causò l’adesione di Carlo Emanuele ad una lega con la Francia e con Venezia contro Genova. Ottenuta la vittoria la Repubblica genovese avrebbe dovuto essere divisa; alla Francia sarebbero toccate Savona, Genova e la Riviera di levante, a Venezia compensi lontani e al Savoia la Riviera di ponente. Sul principio del 1625 un esercito francese e uno sabaudo s’ammassarono in Piemonte. Il francese comprendeva 12.000 fanti e 1.500 cavalli, il sabaudo 14.000 fanti e 2.500 cavalli. Le Repubblica, impreparata, concentrò la sua difesa intorno alla Capitale, revocò il presidio di Savona, prosciolse dal giuramento di fedeltà tutti i paesi della Riviera di Ponente. L’offensiva alleata puntò direttamente sulla capitale ligure, occupò Gavi e riportò qualche altro successo, ma le possenti difese incontrate fecero esitare il Duca e il Connestabile di Francia, tanto più che Genova riusciva a stringere alleanza con la Spagna, padrona del Milanese, dove si andavano raggruppando delle truppe.

 

                         Carlo Emanuele I                                                                  Vittorio Amedeo I

 

LA CAPITOLAZIONE DI

VENTIMIGLIA  -  1625

di Nino ALLARIA OLIVIERI

    Anno 1625. Mentre il grosso delle truppe savoiarde, bivaccano in un meritato riposo in San Remo, che per ordine di Genova aveva aperte le porte al Principe Amedeo, due compagnie di soldati al comando dello stesso Principe, da due giorni sono di stanza in Bordighera in attesa di dare l’assalto alla città di Ventimiglia.

    Il 17 giugno, vigilia della Pentecoste, una fregata, da San Remo, salpa alla volta di Ventimiglia e sbarca il trombetta per chiedere la resa della Piazza. Comandava la Piazza il Commissario Negrone Agapito che, avvisato della presenza del trombetta sotto le mura, si reca in compagnia del colonnello Giacomo Gaetano sopra gli spalti delle mura alla Marina.

    Con parole sprezzanti respinge il trombetta, il quale fa ritorno alla fregata. Sicuro che quanto prima la città avrebbe dovuto sostenere l’urto del nemico, ordina di terraplenare la Porta della Marina, che dallo stesso trombetta poteva essere stata riconosciuta e poiché la forza militare a difesa consiste di 140 soldati, suddivisi in due compagnie, da l’ordine di reclutare gli uomini delle Ville. «Avrebbe inquadrato 600 uomini di milizia locale con dotazione di 50 barili di polvere e altre cose necessarie e il popolo così ben animato alla difesa, che nulla più si poteva desiderare».

    Fra il popolo serpeggiano momenti di timore, ma il giorno seguente la Pentecoste porta una speranza. Tre galee genovesi al comando di Giustiniano Galeazzo compaiono innanzi a Ventimiglia; si spera che Genova rechi soccorso e invano si attende lo sbarco. Le galee salpano alla volta di Monaco; il giorno seguente ritornano e sostano immobili nello specchio delle acque antistante la città. Il Vescovo Gandolfo fatto sicuro che il Galeazzo mai avrebbe sbarcato gli uomini, si traghetta con il col. Negrone sulle galee per esporre la triste situazione della Città e sollecitarlo «a mettere in terra la sua gente». Il Galeazzo giustifica il suo agire a norma di una Istruzione avuta dai Commissari Generali della Repubblica.

    Il Vescovo non demorde, invita il Galeazzo a sentire Messa a terra, a visitare le postazioni e vedere l’animosità del popolo così che «egli si sarebbe animato al soccorso». Il popolo, in attesa, riunito sulla Piazza della cattedrale al giungere del Galeazzo esplode in grida di gioia e di plauso con l’«Evviva San Giorgio». Il Galeazzo visita le postazioni di difesa, ascolta la Messa al termine della quale raduna nel Palazzo Vescovile i responsabili della difesa. Da lettura della Istruzione: «suo compito allestire tre galee con 270 moschettieri, navigare verso Villafranca alla ricerca dell’Armata marsigliese; agire con prudenza e non avventare le galee contro l’Armata Nemica». «In Ventimiglia doversi trattare con il Negrone sulla consistenza delle forze e delle armi». Grande è la delusione del vescovo Gandolfo. Si fa il punto sulla reale situazione; il Gandolfo tiene la presidenza, indaga, consiglia, ordina «quale fosse maestro d’armi e di milizia».

