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Bassa Val Nervia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

          Camporosso

Ritualità  ancestrali

SAN  BASTIAN

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            Dolceacqua 

                                                                             

Le processioni con l’alloro carico di finti frutti

 

 

PROCESSIONI  POPOLARI

                                                                                                                   di Luigino Maccario

    Le processioni dedicate a San Sebastiano, in Camporosso e Dolceacqua, durante il secondo conflitto mondiale si erano necessariamente celebrate in tono minore; ma a cominciare dagli Anni Cinquanta, sono tornate alla loro abituale solennità. Con la ripresa civile, che si andava verificando in quel dopoguerra, si riproponevano quale manifestazione popolare della tradizione, la più antica conosciuta in zona. Il rito è svolto nella terza settimana di gennaio.

    Dal 1980, la processione di San Sebastiano, a Dolceacqua e quella, non meno nota e forse più continuativa, a Camporosso, hanno ripreso tono, anche sotto l’aspetto laico-rappresentativo; mantenendo vive le confraternite dei “sebastianeti”, che col saio bianco ed il corto “tabarin” cremisi, assieme al popolo dei fedeli ed il clero, accompagnano un grande albero d’alloro decorato da centinaia di ostie policrome.1

    Sarà, in ogni caso, nei primi anni Ottanta che, a Dolceacqua, le decorative presenze delle Confraternite locali cominceranno a scambiarsi le visite, come in una sorta di gemellaggio, con quelle della vicina Francia e del Principato di Monaco; per poi allargare l’impegno con le Confraternite delle altre Province Liguri.

    In Camporosso, San Sebastiano fu dichiarato patrono del paese, anche dalle autorità laiche, nel 1852; fissandone la celebrazione il giorno 20 del mese di gennaio.

    Veniva però, da molti secoli, celebrata una solenne processione, come dedotto dagli archivi della Confraternita. Nel 1669, si trova segnata una spesa per l’acquisto di fiaccole per la processione, forse serale. Nel 1843, i massari spesero trenta lire, per i fuochi d’artificio, a completamento della festa.

    Le entrate della Confraternita provenivano, comunemente da elemosine, ma anche dai redditi di qualche terra che produceva grano, olio e fichi.2

    Nel 1661, fu eseguito un inventario degli scarsi beni della Confraternita, tanto che l’anno seguente, i massari provvidero all’acquisto di sei candelieri, quattro vasi da fiori, una croce ed una cornice, per la pergamena contenente la preghiera del Sacro Convivio.3

    Nel 1718, fu acquistata una nuova statua del Santo, trasportata da Genova a Ventimiglia, via mare. L’anno seguente si tenne conto di comprare, sempre a Genova, una cassa con le sue stanghe, per portare il Santo in processione, accessoriata d’uno sgabello per l’esposizione.

 

DEDICAZIONE DI CHIESETTE

    Sin dal XIII secolo, molti paesi della Liguria dedicarono una chiesetta a San Sebastiano, che allora era considerato protettore contro la diffusione della peste, protezione in seguito assegnata al trecentesco San Rocco.

    La pieve di San Sebastiano, come poi quella di San Rocco, veniva comunemente situata sulla strada d’accesso all’abitato. Mentre questo si realizzava a Dolceacqua, non risulta che sia avvenuto a Camporosso, dove a questo Santo fu dedicata una cappella, situata sul lato destro dell’altare maggiore, nella chiesa parrocchiale, appena costruita, verso l’anno 1510.

    Tenendo presente di come, soltanto con la spartizione dei confini, avvenuta in data 1870, la chiesa di San Rocco, in località Cabanette, passava nel territorio del Comune di Vallecrosia. Con molta facilità, l’antichissima chiesuola di confine, anteriormente al XIV secolo, data di glorificazione del beato Rocco, potrebbe esser stata dedicata a Sebastiano, considerando che, in una nicchia esterna all’abside, vi si conserva un cippo votivo dedicato ad Apollo, ravvisabile in Sebastiano.4

 

LA FESTA POPOLARE

    Da quando vige l’usanza per l’allestimento dell’albero da processione. Nella bassa Val Nervia, sono numerose le famiglie che curano la crescita di una pianta d’alloro, in un angolo del loro fondo, intervenendo con sapienti potature, nel corso di parecchi anni, con l’intento che venga scelga per essere immessa nella processione di gennaio.

