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PAN,  CUMPANÀIGU  E  CUMPANEGASSE

                                                                                                                 Renzo Villa – 1991

       Qualche lettore vuol saperne di più sulla questione del pane e del companatico, alla quale accennavo sul numero di Aprile della «Voce», nell’articolo dedicato al ricordo dei miei genitori. Con piacere possiamo ritornare sull’argomento, anche perché in merito ci sono molte cose da dire, una vera e propria «letteratura».

       Cominciamo dal pane, nutrimento base nell’alimentazione di un tempo, notoriamente povera, nella quale esso rappresentava già una fortuna o una «grazia» quotidiana, come si ricorda addirittura nel «Padrenostro». E, del resto, pensiamo che cosa significhi, anche ai nostri giorni, il pane per le popolazioni affamate del terzo mondo.

       Una volta, quando anche noi facevamo parte di questo «continente della fame», qui si diceva: longu cume in giurnu ch’amanca u pan, segno evidente che in casa non c’era altro con cui sfamarsi.

       Significativo, in proposito, l’aneddoto che si racconta della regina Maria Antonietta di Francia la quale, a chi le diceva:«Maestà, il popolo non ha pane» rispondeva: «Che mangino delle brioches !». Già ... le brioches !

       Per la sua importanza vitale il pane entrava di prepotenza nel linguaggio popolare: mete a pan, dare un lavoro a qualcuno; agagnasse u pan, guadagnarsi da vivere (cfr. il francese gagner son pain); perde u pan, perdere il posto di lavoro; gagnapan, persona che mantiene la famiglia o anche mestiere che permette di vivere, mentre il mangiapan a tradimentu è il fannullone che si fa mantenere dagli altri. Si veda pure lo spagnolo ganapan, persona che accetta qualunque lavoro, dal più umile al più pesante, pur di sopravvivere.

Ancora qualche detto, per finire. U pan d’u patrun u l’à séte cruste, il pane guadagnato alle dipendenze altrui è sempre sudato, e u pan rutu u l’è ciü bon, una regola gastronomica d’altri tempi secondo la quale il pane spezzato a tavola con le mani è migliore di quello tagliato col coltello. Provare per credere ...

       Passiamo ora al cumpanàigu il companatico, parola di origine medievale che l’odierna civiltà dei consumi ha ormai cancellato dal nostro lessico. Girolamo Rossi la riporta del suo «Glossario» come «Companagium, prodotto dell’industria del latte, lavorato dai pastori nelle loro celle», dal che si potrebbe dedurre che il companatico per eccellenza fosse il formaggio.

       Per il Casaccia, autore nell’Ottocento del Dizionario genovese, il companaego sono tutte quelle cose che si mangiano col pane, al contrario di quanto troviamo nel «Glossarium» del Du Cange dove si riporta un’antica ed esclusiva definizione in lingua italiana che suona così:«Companatico dicono, cioè ogni cosa da mangiare, tòltone il pane».

       E col cumpanàigu ecco subito pronto il verbo cumpanegà / cumpanegasse, mangiare le vivande (pitanse, in dialetto) con il pane, o il pane con le vivande, se si preferisce, ma sempre facendo ben attenzione che i due tipi di cibo, durante il pasto, vadano - diciamo così - di pari passo.

       Come, per l’appunto, ben precisa Mistral nel «Tresor dòu Felibrige», alla voce se coumpaneja «Manger sa pitanse avec beaucoup de pain, pour la faire durer». Infatti, proprio qui sta il punto: poiché il pane, bene o male, c’era ed era sempre più abbondante (si fa per dire) delle altre vivande, bisognava cercare di mangiare più pane che altro.

       Non fare, cioè, come quella sposa piemontese che al pranzo di nozze si voleva concedere il lusso (almeno quel giorno !) di non mangiarne, beccandosi il rimbrotto della suocera: «Spusa mangi ‘d pan !» al che essa rispondeva spiritosamente; «Oh, l’è già tròp bon parej !» (oh, grazie, il pranzo è già abbastanza buono così, senza bisogno di pane !).

       E qui da noi, ai bambini che disdegnavano il pane si diceva sarcasticamente:«E za’, u nu’ ne mangia perché int’u pan gh’è tropa farina !». Ma il concetto di cumpanegasse era così vivo e sentito che il significato di questo verbo aveva travalicato i confini alimentari per passare a regole di vita riguardanti la saggia amministrazione delle proprie sostanze, in altre parole a rapportare sempre le spese alle disponibilità economiche.

       Ciò perché non capitasse come ad un certo proverbiale Mestre Dansa, che u pan u gh’amanca e a vita a gh’avansa. Un personaggio di cui ho sentito molto parlare nel mio ambito familiare e che, economicamente parlando, aveva dato fondo non soltanto al cumpanàigu ma altresì al pane e al quale, poveretto, era rimasta - ultima disperata risorsa - soltanto la nuda vita.

