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VENTIMIGLIA

 

LE LINGUE IMPARATE

 

                                                                       

 

 

Come si parla a Ventimiglia

di Andrea CAPANO  1978

    Nella zona di Ventimiglia, le lingue d’uso, se si escludono quelle parlate da ristrettissimi gruppi di immigrati, sono essenzialmente tre: il ventimigliese, l’italiano e il francese.

    Il ventimigliese appartiene alla varietà linguistica ligure intemelia, diffusa sulla costa dal torrente Argentina a Monaco Principato e in diverse vallate dell’interno.

    Le persone che ne hanno una conoscenza attiva (cioè coloro che parlano il ventimigliese) sono ormai una minoranza, mentre una notevole parte della popolazione ne ha ancora una conoscenza passiva (cioè lo capisce).

    Occorre notare per inciso che, specialmente fra i giovani, alcuni, per snobismo o per ignoranza (magari esaltata da qualche anno di liceo), evitano di esprimersi in dialetto, pur conoscendolo benissimo anche negli ambienti in cui esso é tuttora in uso.

    L’italiano, essendo la lingua ufficiale dello stato, é compreso da tutti, e parlato dalla stragrande maggioranza, seppur con notevoli particolarità regionali.

    Gli italofoni si possono dividere e in due categorie: a) coloro che lo hanno appreso empiricamente ascoltando e leggendo (anziani locali e immigrati anche giovani); b) coloro che lo hanno studiato a scuola.

    Notevole è la presenza dei gerghi, specialmente negli ambienti giovanili, in cui parole incomprensibili per il profano (ma tratte a volte dalla parlata intemelia o da quelle meridionali degli immigrati) nascono e muoiono a velocità sorprendente.

    Il francese, data la vicinanza della frontiera, varcata quotidianamente nei due sensi da moltissimi lavoratori e turisti, è abbastanza diffuso a livello di conoscenza attiva, e parecchio a livello di conoscenza passiva.

    I francofoni si possono dividere in quattro categorie: a) immigrati di origine francese; b) anziani del luogo, che lo hanno appreso empiricamente, e lo parlano con influssi intemeli; c) lavoratori frontalieri (per lo più meridionali), che lo hanno appreso anch’essi empiricamente, ma che lo parlano con influssi, ovviamente meridionali; d) studenti che lo hanno appreso a scuola.

PLURILINGUISMO

    Dal quadro sopra tracciato, emerge chiara la presenza di numerosi individui bilingui (ventimigliese-italiano; italiano-francese), o addirittura trilingui (ventimigliese-italiano-francese), che si trovano in una situazione evidentemente privilegiata, anche se si dice che il plurilinguismo è «antieconomico», richiedendo ovviamente più sforzo ricordare due o tre lingue che una sola.

    Questo sforzo è però ampiamente ripagato dalla possibilità di contatti di ordine economico (soprattutto per gli operai e i commercianti) e culturale (per tutti).

PROSPETTIVE

    Ma le prospettive che si aprono per questo plurilinguismo (così logico e, direi, indispensabile in una zona di confine) non sono eccessivamente rosée.

    Il ventimigliese va perdendo sempre più terreno, e rischia di scomparire, nonostante la sua strettissima affinità con le parlate d’oltre frontiera, a causa della massiccia invasione dell’italiano. Le iniziative finora prese per la sua difesa non sono purtroppo riuscite a conferirgli il prestigio che è necessario a qualunque lingua locale per tener testa alla lingua ufficiale.

    In effetti:

1) su tre giornali locali, uno non pubblica mai una riga in dialetto; un altro pubblica sporadicamente qualche composizione letteraria, e solo su questo foglio appaiono con regolarità articoli in ventimigliese a fianco di quelli in italiano;

2) non esistono trasmissioni radiotelevisive né insegnamenti ufficiali in ventimigliese;

3) esistono però una compagnia teatrale che recita esclusivamente in dialetto (mentre non ci sono compagnie stabili che recitino in italiano), e una corale a  repertorio misto;

4) Esistono anche un’antologia periodica che riunisce materiali letterari, linguistici e folcloristici intemeli, e alcuni ricercatori che stanno effettuando una esplorazione approfondita del campo.

    L’italiano, oltreché sul suo carattere di lingua ufficiale (e per ciò sull’insegnamento pubblico), può contare sulla stampa, sulla radio e su tre canali televisivi (Italia 1.o e 2.o, Monaco 2.o), ed è in continua espansione.

    Il francese riesce a resistere solo grazie all’enorme valore economico che rappresenta (si pensi, ripeto, agli operai che lavorano in Francia, e ai francesi che vengono a far spese in Italia; un mio amico, giunto a Ventimiglia un venerdì, giorno di mercato, rimase letteralmente stupefatto, sentendo parlare più francese che italiano). In effetti:

1) una certa diffusione ha la stampa francese, specie quella nizzarda;

2) si ricevono quattro canali televisivi in francese (Francia 1.o, 2.o e 3.o, Monaco 1.o), e varie trasmissioni radio;

3) in molte scuole il francese è insegnato come prima o seconda lingua straniera (estremamente ridicole, e indice del poco senso di molti ci sembrano le proteste di alcuni genitori, che preferirebbero che i loro figli studiassero l’inglese, perché più utile, in una zona che vive per gran parte sui rapporti con la Francia);

4) in alcuni uffici pubblici (poste, stazione ferroviaria, ecc.) i cartelli sono bilingui (italiano e francese), e, a volte gli avvisi vengono dati anche in francese.

CONCLUSIONI

    A causa di una serie di motivi (alcuni dei quali esposti più sopra), il plurilinguismo della zona ventimigliese subisce continui attacchi: in effetti, esistono già dei giovani che sanno parlare solo italiano. E fra questi giovani sono, è triste dirlo, molti che pretendono di rappresentare l’ambiente colto della città.