    Nei giorni precedenti la festa, i “sebastianeti” provvedono a tagliare e rendere armonico, il grosso arbusto scelto, avanti di adornarne ogni fronda con numerose “papéte”, o “négie”, ostie variopinte preparate nel corso di lunghe veglie notturne, nei mesi precedenti.5

    Per integrare le imperfezioni nella sagoma della chioma, esperti artigiani integrano artificialmente i vuoti tra i rami autentici con fronde ricuperate da altre piante, operando veri e propri intarsi nel tronco originale e sostenendo i “riporti” con appositi tiranti. Un lavoro paziente e ponderato, frutto di annose esperienze.

    Durante la processione l’albero è portato, non senza fatica, da robusti giovani, davanti all’effigie statuaria del Santo, condotta dai confratelli indossanti l’antico “tabarin”.

    Al termine della funzione religiosa, i rami vengono recisi ed offerti, carichi delle loro ostie, a ciascuno dei presenti, che conserverà con particolare cura il gradito feticcio, ottenuto in cambio di una donazione spontanea. Per tradizione, la cima svettante, opportunamente segnata nell’addobbo, col colore uniforme delle “papette”, viene consegnata al donatore della pianta.

    Il rito, così come è oggi tramandato, può essere riferito al martirio del Santo, secondo la tradizione ambrosiana. L’alloro sarebbe 1’albero dove fu legato per essere bersaglio delle frecce degli aguzzini, mentre le ostie starebbero a ricordare l’intervento di un angelo che portò al martire, in cella, la comunione.

    Tradizioni similari, oltre che a Dolceacqua e San Biagio, dove sono state riprese di recente, dopo anni d’oblio, ricorrono in alcune località della Lombardia, durante la festività della Pentecoste o in occasione della ricorrenza del Santo patrono, quando viene sistemato sul campanile un albero adorno di “nebule”, dette anche “pampare”, identiche a quelle usate a Camporosso e Dolceacqua.6

NOTE:

 1) Sul suo glossario il Rossi descrive l’usanza, legata al rito ambrosiano, propria della chiesa milanese e della nostra diocesi, che da quella metropolitana rilevava, partendo da un documento del 1417, pubblicato da Luigi Barbieri: - .... a Parma la vigilia di Pentecoste, ai primi vespri si tirava in alto sino a mezzo della cupola nel duomo “un albero tutto vestito e fiorito di nevole, che doveva restare sospeso per tutta l’ottava”, poi la mattina della festa, a un dato punto della messa pontificata, da deto albero si faceva spiccare il volo ad una colomba verso il popolo; con colombe volanti, con piogge di rose, di gigli e con nevole si soleva rappresentare il mistero del divino Paracleto e dei suoi carismi. Di questa antica usanza, in un remoto angolo della nostra diocesi, cioè nei comuni di Camporosso e Dolceacqua, resta sempre in vigore la costumanza di scegliere per la festa del patrono San Sebastiano, un albero di alloro e di appendervi larghe cialde di diversi colori, dette papette e di tenere collocato detto albero nel Sancta Sanctorum ben ben otto giorni, chiudendosi l’ottavario colla distribuzione ai fedeli di questi rotondi e variopinti fogli di pane azzimo che, benedetti, sono tenuti come reliquie nelle famiglie. A complemento di questo, dirò che il Vigna segna nelle spese occorse “pro incenso et murta et lauro pro quinque e quindi ricorda “una columbeta de argento deaurato”; chiarissima riprova questa, che l’albero de’alloro, il mirto e la colomba venivano richiesti alle cinque feste principali dell’anno.

 2) Come nel 1843, quando veniva segnato un introito di 13 lire, ricavate con la cessione di un rubo e 21 libbre di olio, pari a circa 14 chili. Tra i redditi più antichi, nel 1662, sono segnati anche sconosciuti “sossoli”.

 3) Nel 1688, provvidero al restauro della statua del Santo e nel 1696, presero a adornare di stucchi la cappella, della parrocchiale. Con l’anno 1704, si legge l’acquisto di preziosi fiori di metallo, artisticamente lavorato, più sei candelabri d’argento, comprati a Genova.