    Debole è la resistenza della piazza, il nemico è a meno di dieci miglia, vi è la presenza di diecimila fanti effettivi, la presenza di un Principe vittorioso, l’impossibilità del soccorso genovese e di reclutare in pochi giorni tremila uomini. Viene decisa la resa della città previo il voto degli ufficiali dei gentiluomini e dei commissari. Vengono interpellati: Orazio Sperone di Ventimiglia, nobile genovese, il cap. G.B. Odino, Lorenzo Foglietta, comandante del forte San Paolo, Francesco Giustiniani, ufficiale del Galeazzo, il col. Cattaneo, l’alfiere Luca di Acquasanta, due alfieri di Novi e di Rapallo, il sergente Durone e l’aiutante Odino di Ovada. L’unico contrario è l’Odino. La decisione è comunicata al popolo, in attesa sulla piazza e per le strade e che subito insorge.

    «Non posso esprimere con quanti gemiti - scrive al nipote il vescovo Gandolfo nella sua relazione - il popolo ricevesse un si fatto annunzio.

    Offrirono di difendersi, di sacrificare la vita in servizio della libertà pur che il Galeazzo sbarcasse la sua gente, si fermasse con due galee et una si trasferisse a Genova a domandarvi soccorso. Fu grande la violenza, che il Galeazzo fece a se stesso, mentre non poteva che abbandonare quel popolo infelice, determinato a mantenersi nella devozione a Genova».

    Il popolo tumultuante accusa i Commissari di tradimento e di vigliaccheria. Fu necessario comunicare che Genova aveva dato ordine, fuorché a Ventimiglia, di capitolare a tutte le città rivierasche, mentre si studiava se portare aiuto o meno alla città. La piazza rumoreggia a non dire; alcuni prendono le armi. Viene ucciso uno sbirro e si incrudelisce contro di lui dopo la morte. Il notaio della corte è ferito gravemente; si saccheggia la casa del Negrone; la bandiera e le insegne del Parlamento sono derubate e bruciate; vennero asportati i forzieri contenenti il denaro della comunità. Il tumulto non risparmia neppure la Chiesa cattedrale e una vecchia nobile signora muore pugnalata inanzi all’Altare Maggiore.

    Scrive il vescovo Gandolfo: «Così orrido spettacolo mai si presentò agli occhi umani; ottocento e più plebei con li soldati pagati scorrevano la Piazza, saccheggiando le case, buttando dalle finestre le robe, stracciavano ogni genere di scritture, vennero percosse donne e fanciulle della nobiltà».

    Il vescovo inorridito e temendo per la vita dei commissari fa esporre il S.S. Sacramento e rivestiti gli abiti pontificali, accompagnato dai canonici, si porta sulla piazza con l’Ostensorio; per tre volte salmodiando percorre la piazza e ai tumultuanti rivolge parole di rispetto a Dio e di pace «e dimostrando che per di­fendersi dall’inimico di fuori, ci abbisognava l’unione di dentro».

    La sentinella in continua osservazione sul Capo annunzia che il nemico è in marcia di avvicinamento; si scorgono i soldati del Principe presso il fiume Nervia.

    Alla notizia i soldati presi da timore (erano 420 fanti) assieme agli ufficiali si recano alla rinfusa alla Marina per imbarcarsi sulle due galee sopra le quali era in attesa il Galeazzo, pronto a salpare alla volta di Genova. Scrive ancora il vescovo «e quegli smargiassi, che aveano sino a quell’ora mostrato tanto coraggio, si fuggì vituperamente assieme con gli ufficiali, con i capi del tumulto lasciando solo sulle muraglie il col. Negrone e costringerlo a scrivere la licenza di capitolazione». Ottenuto i documenti di capitolazione anche il Negrone cerca di imbarcarsi assieme ad altri compagni, ma vengono lasciati a terra e non resta loro che riparare in Mentone.