                                                                                   LA VOCE INTEMELIA Anno XLVI  N. 6 - giugno 1991

 

 

GRISSE

                                                                                       Ovidio Bosio - 2009

       Già, tornare indietro. Quanto si darebbe per poter tornare indietro, e ritrovare quella parte di noi che ai nostri occhi è la migliore.

    Ogni tanto si ripescano i pezzi di qualità dei nostri ieri, legati ai ricordi. Uno non vede l’ora di sprofondare di nuovo e per sempre nell’adolescenza. Anche un pezzo di pane racconta qualcosa di tè, la tua storia, un momento particolare, un si, un no, il passato ed il futuro, e allora ... giochi al gioco del “c’era una volta”, che dopo una certa età comincia a venir bene, proprio mentre i neuroni cominciano ad andare in pensione, e ti lasci catturare dal potere evocativo delle cose umili e semplici.

       Il pane emette messaggi subliminali che rimandano agli odori e sapori del tuo tempo. Il pane. Si andava a comprarlo nella solita panetteria, la stessa che lo cuoceva, il più delle volte la più vicina a casa. Allora quando entravi in un negozio per la prima volta venivi salutato come un amico. Quando entravi per la seconda volta eri già un cliente abituale e questo ti rendeva ancora più meritevole di rispetto e cortesia. Gentilezza non fa rima con insicurezza, anzi. Si può essere aggraziati e contemporaneamente autorevoli.

       Questo accadeva in tempi remoti, addirittura nel secolo scorso, un’epoca in cui c’era già la corrente elettrica, ma non si viveva di lusso smargiasso.

       Se poi andavi ad abitare in un’altra zona settimana dopo settimana si creava con il panettiere quella consuetudine per cui quando il cliente mette piede nel negozio si sa già che cosa vuole. «Il solito ?», «Il solito, grazie».

       E tra il solito c’erano le “grisse”. È ancora possibile trovare le “grisse” ?  Trovi il toscano, quello di Altamura, le tartarughe, il coccodrillo, le bambole, le Lollobrigida, le manine, persino quello aleuronico, quelli che danno energia al sistema metabolico favorendo la funzionalità degli organi e la rigenerazione cellulare. Forme tonde s’intrecciano a formare petali di un fiore. Alcuni promettono una terapia nutrizionale anticellulite, contro l’eccesso di peso e i cuscinetti a buccia d’arancia, preparati con metodologie alchemiche. Più che in panetteria pare di essere in farmacia.

       Ma le “grisse” ?  Quelle vere ?  Non buone, buonissime, anzi ottime, ben cotte, croccanti fuori e morbide dentro, una vera delizia. Che c’era di meglio di un “grissa” infarinata, ancora tiepida, imbottita di pomodoro, profumata di basilico, aglio, ferügura, con l’olio che, sotto la pressione delle dita, si liberava colandoti lungo le mani ?  Un inno alla natura.

       Oggi cambiano le forme che, più che il palato, appagano la vista e la forma delle bocche, comprese quelle dalle labbra piene di silicone. Tale varietà di offerte scatena il desiderio delle donne dal palato difficile inducendo i panificatori a sfrenare la loro creatività per conquistare le clienti che non hanno più voglia di niente.

       In tempo di guerra il pane integrale, marrone, scuro, a fette, acidulo, che mangiavano le truppe tedesche, e che ogni tanto veniva regalato a noi bambini da qualche soldato di buon cuore, non era poi molto gradito. E sognavamo il pane bianco, un gusto ed un colore che portavano con sé la certezza che hanno tutti gli alimenti principali per la sopravvivenza: latte, farina, zucchero, sale, riso.

       Oggi invece, malgrado quest’epoca fatta di crisi, capovolgimenti economici, incertezze, si va a comperare il pane nero nei negozi specializzati in prodotti biologici e dietetici, pagandolo come fosse firmato da Bulgari o Cartier.

       Un tempo ogni fornaio aveva la propria rivendita e il pane si distingueva per caratteristiche e gusto. Oggi un numero limitato di forni fornisce più negozi per cui, ovunque lo si acquisti, ha spesso lo stesso sapore.

       Certo una sana revisione ha i suoi lati positivi. In primis si recuperano le vecchie abitudini ormai dimenticate, sorpassate già alla fine del secolo da un consumismo sfrenato. E tuttavia un peccato che ogni riferimento al classico tradizionale sia finito a gambe all’aria. E a noi “cinici e distaccati fuggitivi” mancano gli odori ed i sapori di un tempo. Manca il nostro pane quotidiano.

 

                                                                                           LA VOCE INTEMELIA  anno LXIV  N. 10 - ottobre 2009