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EVO  ANTICO  A  VENTIMIGLIA

Longobardi  e

 

S a r a c e n i

 

    Dal 568, nuclei famigliari longobardi di una certa entità, detti “Farae”, presero ad occupare militarmente le regioni padane, cercando l’integrazione con i residenti. Non cambiavano le abitudini trovate, ma introducevano i loro costumi nella necessità di convivere all’interno d’una economia migliorata. Il 3 settembre dell’anno successivo, Alboino entrava in Milano ed assediava Pavia, occupando tutta la Liguria cispadana. L’arcivescovo Onorato, fuggendo da Milano, raggiunse la città di Genova, dove il Capitolo e gli arcivescovi milanesi risiederanno fino all’anno 643.

    La nostra contrada, risparmiata dalle incursioni dei Longobardi, poteva restare porto e fortezza bizantina, inserita nella, ormai ristretta, Provincia Maritima Italorum, governata militarmente da un “Magister equitum”. Infatti Alboino occupava tutte le città liguri, o meglio cispadane, tranne quelle poste in riva al mare, che costituivano la Liguria Marittima, protetta dal fortificato “limes bizantino” di Costanzo e sul mare dalla flotta bizantina di Narsete.

    La confinante Provenza, sottomessa al regno dei Franchi, merovingi, era l’unico stato, indipendente dall’impero Bizantino, che si affacciasse sul Mediterraneo. L’Italia centro-settentrionale longobarda era interessata agli avvenimenti germanici e franchi, pur vivendo in un mondo che era quello di Bisanzio e dell’Oriente.

    Ventimiglia si trovava nel bel mezzo di queste indecise realtà, col suo territorio di frontiera, rivolto alla Provenza, ad un indefinito oltregiogo, in una Liguria longobardo-bizantina, sempre rivolta ad un difficile mare, per ora bizantino.

    Ad aggravare la carestia iniziata nel 538, nel 570, una nave proveniente dalla Spagna, portava a Marsiglia un’epidemia, durata due mesi, nella Liguria padana, ampiamente descritta da Paolo Diacono. Ventimiglia veniva percorsa da almeno una delle colonne di Sassoni e Longobardi, di ritorno nelle Gallie; quella medesima colonna che attraversando la città di Nizza, lasciava lutti e devastazioni.

 

    Chiese e monasteri si dotarono di una “foresteria” che forniva adeguata assistenza a qualunque viandante, secondo i propri bisogni, ottenendo come contropartita l’esenzione fiscale, sulla base dei principi adotti da Costantino, per i beni ecclesiastici. La “casa pia” rendeva un pubblico servizio, assistendo gli affamati, gli isolati e persino i lebbrosi. L’antichità cristiana inventava l’ospedale, che aveva come prima finalità quella di radunare tutti coloro che fossero bisognosi d’assistenza, primi fra tutti, quanti fossero fisicamente impossibilitati a provvedere al proprio mantenimento.

 

    Nel 638, il longobardo Rotari, arodo di stirpe e religiosamente ariano, intraprendeva la sottomissione di tutto il litorale ligure da Luni ad Albintimilium. La popolazione intemelia preferì trasferirsi ad abitare sui monti, sino a quando il re longobardo Rodoaldo, successo al padre Rotari nel 652, accordò loro i mezzi per riedificare la città Nervina, che sarà retta dai Longobardi fino al 774.

    Nel 643, Rotari metteva a ferro e fuoco Luni, Savona, Noli ed Albenga. Ventimiglia non veniva nominata, invece è quasi certa la distruzione di Lumone, oggi Mentone, che vide i propri abitanti riparare sui monti e fondare il paese di Sant’Agnes.

    Qualche storico indica la data del 645, come l’anno in cui Rotari distruggeva la Ventimiglia Nervina; compresa la Cattedrale ricavata dal tempio di Diana. Rodoaldo, successo al padre Rotari, nel 653, concedeva agli Intemelii di ricostruire la loro città alla foce del Nervia.

    Questa notizia afferma l’esistenza della città sulla destra del Nervia. Mentre, la costruzione di un’ampia chiesa in arte longobarda, corredata da un battistero ottogonale, in un’area dello Scögliu, a destra della foce del Fiume Roia, porta a pensare ad un progressivo abbandono della Città Nervina proprio nel corso della seconda metà del secolo VII. Le fondamenta del battistero franco-longobardo, decentrate di pochi centimetri dal perimetro del battistero esistente, sono state rilevate nel 1992, durante uno scavo.

