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Diritto di gabellare

nel Ponente Ligure

                                                                                                                                              di Barbara Amisano

 

    Oggi siamo assillati continuamente dal fisco, preoccupati di dover sostenere delle spese, pagare le tasse; ma cosa accadeva nel passato ?  La fiscalità era così opprimente ?

    Nel Medioevo il sistema finanziario era vario ed articolato. Nelle zone del nostro Ponente Ligure la finanza locale era dedita soprattutto a fronteggiare le spese comuni.

    I redditi maggiori derivavano dai boschi, dai pascoli e dal diritto di imporre dazi e pedaggi ai cittadini; il bilancio comunale dei paesi sia dell’entroterra, sia quelli lungo il litorale aveva nel suo attivo i proventi di "gabelle", "fondachi", "bandite" ed una parte delle multe che i contravventori erano costretti a pagare.

    Le uscite correnti riguardavano per lo più le spese di manutenzione per le opere pubbliche, e quelle fisse concernevano il pagamento degli onorari ai dipendenti pubblici.

    Oggi il nostro sistema tributario è suddiviso tra imposte dirette e indirette ma anche nel passato esisteva questa distinzione.

    Nel Settecento tra le imposte dirette la più importante era l’avaria, somma che i privati versavano allo "Stato" per la copertura delle sue necessità finanziarie, tra quelle indirette, invece, l’imposta per eccellenza era la cosiddetta "gabella".

    Essa era preferita dai vari comuni per la sua facilità, regolarità e sicurezza dell’esazione.

    L’istituzione della gabella traeva origine da un duplice scopo:

1) assicurare un largo cespite di entrata all’erario (fine fiscale);

2) come strumento di protezione per l’industria di paese (fine di politica economica).

    Nel Settecento prevaleva generalmente lo scopo fiscale e si cercava di colpire con la gabella tutto ciò che era tassabile, a fine di assicurare alla cassa dell’amministrazione pubblica delle entrate atte a coprire le spese che annualmente si rendevano necessarie.

    Particolarmente gravose per i cittadini erano le gabelle sopra i generi alimentari di prima necessità (sale, macinato, carni, olio, acquavite, pelli e stoffe) che colpivano ugualmente poveri e ricchi, senza alcun riguardo per la loro capacità contributiva.

I paesi, quindi, gestivano autonomamente le proprie entrate e sostenevano delle spese.

    Per ciò che concerneva tali diritti non esisteva un ordinamento vero e proprio; queste particolari entrate, invece di essere imposte diretta­mente e riscosse da un esattore comunale, erano affidate ad un impresario mediante il sistema dell’appalto e si pagava a una tassa su tutti i generi di consumo che si dovevano importare o esportare dalle giurisdizioni dei paesi.

    Questo sistema così rigoroso permetteva al comune di avere notevoli entrate e per lo più sicure perché affidate a questi "appaltatori".

    L’esazione avveniva in questo modo: ogni mercante, che introduceva per via terra o per mare qualsiasi tipo di merce, doveva denunciare la quantità esatta e pagare la relativa gabella entro le dodici ore successive al suo arrivo. Di contro, doveva informare il gabelliere del giorno in cui intendeva caricare, al fine di consentire il controllo sul peso e sulla qualità della merce. I prezzi dell’appalto variavano di anno in anno a seconda dalle circostanze economiche del momento.

Bordighera, porto e giardino

    Il primo pagamento previsto dal contratto avveniva trimestralmente in quattro soluzioni, il giorno scelto per l’aggiudicazione degli appalti era sempre un festivo o al più un Sabato per favorire una maggiore partecipazione degli abitanti.

    Se è vero che le gabelle costituivano la fonte più importante delle risorse finanziarie, è altresì vero che non erano le uniche: la Pubblica Amministrazione poteva contare ancora sulle bandite, sui fondachi, sulla vendita del fieno e sui redditi degli immobili di sua appartenenza.

    Vi erano svariati tipi di gabelle: sul pane, sulle misure, sul vino, sul sapone, sui pesci, sul macello e molte altre ancora. Una gabella degna di menzione, tipica della nostra zona, era quella sulle palme. Infatti questa pianta rappresentava il terzo prodotto dopo i limoni e l’olio ed era molto apprezzata sui mercati italiani ed europei. Grazie alla mitezza del nostro clima e ai ridottissimi costi che la sua coltura richiede, la coltivazione di tale pianta si rivelò molto proficua.

    A conferma dell’importanza che questa coltura aveva sull’economia dei paesi si può ricordare la particolare protezione di cui godeva, laddove si tentava di scoraggiare in ogni modo la sua importazione a tal punto che quest’ultima era consentita solo ed esclusivamente quando nel nostro territorio non vi erano più palmizi da tagliare; la violazione di tale norma comportava pene molto severe.

    La relativa gabella rappresentava una buona fonte di reddito per i paesi anche se, più tardi, tale coltivazione perse l’importanza fino a scomparire per lasciare il posto ad altre coltivazioni.