 4) Nella mitologia greca e romana, l’essenza arborea del lauro era, appunto, consacrata ad Apollo o Ermes, sovrapponibile certamente, dal mito cristiano di Sebastiano, tutore della medesima pianta od arboscello.

 5) L’occasione di incontro serale, per il lavoro in compagnia, era da considerarsi nella consuetudine della “veglia”, usate dalla comunità per facilitare gli incontri fra giovani. La veglia dei sebastianeti vedeva riuniti vecchi e giovani e dava a coloro che non erano ancora sposati la possibilità di frequentarsi, sotto sorveglianza.

 6) Il nostro territorio è stato legato per secoli ad una convivenza arcidiocesana comune, con la Lombardia, vissuta dagli albori del cristianesimo. Soltanto il 9 aprile dell’anno 1806, papa Pio VII, staccava la Diocesi di Ventimiglia dalla metropolitana di Milano, per rimetterla all’Arcidiocesi di Aix in Provenza ed il 30 maggio 1818. Lo stesso Pio VII°, pochi anni dopo, prelevava la cattedrale ventimigliese, dall’arcivescovo di Aix, rendendola suffraganea dell’Arcidiocesi di Genova.

 

RITI ANCESTRALI

NEL CALENDARIO AGRESTE

       Le processioni in onore di San Sebastiano, indette dalle popolazioni di Camporosso e Dolceacqua, in Bassa Val Nervia, si svolgono attorno al giorno venti di gennaio, nel pomeriggio, in considerazione del fatto che le ore di sole, che erano state così ridotte in dicembre, dopo il Solstizio hanno concesso alle giornate di allungarsi, tanto da accordare la certezza che l’astro tutore della nostra vita stia lentamente, ma decisamente, riguadagnando la via per lo zenith, onde riportarci una prossima primavera, che in questi giorni manda i primi segnali di apparenza.1

      Sarebbe stato appunto per invitare a rendere concreti questi segnali, che i nostri antichi antenati seguivano in sfilata quel simulacro d’albero colmo di frutti, attraverso i campi della comunità, per richiamare lo spirito della vegetazione all’atteso risveglio, con lo scadere dei mesi freddi, durante i quali la natura era parsa addormentata.

      Attorno alla metà di gennaio, è in pieno corso la fase lunare anomala, non controllabile con i segni delle stelle, che per l’uomo antico assumeva caratteri di instabilità sacrale per la comunità ed era quindi scongiurata, anche con questi riti propiziatori.

      Queste cerimonie prendevano corpo al prospettarsi della “tredicesima lunazione” e duravano fino al termine dell’Inverno, con il verificarsi dei primi segni del ciclo germinativo. L’uomo credeva che la natura germogliante segnalasse l’avvenuto passaggio indenne, dalla malattia del tredicesimo mese lunare, nei confronti dei regolari mesi solari.2

     Negli ultimi quindici giorni di gennaio, ancora prima dell’avvento di Roma, i Latini celebravano le “Ferie sementine”, durante le quali si procedeva alla lustrazione dei campi e si offriva a Cerere e a Terra una pozione di latte e mosto cotto, detta burranica, sacrificando loro una scrofa gravida, accompagnata dalla usuale offerta di farro, mentre le giovenche, adoperate nei lavori dei campi, venivano inghirlandate di fiori e lasciate a riposo.

      Nell’impianto dei riti propiziatori di questo periodo dell’anno, in febbraio le antiche popolazioni italiche, celebravano le Terminalia, cerimonie dedicate ai confini. Si radunavano presso il cippo che delimitava i confini di due o più territori, portando una corona d’alloro, ma anche ogni sorta di cibi e leccornie da dividere con gli abitanti delle terre vicine, in una sorta di festa.3

      Anche le popolazioni celto-liguri, ancora più anticamente, provvedevano alla purificazione dei campi, celebrando “Imbolc”, festa lustrale del primo febbraio e con questa la fine dell’inverno. Tale festività, cristianizzata a beneficio di Santa Brigitta, è stata ben presto attribuita alla Santa Vergine, con la Candelora.4