 

    Sovente, l’invasione longobarda lasciava inalterato lo status sociale ed economico dei territori interessati. Le “fares”, composte da poche famiglie di nobili longobardi, assumevano il governo delle città conquistate, lasciando i compiti amministrativi ai precedenti funzionari. Quasi certa era la continuità specialistica sulla gestione in materia marittima, dove i Bizantini erano maestri ed i Longobardi digiuni. Nel caso di Ventimiglia, la presenza del Porto-canale ancora funzionante alla foce del torrente Nervia, base d’appoggio della flotta bizantina, nei suoi commerci verso la Provenza, continuerà ad essere gestito dagli specialisti bizantini. Un altro Porto-canale stava prendendo forma, nel grande Lago ai piedi dello Scoglio, poco addentro alla foce della Roia. Più protetto della vetusta attrezzatura nervina, dalla presenza di un fortilizio costruito sullo sperone del promontorio, serviva in quel periodo unicamente al traffico inerente i tronchi d’albero ed il legname proveniente dai boschi attorno a Tenda. Con la minacciosa presenza dei navigli saraceni sul nostro mare, verrà abbandonata la struttura portuale nervina e potenziato questo nuovo porto.

 

    Dalla convocazione del Sinodo Romano del 679, si deduce come la diocesi metropolita milanese fosse stata smembrata. Milano aveva ancora giurisdizione sul territorio corrispondente alla Provincia Annonaria dell’Impero, ma da allora doveva dividerla con le nascenti metropolite di Ravenna ed Aquileia. La chiesa di Pavia si staccava appunto a metà del VII secolo, mentre quella di Piacenza era assente in questa convocazione.

    Datato 680, è il documento più antico che attesti l’esistenza della diocesi di Ventimiglia, già citata però da notizie collaterali. Questa notizia porterebbe a pensare che, come Nizza, Savona e Luni, Ventimiglia può essere stata sede di Ducato Longobardo.

 

    22 agosto 725, i Saraceni incendiavano Autun. Liutprando chiamato dai Merovingi, guidava i Longobardi attraverso le Alpi Marittime, in soccorso della Provenza.

 

    I primi importanti successi degli invasori saraceni, anche se ottenuti da uno scarso numero di armati, sarebbero derivati dall’alleanza ottenuta, da questi, con i “pravi christiani”. Il folto numero degli uomini semi-liberi, dei servi e degli schiavi invocavano da tempo un trattamento più umano ed una minore oppressione, che i vescovi ed i conti sapevano raccogliere, soltanto per motivarlo nella lotta contro il proprio rivale. Specialmente in Provenza e Borgogna, dove le condizioni economiche erano assai meno floride che in Liguria, l’alleanza coi Saraceni produsse la più intensa e spietata azione demolitrice contro i monasteri, i beni ecclesiastici e le proprietà curtensi. Dal Rodano, fino oltre le pendici padane delle Alpi, i Saraceni presero di mira i monasteri, le chiese e i grandi latifondi, dov’erano accumulate le maggiori ricchezze; ma la spinta devastatrice partiva, soprattutto, dai numerosi “pravi homines” ad essi associati. Tutti i monasteri della zona costiera, se non furono distrutti vennero abbandonati ed i monaci portarono al sicuro i loro tesori, cercando rifugio nelle città fortificate. Genova per la Liguria, Asti e Torino nel Piemonte; Marsiglia, Arles e Tolone per la Provenza accolsero monaci, vescovi e aristocratici fuggiaschi. I piccoli centri costieri restarono per lungo tempo in abbandono, con le campagne incolte e deserte. Molte diocesi. restarono per anni, senza vescovo, tra queste: Aix, Digne, Nizza, Senez, Antibo, Vence e Sisteron. Non seguirono questa sorte le sedi di Ventimiglia ed Albenga, anche se quest’ultima città era circondata da vaste campagne abbandonate, ridotte a fetide paludi.

 

    Il 18 ottobre 614, nel Regno Franco, Clotario II ordinava che gli antichi “telonei” romani, conservati negli stessi luoghi, restassero quali erano sotto il suo predecessore.

 

    Il teloneo comprendeva ogni sorta di gabella: portaticum, rotaticum, pulveraticum, ecc.; aveva caratteri non economici, ma nettamente fiscali ed era riscosso solamente in denaro. Nei grandi porti c’erano magazzini per il deposito delle merci, con funzionari fiscali addetti.

