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ERA  VOLGARE  A  VENTIMIGLIA

Schiavitù    Intemelia

 

PRESENZA DI SCHIAVI

    La presenza di schiavi, nell’antica Ventimiglia, non è presa in considerazione da nessuno degli storici locali. Nel leggere le opere del Rossi, del Rostan o del Bono, sembra quasi che il deprecabile sistema di usare esseri umani, per lavori da bestie e comunque non remunerati se non con il solo vitto ed alloggio, non sia mai stato messo in opera, nel nostro paese.

    Eppure le cronache storiche europee parlano della schiavitù, come diffusa a tappeto su tutto il continente. Saranno forse state le popolazioni preromane intemelie, a non aver usato schiavi, abituate com’erano a vivere parsimoniosamente e pericolosamente, nei rudi castellari; ma con la conquista romana e l’avvento dei coloni laziali sul territorio intemelio, anche gli schiavi devono aver fatto la loro comparsa, anche qui, da noi.

    Per tutto il periodo repubblicano di Roma, non si hanno notizie attendibili sulla diffusione della schiavitù nelle provincie, ma nei documenti dell’era imperiale qualche dato emerge.

 

DATI DESUNTI

    Nei primi anni dell’Era Volgare, dall’ufficio di censore di Claudio, che sarà poi imperatore, sappiamo che il numero degli schiavi era almeno uguale al numero degli abitanti liberi del mondo romano.

    Tenendo conto che i numerosi schiavi impiegati nei latifondi africani e mediorientali, oltre che nel meridione italiano, facessero variare la percentuale a scapito delle altre province; si può azzardare che il territorio del Municipium Intemelio fosse fornito di almeno quattromila schiavi, sui diecimila abitanti presenti.

    Si può affermare, senz’altro, che il numero degli schiavi, considerati come una proprietà, era più ampio di quello dei servi, che si potevano calcolare soltanto come spesa. La più parte era impiegata nell’agricoltura, ma ai commercianti ed agli artigiani conveniva di più comprare i lavoranti, che assumerli.

    Gli schiavi addetti alla magnificenza ed al piacere, nelle case patrizie, erano presenti oltre ogni idea del moderno lusso. Si tenevano inoltre, schiavi istruiti nelle arti e nelle scienze, come era facile trovare, nelle case più altolocate, schiavi abilitati alle professioni, quali medici o avvocati e persino ingegneri.

 

I LIBERTI

    Secondo l’antica legislazione, uno schiavo non aveva patria. Acquistando la libertà, egli veniva ammesso nella società di cui il padrone era membro. I liberti ottenevano i diritti privati dei cittadini ed erano rigorosamente esclusi dagli onori civili e militari. Le tracce dell’origine servile non si cancellavano completamente che alla terza o quarta generazione, quale potessero essere i meriti o le ricchezze acquisiti.

    I liberti medesimi, quando si arricchivano, praticavano la schiavitù. Durante il regno d’Augusto, un ricco liberto contabilizzava gli schiavi della sua azienda, nell’elenco dei bestiame. È pensabile che, dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, la pratica della schiavitù, sia ancora perdurata, sul nostro territorio, abbondantemente fino al X secolo.

    Tenendo infine conto delle fonti, citate da alcuni storici europei, nelle provincie imperiali e specialmente in Gallia, la pratica della schiavitù, vera e propria, è stata attiva fino al XIII secolo, in modo massiccio, ma anche  oltre, stemperandosi lentamente.

    Ancora nel XVIII, la situazione dei contadini è stata pressoché schiavistica. la Rivoluzione Francese ha saputo seminare per tutta l’Europa lo spirito liberale, fra tutti gli uomini, soffocando finalmente ma lentamente la prosopopea delle classi elevate.

 

 

CRONOLOGIA

.138     Editti imperiali di Adriano e degli Antonini, ponevano i numerosi schiavi, presenti in ogni famiglia, a trattamenti più umani. Molti schiavi maltrattati, venivano liberati.

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Nei primi anni dell’Era Volgare, si può azzardare su come il territorio del Municipium Intemelio fosse fornito di almeno quattromila schiavi, sui diecimila abitanti presenti.

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. 324   La riorganizzazione del territorio imperiale trovava gli Intemeli inseriti nella Diocesi dell’Italia Annonaria, provincia di Liguria.