     Tra gli antichi costumi, che mostrano una qualche affinità al rito in Bassa Val Nervia, emergono ritualità elleniche legate alla natura che i Massalioti, provenienti da Focea, avrebbero potuto trasferire dalla Grecia in Provenza. Tra queste sussiste la festa delle Pianepsie, che conosciamo per la descrizione che riguardava l’antica Atene.5

       Nel corso delle Pianepsie si recava in processione lo “eiresione”, ramo d’ulivo o di lauro guarnito di dolci frutti, con nastri di lana e vasetti d’olio e di vino. Il rametto restava appeso sugli usci in segno di fertilità e di tutela: quale ramo d’implorazione. Questo avveniva nel periodo che per noi sarebbe metà ottobre, mentre in altro periodo dell’anno, metà maggio, erano celebrate le Targelie, dove il rametto conservato dello “eiresione” veniva riportato in piazza e per meritarne le benedizioni in esso contenute, si cacciavano dalla città in espiazione due esseri immondi, ai quali erano appese al collo collane di fichi secchi, ed inoltre gli si percuoteva il grembo con cipolle. Erano esseri sacri, per il loro orrore, forse in tempi remotissimi anche per le rispettive conseguenze sacrificali. Infine venivano arsi gli eiresioni dell’anno prima, convertiti in cenere salsa: simbolo di purezza e sapienza.

NOTE:

 1) A proposito dell’andatura che muove il sole nel suo positivo cammino verso lo zenith, si dice: “A Pasca Pifània a giurnà a gh’agàgna, a San Bastiàn, a va’ a pàssu de can, â Candereira a camina pe’ valun e pe’ riveira”; marcando il dinamico progredire delle ore di luce, in stagione tanto buia.

 2) La Luna impiega 354 giorni a portare a termine un ciclo annuale, invece dei 365 giorni impiegati dal sole; quindi, le lunazioni seguono all’incirca il ritmo dei mesi solari, però il tredicesimo mese lunare inizia andandosi a scontrare con il terminare dell’anno solare, senza poter concludere il ciclo. Questa disparità è stata giudicata portatrice di sventure, che richiedeva riti propiziatori. La maggior parte di questi riti si sono risolti, poi, nel Carnevale.

 3) Questo tipo di antica ritualità, potrebbe dar significato allo svolgersi di processioni che hanno come simbolo la pianta d’alloro, sia a Camporosso che a Dolceacqua, anche se oggi le due comunità cominciano appena ad attivare un moderno scambio più cibi e leccornie, nell’occasione. Speriamo bene. San Sebastiano è patrono di Caporosso, mentre il patrono di Dolceacqua è Sant’Antonio.

 4) Anche la festa di Sant’Antonio, è connessa alla ritualità di questo periodo. Quando le reliquie del patriarca del monachesimo Santo, vennero traslate in Francia, hanno ricevuto gli attributi dedicati alla divinità celtica Lug, che intendeva alla pratica della natura. La patrona del Principato di Monaco è Santa Devota, che l’agiografia locale dipinge come una martire nordafricana, giunta via mare, portata da una barca alla deriva. Viene festeggiata il 27 di gennaio, nel contesto di riti espiativi, alla ricerca dell’equilibrio naturale.

 5) Il toponimo Cradausina, assegnato al vallone che dalle pendici del Col de la Guerre raggiunge il mare nella rada di Monaco, quello che oggi è conosciuto come “u valun de Santa Devota”, deriverebbe il nome dall’antico termine greco “kradé”, definente quel venerando ramo di fico che era dislocato in processione, durante le cerimonie espiatorie d’una comunità. Presso gli antichi Greci, quegli stessi che hanno fondato il primitivo Portus Hercules Monœci, tali solennità erano le “cradefòrie”, svolte anch’esse in ricordo di un furto, come per le reliquie di Santa Devota. In quel caso si trattava dell’asporto di vasi sacri perpetrato da Farmaco, dal cui nome sarebbero state chiamate «pharmakoi» le vittime espiatorie cerimoniali.

 

 

SAN  SEBASTIANO

mito e mistica

    Il nome Sebastiano deriva dal latino “Sebastianus” e significa “augusto, illustre”. Viene usato anche nella forma troncata di Bastiano. La commemorazione più seguita, nell’Italia nord occidentale, è quella del 20 gennaio, in ricordo di San Sebastiano, nativo della Lombardia e martire a Roma, nell’anno 288 dell’Era Volgare.