    Il solido d’oro romano, introdotto da Costantino, era l’unità monetaria in vigore per tutto l’impero. Il servizio di “posta”, sussisteva in tutto il bacino del Tirreno. Il traffico si svolgeva lungo le strade romane, dove, ponti di barche sostituivano gli antichi ponti, in rovina. Le autorità provvedevano a che entrambe le sponde dei corsi d’acqua fossero lasciate libere per una profondità di almeno una “pertica legalis”, per consentire l’alaggio delle chiatte.

 

    Nella giurisdizione del Regno d’Italia, creato da Carlo Magno, la Liguria Marittima fu inclusa nella Marca della Tuscia. In seno ad essa l’antico Municipium ventimigliese ebbe dignità di Comitato, ossia venne eretto a Contea, con giurisdizione su tutto il Bacino della Roia. La prima discendenza contile, che praticava il diritto latino, sarebbe potuta scaturire dalla nobiltà autoctona, come pure essere stata trapiantata dal potere reale od imperiale franco, sulla base d’un equilibrio che avrebbe tenuto conto delle profonde radici di nobiltà romana, sostenute dalla lunga presenza bizantina. Culturalmente il basso medioevo veniva vissuto a Ventimiglia come in ogni altra parte d’Europa, nella più degradante insufficienza. La presenza del monastero, accertato sul capo Ampelio, avrà certamente mantenuto un lumicino di attività legata allo studio ed alle arti minori. La presenza del vescovato, legato al latino della liturgia e della elite intellettuale, non aveva alcun rapporto con la cultura popolare. Si parlava certamente un dialetto, evoluto da un latino compromesso dalle infiltrazioni gote e longobarde, oltre a quelle franche e sassoni, dovute al vivace fenomeno dei pellegrini, che pur non intervenendo nel merito della cultura, come in quello del reddito, hanno rappresentato, per quel periodo l’unico scambio tra  comunità.   Fin  dagli  inizi  del  secolo  successivo,  spinta da decreti imperiali, la cultura riceveva un trattamento migliorativo, rispetto alla totale assenza delle scuole per i secoli, a partire dal VI.

    Nell’anno 800, rinnovando la divisione dipartimentale del Sacro Romano Impero, Carlomagno assegnava la Liguria marittima alla Marca Arduinica, ascritta al Regno d’Italia, della Lombardia, mentre i vescovi milanesi assunsero il titolo arcivescovile.

    Nell’anno 810, i Saraceni occupavano definitivamente Sardegna e Corsica, intanto che pirati arabi mettevano a sacco Nizza, quindi arroccatisi sul colle di Tenda, i Saraceni battevano le vallate liguri e piemontesi.

    L’imperatore, Lodovico il Pio, nell’anno 814, investiva Bonifacio di Lucca, marchese di Toscana, della Contea di Ventimiglia, oltre che di altri feudi in Provenza. La necessità di trovare il legname adatto all’allestimento di una flotta, che da Porto Pisano potesse contrastare le navi arabe, per ora padrone del Mediterraneo, metteva in prima fila i boschi del nostro entroterra, ricchi di bellissimi larici ad alto fusto, insostituibili per realizzare i lunghi pennoni.

    Ventimiglia avrebbe subito una devastazione ed un incendio da parte dei saraceni, temporaneamente insediatisi nella “Barma d’i Arabi”, presso Roverino.

    Rilevamenti effettuati nel 1998-99, da Gandolfi e Martino, stabiliscono che la Città Nervina, tenuta efficiente a difesa del porto canale del Nervia, non è più stata abitata dal IX secolo; infatti da questo tempo la vita cittadina si è completamente spostata sul colle dello “Scögliu”, a protezione del porto canale alla foce della Roia, luogo più difendibile, già abitato fin dal VI secolo.