    Il vescovo, ottenuta la lettera di capitolazione, invia due frati del Convento di Sant’Agostino al campo nemico per ottenere il lasciapassare ai tre delegati della trattativa. Non è un abboccamento sereno «si dovette comporre il sacco di 12.000 scudi d’oro».

    Il vescovo Gandolfo descrive la sua ansia e quella del popolo in attesa della missione. «Stetti tutta la notte con il palazzo e la chiesa piena di tutte le donne e fanciulli di Ventimiglia e Ville in culla più di 150 figli lattanti con perpetui va­giti; spettacolo il più miserando che si possa rappresentare agli occhi umani. Ne prima delle sette ore di detta notte si ebbe nuova, che fosse accettata la capitolazione».

    La mattina seguente, era martedì, entrano in Ventimiglia alcuni Ufficiali di Savoia con a capo il marchese di Dogliani, Governatore di Nizza.

    Il vescovo è ancora a letto: «si presenta il Conte della Moretta per comunicare che il Principe aveva deciso di entrare in Ventimiglia e che avrebbe piacere di alloggiare nel palazzo vescovile, essendo tutte le altre case sottoposte all’artiglieria del Forte». Stava vestendosi quando il Principe entra in città; si reca in Piazza dove si ferma senza scendere da cavallo. Scrive al nipote: «Sollecitai di vestirmi e con li miei canonici e famigli mi avviai sulla piazza; vedendomi uscire dalla porta del palazzo, smontò da cavallo; mi ci avvicinai e gli raccomandai l’afflitta città, la chiesa e le cose sacre, supplicandolo che non permettesse che i Calvinisti entrassero in Ventimiglia e se vi entrassero almeno vivessero senza fare scandalo. Mi rispose con umiltà e soggiunse di voler sentire messa. Se ne entrò in chiesa e si inginocchiò sul mio faldistorio; e io a canto a Lui; gli dissi: Signore, questo è il grande Iddio delle vittorie, che in così breve tempo ha dato a V.A. tante felicità; si ricordi servirsene con quella modestia e giustezza proprie ad un Principe illustre e timorato».

    Parole di un vescovo pastore di anime, forse non recepite e se recepite invano praticate da un uomo illustre, ma freddo e calcolatore, lo dice la storia del dopo.

LA VOCE INTEMELIA anno LV  n. 10  - ottobre 2000

 

 

DINAMICA GENERALE

 

Le forze Franco - Sabaudo - Veneziane ripresero l’offensiva contro Genova che, nel frattempo s’era impadronita, via mare, di Oneglia. La campagna si sviluppò allora contro la Riviera di ponente.

Su questo fronte ponentino operano due colonne, una che scende dal Piemonte su Oneglia al Comando di Vittorio Amedeo, Principe di Piemonte, e l’altra che parte da Nizza e vuol congiungersi alla prima, al comando del marchese Dogliani.

 La colonna nizzarda, forte di 6000 uomini, s’ammassò il 13 aprile a Sospello, dove ricevette dei rinforzi. Tre giorni La Penna si difese dai loro attacchi con soli otto soldati e 60 uomini del luogo. Ma questi ultimi, scoraggiati dal loro capo, si arresero. I soldati e il loro sergente poterono ritirarsi a Ventimiglia. Nel frattempo l’altra colonna, forte di 10.000 uomini, irrompe per il Col di Nava, insegue i genovesi e occupa brillantemente Pieve di Teco. La colonna Dogliani nello stesso momento passa per Pigna e scende nella valle Argentina. Il 13 maggio Vittorio Amedeo è ad Albenga, il 15 attacca con impeto Oneglia e la occupa. Marcia allora su Ventimiglia, rimasta isolata, e ne manda a chiedere la resa. La risposta, che è negativa, lo trova a San Remo, il 19 maggio. In questo frattempo i militi delle ville ventimigliesi erano stati chiamati in città ed erano venuti in numero di ottocento.