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Nelle province, l’aristocrazia senatoriale romana, rimase una fonte di autorità locale; ma tuttavia, era spesso conferita all’ufficio spirituale dei vescovi. Tanto che, nel momento in cui la chiesa cominciò a definire la propria struttura amministrativa, prese ad usare la corrente terminologia romana per descrivere le unità e la relativa gerarchia; confondendo sovente l’autorità ecclesiastica con quella secolare. La nuova organizzazione comprese tredici diocesi, di cui sei in Occidente.

L’Itinerarium maritimum, databile al IV secolo, individuava Albintimilium come semplice “plagia”, cioè una città priva di porto, dotata di una semplice spiaggia attrezzata o forse d’un approdo. La popolazione urbana era composta da chierici, da scarsi amministratori civili, da artigiani, da qualche commerciante, da contadini venuti a cercarvi riparo, cui si mescolavano soldati disoccupati e schiavi in fuga. All’interno della città i produttori avevano una collocazione del tutto secondaria; mentre scarseggiava paurosamente il personale veramente efficiente nella amministrazione politica ed economica. I pochi mercanti che sopravvivevano e si dedicavano al traffico locale ed al commercio del denaro, avendo rinunciato agli affari a lunga distanza, erano sempre più estranei al corpo sociale, mentre venivano sempre più emarginati dai settori produttivi dell’economia. Con questo, la città, privata della vitalità e perso l’equilibrio sociologico, non esercitava più alcuna influenza sulla campagna vicina, né era più legata ad essa. La crescente insicurezza, culminata con l’invasione gotica, indusse al declino della “città Nervina”, favorendo lo spostamento del nucleo residenziale sul colle a ponente della foce del Fiume Roia, usata già da tempo come porto canale.

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. 539   Teodeberto, re dei Franchi, depredava la Liguria e l’Emilia, già scarse di viveri. Abbattuta e saccheggiata la città di Genova, mentre un morbo colpiva il suo esercito, tornava nelle Gallie, per far pace con Belisario. Nella Pianura Padana era in atto una grave carestia. La legislatura bizantina aggravava la già precaria situazione della diffusa povertà. Il povero, per debiti, sovente si dava alla macchia o entrava nelle numerosissime comunità monastiche.

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Con le leggi emesse in quegli anni, non era dato di testimoniare a chi non avesse posseduto almeno cinquanta monete d’oro, a meno che non fruisse della garanzia di terzi. Il povero non poteva essere interrogato che sotto tortura, tale e quale ad uno schiavo. Venivano iterinate le forme di matrimonio, dove i poveri, i soldati ed i contadini si vedevano riconoscere la coabitazione, perché estranei alla vita civile.

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. 553   L’annessione della Provenza al Regno Franco, riceveva il beneplacito di Giustiniano, che aveva riconquistato l’Italia.

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I Goti che abitavano a nord del Po, si dispersero nelle Venezie, quelli che abitavano a sud, raggiunsero la Tuscia, mentre quelli che abitavano la Liguria, i quali precedentemente avevano stipulato un’alleanza militare coi Bizantini, si recarono nei territori dei Franchi, in Provenza. La provincia della Gallia Narbonense, anticamente chiamata “Bracata”, con l’arrivo dei Goti., tra il VI ed il VII secolo cominciò a chiamarsi Septimania. Pare comprendesse, tra le altre, le città di Nizza e di Monaco. Nella Narbonense, operavano moltissimi mercanti orientali, specialmente Siri, veri e propri carovanieri del mare, sostenuti da Greci ed Ebrei, intraprendenti “banchieri” dell’epoca. Marsiglia era il centro ebraico per eccellenza, era là che i Giudei si rifugiavano, quando erano perseguitati, altrove. Alcuni di questi ebrei erano marinai, o proprietari di navi, altri possedevano terre coltivate da coloni, molti erano medici. Ma la stragrande maggioranza era dedita al commercio e soprattutto al prestito ad interesse. Molti erano mercanti di schiavi. Oltre a Marsiglia, i maggiori porti del Mediterraneo erano Fos, Narbona, Agde e Nizza, dove si era mantenuta l’organizzazione romana. Lungo i “cataplus”, le banchine del porto, pare funzionasse una sorta di borsa. A Fos, si trovava un grosso magazzino del fisco.

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. 595   Papa Gregorio Magno, attendeva vesti e schiavi anglosassoni, da convertire, acquistati in Provenza, cedendo i prodotti delle sue proprietà.