    Protettore dei tappezzieri, dei vigili urbani, delle città di Assolo, di Avella e della grande Roma. La Chiesa di oggi lo invoca contro la poliomielite e la guerra.

    Sempre con questo nome, sovente confondendone le personalità, viene anche venerato un presunto legionario romano, martirizzato nei pressi di Fossano, in compagnia di Sant’Alverio, il 26 gennaio, sotto l’impero di Diocleziano.

    Per una serie di tarde leggende greco-latine, sarebbe nato a Narbona da madre milanese, sposata ad un funzionario nella Gallia meridionale.

    La confusione mistica medioevale lo accomuna ai martiri della “angelica legio”, quella Legione Tebana della quale, faceva parte anche San Secondo, il protettore della Diocesi ventimigliese, assieme a numerosissimi altri martiri, venerati in Piemonte, Liguria e Lombardia.1

 

PROCESSIONI PROVENZALI

    Ben sapendo che oggi, per la Liguria di ponente, la coreografia delle processioni popolari, si è inevitabilmente uniformata al modello della tradizione generale centro-italica; le radici di un rito così particolare vanno ricercate nel Medioevo, quando invece la coreografia sacra è stata assai più vicina alla tradizione provenzale.

    Per meglio dire: - sia l’arcidiocesi milanese, sia la confinante arcidiocesi viennese, sentivano l’influenza alpina e provenzale nei riti, così come la Provenza sentiva, a sua volta, l’influenza iberica 2 e gallica, che stemperava a vantaggio delle regioni limitrofe. –

    La presenza del grande albero d’alloro, nelle processioni ponentine, è certamente residuo della tradizione legata ai cicli del lavoro nei campi; tanto quanto la maestosità dell’albero, si innesta certamente in quello che ci hanno tramandato i culti celto-provenzali, in epoca medievale.3

    Dal nord della Francia, come dalla Catalogna, giungevano verso la Provenza i riti legati ai giganti ed ai mostri da processione. In quei paesi, ogni Santo, ogni occasione processionale era esternata con la sfilata di macchine gigantesche, o di figure ingigantite, come in qualche caso avviene ancor oggi.

                             La Tarasca                                                   Il carro della Tarasca condotto in processione a Tarascona

    In Provenza, si può ricordare il maestoso San Cristoforo della tradizione, nei Giochi del Corpus Domini, ad Aix; come la Tarasca, animale leggendario, di cui Tarascona portava in giro l’enorme simulacro. A Tolone e Draguignan, uscivano in processione gli “chevaux frus”, poderosi travestimenti equini, assai diffusi nel folclore europeo.

    Una lista minuziosa fa’ apparire, in processione, draghi o serpenti giganti quasi in ogni città o luogo celebre: a Sainte-Baume, a Cavaillon, alla fontana di Vaucluse, ad Avignone e nell’isola di Lérin.4 

                             Narbonne                                                                          Isola di Saint Honorat nelle Lerino

I DRAGHI GIGANTESCHI

    Tali draghi, di fatto, hanno una duplice origine. Taluni provengono da leggende agiografiche e sono legati ad un Santo, sovente un vescovo od un abate e questi Santi risalgono all’alto Medioevo. è il caso del drago nell’isola di Lérin.

    Ma molti di questi draghi processionali devono la vita solo alle uscite nei cortei delle Rogazioni, in cui avevano un posto ufficiale. I più celebri però, sembrano esser quelli che siano tradizionalmente legati alla leggenda di un Santo locale.

    Questi hanno potuto introdursi nelle processioni per le Rogazioni sotto il patronato del Santo e con un’individualità spiccata, talvolta rilevata da un nome proprio, o un soprannome.

    è indubbio, che questi draghi processionali si integrano nei riti folclorici. Le offerte in natura che essi sollecitano sia a loro beneficio, sia per gli organizzatori o per gli attori delle processioni, sono riti propiziatori legati alle cerimonie che, fin dall’antichità, erano destinate ad invocare il favore delle potenze della fecondità.

    Le processioni delle Rogazioni sono state istituite nell’anno 469, da Mamerto, vescovo di Vienne, morto attorno al 470 ed hanno conosciuto una rapida diffusione, come ne testimonia Sant’Avito, anch’egli vescovo di Vienne tra il 494 ed il 518.