Il comandante genovese, Giustiniani, perduta Oneglia, era accorso con tre galee per dirigere la difesa di Ventimiglia, ma resosi conto della situazione indifendibile desistette. Il popolo, affollato in piazza, accolse con grida ostili la decisione e diede segni di furore accusando i Magnifici di voler passare sotto i Savoia, accusa, forse, non del tutto infondata.

Vittorio Amedeo era giunto intanto a Bordighera. Quello che non si volle fare ascoltando le esortazioni del Giustiniani, lo si dovette fare dopo aver tumultuato: la città inviò i suoi deputati al Principe per patteggiare la resa. I patti furono sostanzialmente i seguenti: Ventimiglia sborsava subito 12.000 scudi d’oro e il Principe, dal canto suo, confermava i di lei privilegi e prometteva che non sarebbero state più messe imposte straordinarie. L’indomani egli entrava in città con il marchese Dogliani.

Cominciò tosto l’investimento del forte, che il 26 maggio 1625 si arrese. Seguirono nella città, nei sobborghi e nelle ville grosse taglie, saccheggi e soprusi, sicché non furono liete le accoglienze fatte ai nuovi Governatori: «meglio saria d’esser sottoposti al turco» si diceva.

La Riviera di ponente era in mano piemontese, ma la guerra non era finita. Genova, organizzato un esercito, passava, con la Spagna, alla controffensiva su due fronti: in Piemonte, sul lato lombardo, e in Riviera. Sul fronte settentrionale operano gli Spagnoli al comando del Duca di Feria con 25.000 uomini e 15.000 cavalli; sul meridionale i Genovesi, con quaranta galee e 10.000 uomini, al comando del Marchese di Santa Croce. Lassù si pone l’assedio a Verrua, qui la flotta inizia l'azione incrociando davanti alle Alpi Marittime, fino ad Antibo. I franco-piemontesi, nell’intento di parare alle mosse di terra, indirizzano una colonna su Savona, ma i Genovesi sbarcano ad Albenga, se ne impadroniscono, e si impossessano ancora di Oneglia e Porto Maurizio, e la colonna che marcia su Savona deve ritirarsi. Una seconda accorre in suo aiuto partendo da Nizza. Passa per Sospello, Pigna e scende in Valle Argentina, ma deve ripiegare davanti al Marchese di Santa Croce, che marcia alla riconquista di Ventimiglia. Aiutato da Carlo Doria, comincia con l’impadronirsi di Dolceacqua, Castelfranco, Pigna e Buggio. Liberata tutta la Val Nervia, ridiscende su Ventimiglia, che si arrende il 14 settembre. Il 21 è la volta del forte. Il Marchese di Santa Croce ritorna allora verso Zuccarello, lo riconquista, poi entra in Piemonte ed occupa Ormea. La resistenza dei franco-piemontesi è però molto solida ovunque; la controffensiva è bloccata, anzi il marchese di Feria è costretto a togliere l’assedio di Verrua. Genova allora fece avanzare proposte di accomodamento per mezzo di Monsignor Gandolfo. Vescovo di Ventimiglia, e si addivenne ad un armistizio della durata di quattro mesi, che fu poi prolungato. Spagna e Francia vennero anch’esse a trattative. L’armistizio durò nove anni. Esso non venne rispettato dai Genovesi, che assalirono inutilmente, a scopo di preda, La Briga, e dai Piemontesi, che rioccuparono il Buggio ma ne vennero ricacciati dai genovesi facendo strage e mettendo a sacco il paese (1627).

                                                                      LA FUNZIONE STORICA DELLA CONTEA DI VENTIMIGLIA

                                                                              Filippo Rostan – 1971    -     I.I.S.L. - Bordighera

Galea genovese

 

SVILUPPI  DEL  CONVEGNO DI  SUSA

1624     Il diacono Fenoglio, nottetempo, con arma alla mano, faceva irruzione in casa di una “damigella di grande virtù”, procurandosi la condanna al carcere, scontata nel Forte del Colle.