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Pubblicato nel 1890, Giorgio Ciprio citava che alla fine VI secolo parte della città era situata sul poggio detto “Scögliu”, mentre era ancora attiva l’abitabilità del centro primitivo della Città Nervina. Questa abitabilità resterà attiva sino all’VIII-IX secolo, come hanno dimostrato i rilievi operati da Daniela Gandolfi, nel 1998.

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. 725   Il 22 agosto, i Saraceni incendiavano Autun.

Liutprando chiamato dai Merovingi, guidava i Longobardi attraverso le Alpi Marittime, in soccorso della Provenza.

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I primi importanti successi degli invasori saraceni, anche se ottenuti da uno scarso numero di armati, sarebbero derivati dall’alleanza ottenuta, da questi., con i “pravi christiani”. Il folto numero degli uomini semi-liberi, dei servi e degli schiavi invocavano da tempo un trattamento più umano ed una minore oppressione, che i vescovi ed i conti sapevano raccogliere, soltanto per motivarlo nella lotta contro il proprio rivale. Specialmente in Provenza e Borgogna, dove le condizioni economiche erano assai meno floride che in Liguria, l’alleanza coi Saraceni produsse la più intensa e spietata azione demolitrice contro i monasteri, i beni ecclesiastici e le proprietà curtensi. Dal Rodano, fino oltre le pendici padane delle Alpi, i Saraceni presero di mira i monasteri, le chiese e i grandi latifondi, dov’erano accumulate le maggiori ricchezze; ma la spinta devastatrice partiva, soprattutto, dai numerosi “pravi homines” ad essi associati. Tutti i monasteri della zona costiera, se non furono distrutti vennero abbandonati ed i monaci portarono al sicuro i loro tesori, cercando rifugio nelle città fortificate.

Genova per la Liguria, Asti e Torino nel Piemonte; Marsiglia, Arles e Tolone per la Provenza accolsero monaci, vescovi e aristocratici fuggiaschi. I piccoli centri costieri restarono per lungo tempo in abbandono, con le campagne incolte e deserte.  Molte diocesi restarono per anni, senza vescovo, tra queste: Aix, Digne, Nizza, Senez, Antibo, Vence e Sisteron. Non seguirono questa sorte le sedi di Ventimiglia ed Albenga, anche se quest’ultima città era circondata da vaste campagne abbandonate, ridotte a fetide paludi.

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1041   I conti Ventimiglia, Corrado ed Ottone, assieme alla loro madre Adelaide e con la contessa Armellina, moglie di Corrado, confermavano la donazione del monastero di san Michele ed aggiungevano le adiacenze, verso Adalberto, abate di Lerina.

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Gli imperatori, per bontà e devozione verso la Chiesa ed i Re, per garantirsi la fedeltà dei loro sostenitori, dilapidarono le loro ricchezze fondiarie e quindi la loro potenza. L’aristocrazia contile approfittava di questo indebolimento per accaparrarsi a titolo ereditario le cariche che avevano ricevuto dallo Stato. I nobili confusero i beni del fisco con quelli onorifici, arrivando addirittura a pensare di possedere effettivamente l’intero territorio amministrativo. Quindi, per garantirsi a loro volta fedeltà e devozione, si diedero ad elargire diritti ed a donare beni fondiari, specialmente a monasteri, che godevano dell’immunità imperiale. Stabilire un rapporto privilegiato con un monastero era una tappa obbligata nel percorso degli aspiranti alla “signoria bannale” autonoma. La Carta di Tenda, redatta dopo il 1042, distingueva fra i servizi dovuti al Conte, quelli indefiniti, come erano gli. obblighi degli schiavi, dovuti dagli “homines de sua masnada” ed i servizi, al contrario soggetti a tariffa, a cui erano tenuti gli “homines habitatores”. Tuttavia anche per questa gente, che si era meglio difesa, le prestazioni richieste dal Conte, in nome della protezione da lui procurata, avevano assunto una forte tonalità familiare. A certe scadenze, erano tenuti a portare quelli che venivano chiamati “regalia” alla casa del capo. Quando, dovendo compiere delle “corvées” che tenevano luogo del servizio militare non più richiesto, si trasferivano per un periodo alla corte del signore, ponendosi nei suoi confronti in un rapporto di convivialità e di obbedienza. Anche i diritti di alloggio e di accoglienza, di indiscutibile origine pubblica, venivano conservati dal Conte; come avveniva per i magistrati, nella tarda Antichità, quando in trasferta, erano ospitati dai cittadini. Se non era più il contadino, ad ospitare il Conte in famiglia; quando questi ed il suo seguito, venivano a dormire nel villaggio; restava l’obbligo di consegnare l’equivalente, in vino, pane, denaro ed anche in materassi di piume, per una ottenuta “franchigia”.