    Taluni hanno sostenuto che queste feste cristiane erano destinate a sostituire le “ambarvalia” gallo-romane, dalle quali avevano attinti numerosi riti fra i quali quello dei travestimenti animali.5

    Certamente deriva dal folclore iberico-provenzale la maschera processionale, trasformata, durante il cinquecento, nel cappuccio conico, vestito dalle Confraternite della Pietà, che aveva l’intenzione di nascondere l’identità, nell’intento di esternare una perfetta uguaglianza di doveri tra i membri.6

 

SAN CRISTOFORO

    è soprattutto la figura di San Cristoforo, ad essere affine alle processioni in Val Nervia. Nel medioevo, in Provenza, San Cristoforo occupava un posto non minore di quello che gli si attribuisce altrove: a volte lo si scopre, di dimensioni gigantesche, sotto gli affreschi del XV secolo, come nel Var,  sotto il portico  della cappelletta  campestre di Benva.7 Il Rossi, nella sua “Storia”, ci informa che anche a Ventimiglia, un gigantesco Cristoforo era dipinto sulla parete d’una casa, nel quartiere del Lago, a beneficio dei viandanti.8

    Anche la chiesetta, posta sulla displuviale della collina detta: Maure, oggi dedicata a San Giacomo; era un tempo, aperta al culto di San Cristoforo, che dava il nome alla medesima, intera collina, ancora nel 1498.

    Nelle feste provenzali, per le quali la tradizione attribuiva il merito a re Renato d’Angiò, era in auge la sfilata degli ordini e delle corporazioni, che procedevano in quadrate, secondo l’importanza ed ognuna, preceduta dall’effigie del Santo protettore.

 

             San Cristoforo, affresco a Camogli                         San Cristoforo nella chiesa di San Michele

                                                                                                        parzialmente murato

 

L’ORDINE NELLA SFILATA

    Della processione di Pentecoste, in Tarascona, ci è tramandato l’ordine di sfilata, secondo l’importanza delle associazioni professionali. Per primi sfilavano i facchini, preceduti dal loro possente San Cristoforo, che veniva così ad aprire la processione, nel clima, piuttosto aggressivo, creato dai protetti, verso il pubblico che assisteva, lungo la via.

    Seguivano: i contadini, i pastori, i giardinieri, i mugnai ed i balestrieri; poi gli agricoltori ricchi, che assumevano il ruolo delle guardie a cavallo ed infine i borghesi, riuniti nella confraternita di San Sebastiano, che precedevano il clero.

    Nella seconda uscita, del 29 di luglio, la processione era docilmente guidata da una fanciulla, che rappresentava Santa Marta. Anche a Marsiglia, nella processione per Santa Marta erano presenti San Cristoforo e San Sebastiano, con ruoli altrettanto indicativi.9

 

    Nell’evoluzione quattro e cinquecentesca della festa, San Cristoforo era volutamente diminuito d’importanza, fino a dare sopravvento al Santo protettore  della  borghesia  ascendente,  il  nostro  San  Sebastiano, appunto.10

    Questo Santo, sulla grande “macchina” che lo rappresentava, proponeva il tronco dell’albero d’alloro, dove la tradizione vuole fosse legato, per il supplizio, ad opera di arcieri e balestrieri, la confraternita dei quali perdeva, in quegli anni, sempre più d’importanza.

    Intanto si faceva largo l’iconografia che dava il simbolo della peste, allora diffusissima, alle frecce martirizzanti Sebastiano, attribuendogli il ruolo di Santo protettore dal temuto contagio.

 

LE BASI DELLE PROCESSIONI IN VAL NERVIA

    Anche sul nostro territorio San Cristoforo perdeva d’importanza; nel 1652, troviamo la chiesetta sulla displuviale Seborrino-Resentello, esser già intitolata a San Giacomo, mentre la collina, prima dedicata al Santo gigante, veniva nuovamente ricordata come Maure, sarà forse per indicarne il vistoso risalto di roccia, non certo , come si dice, a memoria di suoi trascorsi saraceni.