La Repubblica di Genova ammassava truppe a Camporosso, temendo un attacco da parte di Carlo Emanuele I di Savoia, in seguito al Convegno di Susa.

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La relazione sulla priorità dei percorsi nella possibilità di attacco vedeva la Porta di San Francesco quale punto di sfondamento. La strada della Fontana di Peglia era indicata come strada di accerchiamento. Porta Canarda veniva giudicata resistente, ma facilmente superabile attraverso Sealza e Sant’Antonio, oltre dalla strada di Forte del Colle, dalle Ville. Altro passo sguarnito era quello di Olivetta, seguito dallo Stafurco. La fortezza di Penna era superabile attraverso Saorgio o Briga, su Pigna e Dolceacqua. Altra direttrice poteva essere Perinaldo  - Apricale  - Camporosso.

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1625     Carlo Emanuele I di Savoia, figlio del duca Emanuele Filiberto, preso a pretesto il possesso del marchesato di Zuccarello, negatogli da Genova, confederatosi col Re di Francia e con Venezia, s’avventava contro Genova, che sprovvista di armi, decise di difendere il solo centro cittadino, prosciogliendo i sudditi della Riviera, ad eccezione di quelli di Ventimiglia.

Il 13 aprile, da Sospello, in disaccordo col conestabile di Francia Lesdighiéres, il Savoia mandò Vittorio, Principe di Piemonte, ad assalire la Riviera.

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Questi impiegò tre giorni per conquistare Penna, quindi conquistò, senza problemi quasi tutto il Ponente, il 13 maggio era ad Albenga, il 15 attaccava con impeto Oneglia e la occupava, entrando in Porto Maurizio il 17 maggio, ossequiato da una delegazione di San Remo, dalla quale ottenne una galera armata da spedire davanti a Ventimiglia per chiederne la resa. Il mattino del giorno 19 entrava trionfante in San Remo.

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Intanto a Ventimiglia i genovesi ed i ventimigliesi si organizzavano alla difesa, raccogliendo gli ottocento militi delle Ville, con i centoquaranta armati del presidio.

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Antonio Viale, milite delle Ville, in quei fatti d’arme, impadronitosi di Porta Canarda la difese da ottanta soldati del duca di Savoia, ponendoli in ritirata, dopo averne uccisi alcuni e feriti sette.

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Il vescovo Francesco Gandolfo aveva chiamato Galeazzo Giustiniani che era sopraggiunto con tre galee, ma invece di incoraggiare la difesa, manovrò in segreto per portare fuori le artiglierie rimaste sugli spalti giudicati indifendibili.

Il 18 maggio, giorno di Pentecoste, scoppiò una rivolta che portò i cittadini e quelli delle Ville a bruciare, rubare o rovinare ogni cosa appartenesse ai Magnifici. Soltanto l’intervento del vescovo pose fine alla rivolta, mentre duecentosettanta moschettieri del Giustiniani riuscivano a presidiare la città, intanto che le truppe del Savoia occupavano Bordighera.

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Di buon mattino, il ventuduenne alfiere della Milizia, il nobil Porro, veniva braccato dai rivoltosi e si chiudeva in vescovado. Lo seguirono i magnifici Francesco Riccobono e il figlio Giuseppe, Clemente Orengo Augusto Porro e Giannettino Bernaus, Agostino Sperone e Agostino Porro. I rivoltosi, guidati da Mariantonio Costa, provenivano dall’Oliveto al grido di “Viva San Giorgio” e giunti in Piazza, spezzarono i ferri del portone vescovile e con lui entrarono Bernardo Bellone di Vallebona ed atri di Bordighera e Soldano, oltre a Batò Viale, detto Verga.

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Il 16 maggio, una delegazione ventimigliese andò dunque a trattare la capitolazione, ottenendo qualche privilegio. Le truppe savoiarde occuparono il Forte.