    In passato le palme erano di due specie e venivano utilizzate per le rispettive feste pasquali dei due culti: vi era quella "romana" impiegata per la Domenica delle palme e quella chiamata all’"ebrea" che serviva per la pasqua degli Israeliti.

    La raccolta ed il taglio delle foglie delle prime si effettuava verso la fine di febbraio e vendute nelle piazze di Roma, Firenze, Milano e Torino; il taglio delle foglie per la pasqua ebraica iniziava verso la metà di luglio e si concludeva verso la metà di settembre: le foglie erano vendute in tutta Europa, in particolar modo in Germania. Per tale motivo la palma rappresentava una buona fonte di reddito per le pubbliche amministrazioni.

    Per entrambi i tipi si legavano le chiome come in un fascio per permettere alle foglie interne di crescere senza essere esposte all’immediato contatto della luce e di rimanere bianche fino al momento del loro utilizzo. Tale era l’importanza dei palmizi che furono fissate delle regole ben precise, rivolte in gran parte a proteggere il mercato locale.

    Innanzitutto nessuno poteva esercitare il mestiere di "tagliare" e "accomodare" le palme se non era stato prima eletto dal Consiglio e, successivamente, doveva prestare giuramento di esercitare fedelmente tale lavoro e di rimanere nell’ambito della propria giurisdizione. Dall’esame di tutte le gabelle si può dedurre come fosse forte, in quell’epoca, il controllo esercitato sul commercio e sui traffici; ogni genere di mercanzia, di qualunque natura, importata od esportata era soggetta a dazio, questo era l’unico modo per procurare delle entrate alle amministrazioni comunali tali da permettere di coprire, anche se non sempre, le spese ordinarie e, soprattutto quelle straordinarie.

 

1519 Il Banco di San Giorgio imponeva ai cittadini ventimigliesi una tassa aggiuntiva, allo scopo di ristrutturare e rendere funzionale il molo del porto fluviale, in zona Lagu, appena a monte del ponte.

1544 Il 5 febbraio, il vescovo De Mari siglava gli accordi sulle decime, intercorsi col Parlamento locale.

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In quel tempo, le decime venivano riscosse principalmente sulla produzione di grano, di vino e di fichi. Anche il lino e la canapa venivano tassati, giacché godevano di diffusa produttività, sia nella coltivazione che nella lavorazione al telaio o in corda. (Nino Allaria Olivieri - febbraio 2002)

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1558 In questo secolo, il Comune ventimigliese appaltava numerose imposte, in pubblica callega.

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Erano presenti: Gabella macellarum - Gabella quintarii et lignaminum - Gabella Rossi multae - Gabella drictus territorii Vintimilii - Gabella macelli, pedagii - Gabella piscium recentium - Gabella forestariae - Gabella panis - Gabella albaxiorum - Gabella pannorum - Gabella aestimariae canellae - Gabella passagii animalium - Gabella accordii - Gabella trezeni vini - Gabella porcorum - Gabella aestimariae brocarum - Gabella tractae victualium - Gabella tractae vini - Gabella scodani - Gabella stractiarum - Gabella olii - Gabella setae e Gabella chiaravugli.

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1611 Una grida della Repubblica di Genova emanava la tassa sul sapone: venti soldi per ogni cantara di sapone fabbricata nel “dominio” e quaranta soldi per quelle fabbricate oltre confine e importate.

1634 Il 17 maggio, Parlamento e Sindaci, appena eletti, ricevono dichiarazione sull’esito della vendita delle Gabelle e degli erbaggi, che era di lire genovesi 9.465, contro un’uscita di  lire 16.109,16.

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Il Cancelliere Razionale, Melichio Fenoglio, provvedeva a questa vendita ogni tre anni, ma a causa delle guerre, era qualche anno che la vendita non veniva condotta. Nel 1631, si ebbe un basso introito per gli erbaggi, a causa del contagio che falcidiò il bestiame minuto. I partecipanti, detti bandioti, erano in prevalenza dell’Alta Val Roia, sovente proprietari di grosse greggi. Le gabelle venivano comprate, dai mestrali, a lire 150 l’una, per un’entrata di lire 6.550; mentre la terza parte delle condanne criminali inflitte dai Capitanei in numero di 80, aveva portato un introito aggirantesi alle lire 90, cui assommare la terza parte delle multe fatte dai mestrali, per lire 30. Ottimo era il censo di Mentone, Dolceacqua, Castellaro e Piena, per la somma di lire 1.450. Le uscite erano collegate al censo del Parlamento per lire 6.845; gli stipendiati e gli operai per lire 1.519; i salariati di sanità per lire 32 al mese, pari a lire 304 annue. Ai corpi di guardia alle porte, per l’olio lire 120; pagliericci e coperte lire 600. Il ponte in legno che portava alla Bastida richiedeva lire 200; le corde per le campane e la riparazione ai due organi della Cattedrale lire 40. Il Rettore di Bevera riscuoteva lire 91,61. In più, seguivano le “fuori straordinarie” come le andate dei Sindaci a Genova, o la diaria ai messi di lettere; oltre ai prestiti contratti in Genova, per la costruzione delle mura, lire 700 ogni anno; più lire 4.000 sui frutti di lire 806, alla ragione del cinque per cento, per il debito della Comunità, oltre alle impreviste lire 1.600, dovute al cottumo ordinato da Nicolò Zoagli. (Arch. vesc. Civile 135 - N.All.Oliv.)