 

 

    In quell’epoca, la cultura precedente perdeva vigore, l’arte religiosa cristiana era riuscita, finora, a sfruttare metodi e concezioni dell’antichità, adeguandoli alle proprie esigenze. Si era conservata l’arte paleocristiana, mentre accanto nasceva l’arte bizantina, riguardante esclusivamente chiese ed edifici religiosi. Il vigore architettonico, misto al virtuosismo ornamentale delle chiese famose, delle città capitale, si espresse anche in chiese più modeste della Provenza e della Gallia, basterà ricordare i battisteri di Riez e di Fréjus. Anche da noi, fantasticando su alcuni esigui ritrovamenti negli scavi della città Nervina, simili per tutto alle pietre in pianta della chiesa sottostante l’attuale cattedrale e visibili dalla cripta, potrebbero far credere in un battistero d’epoca bizantina, precedente all’attuale romanico. In Provenza, la “produzione” artistico religiosa perderà vigore alla fine del VI secolo, non rappresentando più, quasi nulla, per quantità e qualità, nel secolo successivo. Tirando un bilancio, alla fine del secolo VI, risulterà che una profonda trasformazione, era venuta ad interessare l’Europa. Partite dal Mediterraneo, le iniziative altomedievali erano state tutte profuse a saldare di nuovo insieme paesi distribuiti lungo le coste di questo mare, con scarso successo. Ma si può stabilire che i popoli delle regioni meridionali del continente; della Spagna, della parte sud occidentale della Gallia, della Provenza e dell’Italia; hanno avuto una storia diversa da quella dei popoli del continente, tanto che, a volte, ne sono stati consapevoli. Si erano creati, sul piano territoriale e politico, due vasti complessi: quello mediterraneo e quello franco-germanico, separati e distinti tra loro, tanto più in quanto la vecchia rete stradale romana, stabiliva in prevalenza rapporti tra est ed ovest e non tra nord e sud. Diversità segnata pure sul piano della cultura e della civiltà, facilitata dal profondo contrasto degli ambienti naturali. Ma il dato principale, che segnò questo periodo è stata la differenza nel rapporto di forza tra i due blocchi imperiali, tale per cui l’Occidente ha finito per cedere. Ormai non guardava più esclusivamente verso l’antico “mare nostrum”, non si sentiva più attratto ad esso; scopriva che non si poteva più dipendere da esso. Nonostante l’attivo ricordo di Roma, il modello romano venne giudicato un mito. A partire dal solo Mediterraneo era ormai impossibile costruire qualcosa di solido. La disarmonia e l’incertezza sono tanto più evidenti, in quanto la suddivisione tra due grandi complessi territoriali e culturali a sua volta trova al suo interno tante altre disparità, molto nette.

 

    In Europa, la Chiesa restava l’unica forza civilizzatrice dell’epoca. Era la Chiesa a possedere il personale e l’organizzazione che mancava agli Stati. Le sedi metropolitane stabilite nel capoluogo di ogni provincia, le sedi episcopali istituite presso il capoluogo di ogni distretto, scomparvero momentaneamente solo nelle regioni dell’estremo nord. Altrove, furono risparmiate o rispettate dai conquistatori. Mentre l’amministrazione civile decadeva, quella ecclesiastica rimaneva solida. Mentre l’istruzione laica era scomparsa; senza averlo voluto ne cercato; la Chiesa possedeva il monopolio della scienza. Le sue scuole furono le uniche scuole operanti.

    Nei rogiti del IX, X e XI secolo, essendo obbligo di dichiarare in ogni contratto la legge secondo cui uno viveva, e che era d’ordinario quella della propria nazione. Per Ventimiglia, negli atti rogati in quegli anni, si incontra sempre l’espressione: professus sum ex nacione mea lege vivere romana.

    Per i Franchi, i regna periferici erano uniti militarmente al governo centrale franco per mezzo di un’astuta istituzione: le marche dell’Impero. I Merovingi usavano l’istituto del limes, distretto militare di frontiera, secondo il modello del limes romano, che continuava ad essere impiegato dall’Impero bizantino. Questo tipo di governo prevedeva l’insediamento di coloni di stato, sulle frontiere, a fini difensivi. Un servizio militare ereditario in cambio di terre ereditarie. Il sistema venne ripreso dai Franchi, che diedero a questi coloni soldati privilegiati il nome di franci homines. Costoro erano spesso comandati da un centenarius, alla testa di una centena. Ancor prima dei Carolingi, il titolo riferito al capo di un limes corrispondeva esattamente al titolo romano di praefectus limitis. I conti stabiliti in uno dei pagi di frontiera erano chiamati tutores o custodes limitis, ma anche marchiones o marchisi, dato che il termine tecnico franco per “frontiera” era marca. All’inizio, questi altro non erano che conti dislocati in una “marca”; al capo di quest’ultima veniva invece dato il nome di praeses marcae, oppure quello di prefectus limitis.

(K.F. Werner  - Nascita della nobiltà  - Einaudi  - Torino 2000)