Il 20 maggio, il Principe savoiardo entrava in città, ricevuto dal vescovo, col conte Dogliani, governatore di Nizza, che intanto si era impadronito del castello di Penna, passando poi nel territorio di Pigna.

Il 20 maggio, pose l’assedio al forte, difeso dai quattrocentosettantasei genovesi del capitano Giuseppe Cassero, che si arrese dopo sei giorni.

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Appena costituito questo suo dominio, Vittorio Amedeo era chiamato a raggiungere immediatamente suo padre, che doveva difendere Acqui assalita dal Duca di Feria. Lasciò dunque la Riviera assai indebolita.

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L’8 giugno, a Perinaldo, nasceva Gian Domenico Cassini, che sarà astronomo di chiara fama.

Fin dal 17 giugno, una fregata genovese, salpata da San Remo, sbarcava a Ventimiglia per intimarne la resa.

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Un trombetta scendeva dalla nave e si recava sotto le mura della Marina a chiedere la resa della Piazzaforte: Il Commissario Negrone Agapito, in compagnia del colonello Giacomo Gaetano, respingeva il trombetta e dava ordine di terrapenare le mura della marina, viste dal trombetta. Essendo la città difesa da soli centoquaranta soldati, divisi in due Compagnie, gli stessi dettero ordine di reclutare gli uomini delle Ville, fino ad inquadrare seicento militi locali, con la dotazione di cinquanta barili di polvere. Intanto tre galee genovesi, guarnite di duecentosettanta moschettieri e guidate da Giustiniano Galeazzo, battevano le acque tra la Roia e Monaco, senza curarsi delle difese di terra, attendendo addirittura la fuga delle truppe della postazione ventimigliese, alla vista del preponderante esercito. Ventimiglia capitolava.

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Il 13 giugno, veniva emanata la sentenza sui fatti della rivolta di Pentecoste. Scomuniche per tutti.

In luglio, otto ventimigliesi vennero tenuti nelle carceri ducali di Nizza, per rappresaglia ad un presunto debito di 71.028 fiorini da parte della comunità ventimigliese verso il Savoia.

In agosto i genovesi, ottenuti soccorsi dagli spagnoli ripresero tutte le terre del Ponente e si apprestarono a richiedere Ventimiglia che ottennero dopo lunghe trattative, durate fino al 14 settembre, per la città ed al 21 per la Rocca.

Attraverso la mediazione del vescovo Gandolfo, che aveva la Diocesi divisa tra la Repubblica ed i Savoia, i genovesi speravano in una pace.

L’11 ottobre, il Commissario delle Armi, Benedetto Spinola, scriveva al Senato genovese: «Domattina comincerò a tirare il fiume accanto la Città, che sarà di molto giovamento».

Il 6 novembre, G.B. Aprosio, ricco commerciante, supplicava il Senato genovese per la liberazione degli otto ostaggi del Savoia, a Nizza.

1626     Nei primi giorni di febbraio, il Senato genovese sollecitava il Parlamento ventimigliese a risolvere il caso degli ostaggi di Nizza.

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L’Aprosio si recava ad Albenga, dove Domenico Levato e Sergio Censore avevano proposto lo scambio con alcuni ostaggi di Pigna, prigionieri in Genova; ma i nizzardi volevano anche i soldi, quindi niente di fatto. Allora, l’Aprosio si recava dal Grimaldi di Monaco, da cui otteneva lettere di securtà e 24.000 fiorini. Non ottenendo comunque l’interesse del Parlamento ventimigliese, l’Aprosio ed Elodisio Casanova, uno degli ostaggi, inviavano un’altra supplica a Genova per trovare, sia i soldi da rendere al Grimaldi, sia i 47.028 fiorini ancora dovuti.

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Il 17 febbraio, dietro l’ordinanza genovese, i Sindaci, Salustio e Secondino, inviavano a Genova i conti della Comunità.

Il Commissario genovese Benedetto Spinola traeva dalla Cattedrale un soldato e lo puniva. Il vescovo Gandolfo censurava lo Spinola.