    I secoli XVII e XVIII sono anche quelli per i quali è presente la primitiva documentazione del culto a San Sebastiano, così come oggi è elaborato, dal popolo, col beneplacito cattolico.

    Che l’evoluzione dei giganti da processione con le conseguenti macchine, si sia verificata anche sul nostro territorio, è documentato sia dal folclore provenzale; che dalle tradizioni piemontesi e lombarde.

    Infatti, su tutto il territorio italico Nord-occidentale le gigantesche macchine da processione si sono evolute negli artistici gruppi lignei, sovente rappresentativi della Via Crucis, opera di rinomati artisti del settore, quali il ligure Maragliano.

    I giganti, i travestimenti e gli eventuali draghi sono mutati in figure di corpulenti soldati o cavalieri, come di grandi vescovi. Si sono create le Confraternite incappucciate ed hanno trovato inserimento i giganteschi crocifissi filigranati della tradizione ligure levantina.

    Da questa variazione apprendiamo che la deambulazione della pianta d’alloro, anche se retaggio di una antica religiosità, avrebbe trovato la sua affermazione folcloristica, proprio sul nascere dell’evo moderno, ripescata da un’antica memoria popolare, certamente indelebile lungo il procedere di numerosissime generazioni.

    Avrebbe potuto rappresentare la sostituzione delle gigantesche sembianze di un San Cristoforo in crisi d’importanza, in abbinamento con il dirompente San Sebastiano.

    Fin dal secolo scorso, le confraternite prevedevano altre rappresentatività e distinti ruoli; mentre gli stessi Santi protettori assumevano ritualità conseguenti.

    Sono gli appuntamenti calendariali a restare immutati nella tradizione popolare, a testimonianza di un passato che assume tutto lo spessore del sedimento folcloristico, oltre a quello più prettamente religioso.

 

NOTE:

  1) Vittore nella Val Baltea, Besso ad Ivrea, Gervasio e Sicario in Val Susa, Giusto e Flaviano nel Pinerolese, Teodoro nel Monferrato e Maurizio con il culto più antico d’ogni altro, divenne persino patrono della Casa regnate italiana. Poi ancora: Valeriano, Tegolo, Marchese, Candido, Esuperio, Pancrazio, Orso, Innocenzo, Esuperio, Saturnino, Crispino, Mauro, Eusebio, Quinto, Ottavio, Dalmazzo, Solutore, Avventore, Vitale e così via, elencati da diversi agiografi, a cominciare dal vescovo Teodoro, che scoperse il luogo di sepoltura ad Octodurus. sul Rodano, intorno al 380 dell’Era volgare, per continuare con Eucherio, vescovo di Lione, Avito, vescovo di Vienne. e terminare con Ennodio, vescovo di Pavia.

  2) Anche l’Italia del Sud ha risentito dell’influenza ispana, nei riti religiosi, ma in modo più diretto, a causa della lunga dominazione aragonese di quelle terre. Infatti, molte delle tradizioni sicule e calabresi, ma soprattutto sarde, contengono le stesse caratteristiche di base di quei riti che in Provenza trovano già stemperati molti degli antichi caratteri contenuti.

  3) Il vezzo tutto maschile di dimostrare forza ed abilità, nel corso di riti folcloristici, sia a sfondo laico, sia religioso, ci è tramandato dalle processioni coi crocifissi filigranati del genovesato, dalla Corsa dei Ceri di Gubbio, come dalle varie, gigantesche macchine siciliane, per Santa Rosalia. Ma nel nostro caso dovrebbe derivare dai più aderenti giganti provenzali.

  4) In questo elenco si potrebbero annoverare le barche processionali della Provenza costiera, da Mentone a Fréjus, passando per Monaco, Antibes, Nizza e Saint-Tropez, coi loro draghi marini e pesci giganteschi.