    È assolutamente necessario invece che il ventimigliese da una parte e il francese dall’altra rimangono o diventino patrimonio di tutti, per evitare, con la perdita del ventimigliese una banalizzazione culturale, cioè una perdita di identità a favore della massificazione, e, con la perdita del francese, il rinchiudersi in una visione scioccamente provinciale e inerte di zona di periferia, trascurata da Roma, e senza rapporti coi vicini.

    È estremamente interessante e coerente, a questo proposito, la lotta del giornale plurilingue ALPAZUR, di cui sono finora usciti alcuni numeri sperimentali.

                                                                                            da: LA VOCE INTEMELIA anno XXXII n. 3  - marzo 1978

 

 

La Legge Labriola e i dialetti

                                                                                                                                      di Renzo Villa - 1991

    Si suol dire che le democrazie sono lente ma che, quando si muovono, lo fanno a ragion veduta e nella direzione giusta. Non è questo certamente il caso della legge n. 612 sulla tutela delle minoranze linguistiche, più nota come legge Labriola, dal nome del primo firmatario, approvata dalla Camera dei deputati nel 1991.

    Una legge che ha dato finalmente attuazione all'art. 6 del dettato costituzionale: «La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche». Ciò dopo la bellezza di 44 anni (evviva la lentezza !), senza però tener conto che durante questo lunghissimo lasso di tempo la situazione linguistica in Italia si è talmente modificata da far apparire del tutto inadeguato il provvedimento legislativo, giunto così in ritardo.

    Infatti quando i Padri costituenti scrissero l'art. 6, a tutela delle minoranze linguistiche esistenti sul territorio nazionale, dimostrarono di non essere affatto dei profeti. Se lo fossero stati, avrebbero previsto che; nell'arco di mezzo secolo tutti i dialetti, chi più chi meno, sarebbero diventati a loro volta delle minoranze linguistiche e che quindi le «apposite norme» avrebbero dovuto riguardare anche le parlate regionali.

    Dato dunque per scontato che gli estensori della Costituzione non erano dotati di poteri divinatori, oggi come oggi non c'è bisogno di essere dei maghi per vaticinare che ad essere in pericolo non sono soltanto le 13 minoranze linguistiche ufficiali (provenzali, catalani, ladini, grecofoni ecc.) ma tutto l'immenso patrimonio dialettale del nostro paese.

    Fa sorridere il fatto che, di fronte alla gravità del problema nella nostra Provincia, ad esempio, godranno del diritto di tutela appena le parlate occitaniche di Olivetta e forse (ma la cosa è tuttora sub judice) quelle di Realdo e Verdeggia.

    Ancora una volta quindi la nostra classe politica non soltanto si è mossa con enorme ritardo, ma ha eluso il problema nella sua generalità, sorda agli appelli, alle sollecitazioni e ai «gridi di dolore» che, da decenni, si levano da ogni parte in favore dei dialetti.

    In quell’occasione qualcuno aveva autorevolmente proposto che, tanto per cominciare, nei moduli del censimento fosse riservata, fra le tante, anche una casella sull'uso della parlata dialettale. Un quesito che non sarebbe costato nulla inserire fra quelli ai quali i cittadini dovevano rispondere, ma che avrebbe permesso di avere finalmente dei dati statistici di prima mano, certi e ufficiali, sul numero dei parlanti il dialetto.

    Da questa mancata indagine a tappeto sulla fisionomia dell'Italia linguistica, si sarebbero finalmente potute prendere le mosse per affrontare il problema della salvaguardia dei dialetti.

 

    Entrando ora nel merito della legge Labriola, nei suoi 18 articoli si prevede, fra l'altro, l'insegnamento facoltativo delle lingue minoritarie a scuola, l'uso di esse in alcuni programmi regionali della RAI, la difesa della toponomastica locale, ecc.

    La legge - benché approvata a larga maggioranza - ha subito suscitato vivaci  polemiche e reazioni. C'è chi ha visto in questo tardivo e del tutto insufficiente provvedimento un serio pericolo per l'unità nazionale, oggi minacciata da ben altri e più gravi fattori, quali il malgoverno, lo sfascio delle istituzioni, la criminalità.

    Quanto all'insegnamento del dialetto a scuola, se è concesso portare un esempio locale, qui nella nostra Ventimiglia lo esperimento fu attuato con successo e soddisfazione negli Anni Settanta-Ottanta. L'entusiasmo di insegnanti, alunni e genitori permise di superare le non lievi difficoltà insite nell'iniziativa, svolta grazie al volontariato e in clima di ampia libertà.

    A conforto degli scettici e dei timorosi possiamo assicurare che l'insegnamento del dialetto non andò a detrimento di quello della lingua italiana e che nessuno ravvisò, nell'attività dei «Centri di cultura dialettale» delle scuole, alcun delitto di lesa maestà della lingua nazionale né alcun pericolo di «separatismo».

    Purtroppo, il dialetto a scuola - assieme alle altre forme di tutela - andrebbe istituzionalizzato e sorretto da idonei provvedimenti e strumenti che oggi non esistono e che ora la legge prevede soltanto per le minoranze linguistiche, fino a ieri «lingue tagliate» e da oggi in poi lingue privilegiate.

    Alla faccia della «pari dignità sociale ed uguaglianza dei cittadini (...) senza distinzione di lingua» solennemente sancite dall'articolo 3 della Costituzione repubblicana.

                                                                              LA VOCE INTEMELIA anno XLVI  n. 12 - dicembre 1991

 

 

ASSOCIATION LANGUES REGIONALES