Il 23 febbraio, venne convocato il Consiglio ed il Parlamento ventimigliese che votò per il pagamento e la liberazione degli ostaggi.

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Erano Sindaci: Pietro Mari, G.B. Piuma, Giacomo Palanca, e M. Fenoglio; presenziava il Priore, Giuseppe De Giudici; erano presenti undici del Consiglio e cinquantasei Parlamentari, compresi quelli delle Ville. Nel Parlamento si formano due correnti, ma Stefano Lamberto richiama tutti alla solidarietà ed al sacrificio, ottenendo la soluzione positiva. (N.Allaria Olivieri)

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Brancaccio, maestro di campo genovese, partito da Ormea, aggrediva Briga, che aiutata dai tendaschi riusciva a ricacciare l’aggressione, uccidendo più di cento genovesi. Un’altro Brancaccio, zio del precedente, con truppe corse, occupava Pigna ed attaccava Buggio, facendone scempio, prima dell’arrivo di rinforzi da Sospello. Il duca di Savoia, inviò l’abate Giulio Ricci, per presentare al Gandolfo questi atti d’ostilità ed ottenere soddisfazione, impiccando i capi delle indisciplinate truppe corse. Proseguivano le trattative di pace, ottenuta in agosto.

Il 21 maggio, alla Madonna della Rota, una pattuglia di guardie genovesi catturava e malmenava il vescovo francese Bonzi di Bisier. Il vescovo Gandolfo scomunicava tutti, con foga, otteneva le scuse genovesi e il vescovo Bonzi salpava finalmente per Monaco. Ma il Senato genovese ricorse al Papa.

1627     Gli abitanti di Dolceacqua, sollecitati dal Duca di Savoia, si ribellarono a Carlo Doria, tiranno del luogo che si era aggregato alla ribellione fatta dal conte Grimaldi di Boglio, verso il Savoia.

Lungo la strada del Colle di Tenda, Col di Braus, si avviava un regolare servizio postale fra Torino e Nizza.

A Genova, veniva ritrovata la reliquia del corpo di Sant’Ampelio, presente nella chiesa di santo Stefano, dall’anno 1248.

Il vescovo Gandolfo portò Genova ed il Piemonte ad un armistizio della durata di quattro mesi, che fu poi prolungato.

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Spagna e Francia vennero anch’esse a trattative. L’armistizio durò nove anni. Esso non venne rispettato dai Genovesi, che assalirono inutilmente, a scopo di preda, La Briga, e dai Piemontesi, che rioccuparono il Buggio ma ne vennero ricacciati dai genovesi facendo strage degli abitanti e mettendo a sacco il paese.

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1628     Carlo Doria chiedeva aiuto al commissario genovese di Ventimiglia, che per l’adesione, veniva rimosso. Allora il Doria cominciava le trattative per vendere i feudi, sconsigliato dai genovesi ed irritando il Savoia.

Onorato II, Principe di Monaco, prendeva trattative segrete con Luigi XIII, Re di Francia per il protettorato sul novello principato.

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Messo di molte missive è stato il ventimigliese Roberto Aprosio, intimo consigliere del Principe, specie in questo pericoloso momento in cui Onorato II, si emancipò con un ardito colpo di mano dalla sordida ed umiliante pressione spagnuola, per passare sotto il protettorato francese.

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Non essendo ancora state riparate le gravi offese arrecatele dal terremoto del 1564, la prima arcata con la facciata della chiesa di San Michele, in Oliveto, crollava miseramente.

Vincenzo Lanteri, nato a La Mortola nel 1616, era eletto vescovo di Ragusa.

1629     Il vescovo Gandolfo noleggiava il leudo “Portiere” per smerciare una corposa quantità di vino Moscatello in Nizza.

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Sulla via del ritorno l’imbarcazione doveva imbarcare una buona quantità di derrate alimentari per il fabbisogno della Curia. La produzione di vino Moscatello nella campagna di Latte era sovrabbondante e veniva esportata in notevoli quantità.

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