  5) Le Rogazioni, per il mondo cattolico, hanno sostituito le lustrazioni di primavera, ai quattro punti cardinali; rito di espiazione sacro a Cerere, per invocare l’abbondanza dei raccolti. Tale funzione si chiamava “Ambarvale” e consisteva nel fare un lungo giro attorno ai campi, guidati dall’Arvale. Si doveva essere coronati di foglie di quercia, trascinandosi dietro un toro, una pecora, un porco; offerte destinate ad essere sacrificate a divinità diverse. Erano le dedicate a Mars pater, Giano e Giove. Quindi si danzava si cantavano inni a Cerere, si faceva baldoria per tutta la giornata in onore agli dei campestri e per placare le forze avverse, in altre parole “piaculare”. Nelle Rogazioni le bestie sacrificali verranno sostituite dalle maschere. Gli Statuti medievali di Carrodano, nello spezzino, ci tramandavano certe processioni lustrali, chiamate “létanìe”, precedute da un verde dragone, con le fauci accese e fumanti, inalberato su una pertica e retto da un portatore in casacca altrettanto verde, chiamato “ramarro”. Queste “rogazioni minori” duravano tre o quattro giorni, accompagnate dal popolo urlante e schiamazzante, che percorrendo le campagne credeva di mettere in fuga gli spiriti maligni.

  6) Anche i bimbi travestiti da angioletti e le cappe color pastello delle ottocentesche “Pie Dame” e delle “Figlie di Maria”, corredate di appositi scapolari, sono stati retaggi dei costumi folcloristici, presenti nelle processioni quattro-cinquecentesche di tradizione provenzale-ambrosiana, recuperati con inventiva e passione teatrale dai Gesuiti, del Seicento.

  7) “Benva” è un toponimo con significato italianeggiante, vale a dire - ben va’: vai bene lungo la tua strada.

  8) Fra le superstiziose credenze medievali vi era quella che bastava aver visto San Cristoforo dalle gigantesche dimensioni, dipinto sulla porta sinistra della chiesa, per aver augurio di buon viaggio. Una monumentale figura, alta dodici metri, dipinta su una roccia alpina in Carinzia è significativa della ritualità riservata al viandante. Costui, guardandola, trae beneficio per il proseguimento del viaggio. Nel suo glossario il Rossi dice: - Dal suo nome si intitolava un borgo, in Genova; in Ventimiglia un monte; a Milano una chiesa; di una chiesuola a lui dedicata in Lerici, parla il Remondini; l’Alizieri segna che in Savona era rappresentato fuori la chiesa di San Martino; a Pigna lo si vedeva sulla facciata di San Tommaso; a Taggia sopra l’edicola del Colletto, nella Val Barbaira presso Rocchetta eravi una chiesuola ora distrutta; nel 1504, il vescovo Vaccari accordava indulgenze a chi avesse visitato la chiesa di San Cristoforo a Sospello. Vercelli, più avventurata di tutte, teneva in venerazione fra le più insigni reliquie un dente del Santo, di smisurata grandezza. La sua festa si celebrava il giorno 25 di luglio e coincideva perciò con quella di San Giacomo e fra i giorni feriali nella Curia genovese si trova quello beatorum Jacobi et Christophori. Una avvertenza da notare si è che svanendo il culto, si dimenticò il nome del Santo e tanto a Monte San Savino, quanto a Ventimiglia le chiese già intitolate ai Santi Jacopo e Cristoforo non sono più conosciute che con quella di San Giacomo. - Una grande figure del Santo era dipinta anche sulla chiesetta ai piedi del Colle di Tenda, poco prima di Vievola.

  9) Nella tradizione ligure, San Cristoforo, annoverato fra i quattordici santi ausiliatori, invocati tutti assieme nei momenti di gravi calamità naturali, ebbe la funzione specifica di difendere dalla peste, prima di venire affiancato e superato da San Sebastiano, a sua volta superato da San Rocco, dopo il Seicento.

10) L’iconografia dedicata a Cristoforo era troppo simile all’immagine di Eracle che portava Eros su una spalla; immagine molto diffusa nel mondo ellenistico. Secondo un tipico procedimento del cristianesimo trionfante, il mito greco venne interpretato come un’allegoria cristiana, mentre i risvegli classicisti del Cinquecento ponevano troppi interrogativi sulla similitudine dello stesso mito.

 

    Questa ricerca è stata impostata a sostegno d’una serie di diapositive che documentano le processioni per San Bastian a Dolceacqua e Camporosso, da me scattate, rispettivamente nel 1980 e 1981. In seguito la serie di diapositive è stata integrata da qualche immagine a supporto della ricerca stessa.

 

ANTICO SAN BASTIAN A ISOLABONA