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1636 Genova non voleva più permettere lo sbarco del sale a Mentone, entrando in  conflitto col principe di Monaco, Onorato II.

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Genova era contraria in specie al sale della gabella di Nizza, sicché fece cannoneggiare nel porto di Mentone certe navi inglesi ed olandesi che stavano scaricandolo.

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1649 Ottenuta licenza dalla Repubblica, il Parlamento ventimigliese imponeva una forte gabella sulla produzione e la lavorazione della canapa locale.

1680 In Francia, Colbert aveva revisionato la gabelle sul sale, inasprendo le pene a chi favoriva i fauxsauniers.

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Questi erano produttori clandestini e contrabbandieri di sale, opportunisti che accumulavano fortune illegali, eppure divennero eroi popolari che potevano vagare per le campagne, prelevando ogni genere di prodotti agricoli, senza provocare le lamentele dei contadini; così come erano ospitati benevolmente nelle osterie lungo le strade. Sul nostro territorio venivano chiamati i fenicòteri.

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1692 La Repubblica di Genova emanava severe punizioni a tutela delle donne spesso rapite a scopo di matrimonio.

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Nelle norme, a vigilanza della vita quotidiana, si raccomandava alle persone di non dormire fuori Ventimiglia, ma di rientrarvi entro le 24, sotto pena di scudi 6 e si vietava di lasciare a bagno, vicino al ponte “lino, canova, ne stopulli” sotto pena di scudi 4 per ogni corba. Tra le gabelle imposte dalla Comunità di Ventimiglia c’era anche quella del “chiaraviglio” il famoso “ciaravagliu” che, in occasione del matrimonio di vedovi, si fa ancora oggi in alcuni paesi dell’entroterra, sotto le finestre degli sposi.

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1814 L’11 aprile, Napoleone firmava l’atto di abdicazione.

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Ovunque si verificarono disordini e si invocava il ripristino degli antichi stati. A Castelfranco e a Baiardo la popolazione in festa finì per tumultuare, bruciò i registi delle imposte e il « maire » di Castelfranco venne anche aggredito e ferito. A Bordighera e Ventimiglia vennero bruciati i libri dell’Amministrazione dei Dazi, e in molti luoghi gli archivi comunali e catastali.

 

1817 L’8 novembre, col trattato di Stupinigi, si fissavano i rapporti fra Regno di Sardegna e Principato di Monaco.

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La Rocca veniva presidiata da un mezzo battaglione di fanteria sotto il comando del Principe, Governatore della Piazza, nelle cui mani gli ufficiali sardi presteranno giuramento. Il Principe conserverà tali prerogative anche nel caso in cui le truppe venissero aumentate. Le spese per il mantenimento della guarnigione saranno a carico del Re. I sudditi monegaschi potranno accedere alle varie carriere amministrative nel Regno e si concederebbero cariche, onori e favori al Principe e alla sua famiglia. La Marina Sarda proteggerà il porto e la piazzaforte. Le comunicazioni fra i due Stati saranno libere; il diritto d’asilo non sarà concesso nel Principato al malfattori e ai disertori; i diritti di ancoraggio nel porto saranno per i Sardi gli stessi che per i Monegaschi. Al trattato tenne dietro una convenzione che incorporava il Principato, per la vendita del sale e dei tabacchi, alla gabella sarda, e unificava il servizio postale con la divisione dei benefici. Monaco veniva a trovarsi in quella stretta a cui aveva sempre potuto, per avvedutezza e fortuna, sfuggire: il protettorato della nazione in cui si trovava incastrato. I Principi godevano di più libertà, ritornando a quegli atti di indipendenza a cui i regimi rivoluzionario e imperiale avevano disassuefatto il mondo. Essi osarono non ricercare presso il Re gli onori, le cariche e i favori che offriva loro il trattato di Stupinigi, continuarono a frequentare Parigi, a sedere, come fece Onorato V, alla Camera dei Pari, nella loro qualità di duchi di Valentinois, e ristabilirono l’uso della lingua francese per gli atti pubblici, abbandonata nel 1814.

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1869 L’8 febbraio, il Principe di Monaco, Carlo III, aboliva tutte le imposte dirette ai monegaschi.

1881 Il Governo Depretis eliminava l’annosa e gravosa tassa sul macinato, introdotta in Liguria dalla Repubblica genovese, nel XVII secolo.