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1147   Genova indiceva una spedizione contro i mori di Spagna.  Ventimiglia vi partecipava con gran copia di navi e la reputazione di buoni marinai.

Il 16 ottobre, la spedizione ligure conquistava Almeria.

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Nelle giornate vittoriose di Almeria, il vessillo ventimigliese era stato in prima linea. Grande fu la strage, ventimila Saraceni uccisi, grandissimo il bottino.  Diecimila, fra donne e bambini, furono condotti a Genova per essere venduti come schiavi. Altri ventimila Saraceni, chiusi nella rocca, si salvarono pagando un riscatto di trentamila marabottini.

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1355   In primavera, Filippo Doria armava quindici galée ed il giorno di San Giorgio prendeva, ai corsari Mori, la città di Tripoli di Barberia, ritornando in Genova con un gran tesoro e un gran numero di schiavi.

(INTEMELION 11-2005)

1540   Moriva Pietro Sperone, illustre giureconsulto, inviato di Andrea Doria presso Francesco I.

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Era presente ai fatti d’arme di Modona e Corona, da dove riportò in Ventimiglia sette schiavi. Nel 1518, raggiunge la carica di Vicario della Corsica. Grazie ai suoi meriti, dopo il 1528, la famiglia otteneva di essere ascritta all’albergo Doria.

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1549   L’Ufficio delle Virtù del Comune genovese emanava divieti per famigli, fantesche e schiavi.

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Si proibisce loro di portare “veste di seta o ricamate, grembiuli rossi o morelli, cosa alcuna di metallo prezioso, scarpe di cuoio bianche nero e rosse”, sotto la pena di essere esposta alla berlina con una mitria di carta sulla testa o punito con venticinque “patte sul sedere” a Genova sulle scalinate della cattedrale, a Savona “in palladio”, a Ventimiglia sulla “clapa pisci”, in precedenza usata per la contrattazione del pesce; situata davanti al portale della Cattedrale, sull’angolo che portava in quella che oggi è via Falerina.

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1563   La notte del 25 agosto, le navi del corsaro Ulug-Alì si ancorarono nella baia di Latte, i predoni salirono a Sant’Antonio e scesi a Bevera razziarono cose e persone.

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A lavorare nelle terre del nobile Roberto Orengo, gestite da Matteo Orengo, si trovavano Domenico Martino, la moglie Bianchetta ed il figliolo dodicenne, Benedetto, che venne catturato e condotto come schiavo ad Algeri. Benedetto Martino venne ceduto al corsaro Crogiolai, che lo condusse a Costantinopoli. Non sopportando più le angherie cui era sottoposto, il giovane abbracciò la fede maomettana. Il 1 marzo 1571, presso Corfù, Benedetto fuggiva verso un presidio cristiano, dove venne catturato e venduto alla Galea Capitana genovese di Nicolò Doria. Da quella nave Benedetto assistette dal largo alla battaglia di Lepanto, del 7 ottobre 1571. Tornato a Genova, Benedetto riusciva a riscattarsi e tornare a Bevera, dove chiese di poter abiurare la fede maomettana, ciò che avvenne il 30 marzo 1572, innanzi a Carlo Cigala, vescovo di Albenga, temporaneamente a Ventimiglia, che lo inviò, a piedi nudi, ad assistere alla messa in un santuario presso Mentone.

(Arch. vesc. Civil. 1  - Lorenzo Rossi)

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1568   In Pigna, il capo del gruppo riformista locale, il notaio GioFrancesco Ughetto, perseguitato, era costretto ad emigrare nelle valli valdesi del Piemonte, finendo poi martire nelle carceri di Torino.

Una ventimigliese, tenuta schiava in Algeri, scriveva disponendo la vendita dei propri beni per il riscatto suo e della figlia.

1797   Il 7 luglio, considerando la schiavitù personale contraria ai diritti dell’uomo, tutti gli individui barbareschi, detenuti nelle galere della Repubblica, saranno restituiti alla loro piena originaria libertà.