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                               Limone  -  limun                                                                    Arancio amaro  -  çitrun

 

 Gli  agrumi  nel  Ponente  Ligure

                                                                                                                                                  di Luigino Maccario 1995

RACCOLTA  E  VENDITA  PUBBLICA

    La coltivazione e la commercializzazione degli agrumi, con i limoni in particolare evidenza, hanno caratterizzato l’agricoltura del Ponente ligure, fin dal XVII secolo, persistendo oltre la metà del XIX. Nei primi anni del Settecento il mercato di riferimento era la Provenza, che negli ultimi anni del secolo si rivolgeva a tutte le maggiori città europee.1

    In quel secolo, la diffusione di comunità ebraiche in tutta Europa, con la concessione di praticare apertamente la loro ritualità, incentivò decisamente il mercato dei cedri. Durante la guerra di Secessione americana del 1861, con gli agrumeti in esclusiva proprietà dei Confederati, gli stati unionisti del Nord, decimati dallo scorbuto, importavano limoni ventimigliesi in gran quantità, attraverso la ditta Biancheri.2

    Il particolare clima del luogo, nel tempo, aveva selezionato alcune qualità di punta: nella Valle di Latte e nel sito di Olignana, presso Ventimiglia; così come in Val Verbone si coltivava la “Bignata” dai frutti a pelle liscia, sottile e di sapore assai gustoso, la “Lerisca” dalla pelle liscia ed il “Bollotino” con pelle rugosa e spessa, entrambe col contenuto poco succoso.

    Nei primi anni del Settecento, pur persistendo la produzione familiare, che aveva caratterizzato l’inserimento di questa cultura in zona e la conseguente evoluzione, veniva istituito il “Magistrato de’ Limoni” che presiedeva alla raccolta ed alla vendita dell’intera produzione locale, con opportuni “Capitoli” razionali a difesa del prodotto e della “piazza”, in Bordighera, Mentone e Ventimiglia.3

    Il Magistrato vigilava contro ogni disonestà commerciale e gestiva l’osservanza dei capitoli, attraverso la collaborazione di tre controllori dei frutti, appoggiati da estimatori. Opportuni messi erano incaricati di reclutare i raccoglitori, mentre ai sensali competeva di sentenziare i prezzi di mercato. Il proprietario di limoneti non poteva interferire ne’ raccogliere il prodotto e soltanto a fine stagione riceveva il dovuto.

    Due capitoli regolamentavano la pezzatura del limone, sia nella maturazione, sia nella qualità, classificandola secondo le piazze di smercio. Ma in generale erano selezionati quali: limoni alla tedesca, limoni e cedri all’ebrea, e frutti da torchio.4

    Questi ultimi, tutti i frutti di scarto e quelli piccoli, non venivano esportati, ma lavorati da alcuni imprenditori locali che producevano il succo di limone, detto “l’àgru”, che trovava esportazione sia in Italia, sia in Europa. Dal succo acquistato localmente, industrie genovesi o nizzarde producevano l’acido citrico, indispensabile per la cura dello scorbuto, fin dal Settecento.5

L'Agru  -  succo di limone

 

    Nei primi anni di produzione del succo, secondo i dettami capitolari, si usava la “naveta da cavare l’agro de limoni”, una sorta di spremitore artigianale; in seguito, per aumentare la produzione, veniva introdotta la torchiatura, con conseguente peggioramento del prodotto e relativa diminuzione del mercato.

 

QUALITÀ  DEI  LIMONI

    Nella nostra Riviera la raccolta avveniva più volte l’anno, al contrario a quanto accadeva nel Finalese, due volte l’anno, o in Sicilia dove si raccoglieva soltanto in autunno, fino ad inverno inoltrato; tant’era che i commercianti di tutta Europa frequentavano costantemente i nostri mercati.6

    La denominazione locale riservata ai limoni, secondo quanto era sancito dai regolamenti che ne disciplinavano il commercio, prevedeva certe distinzioni.

    “Limùn de prima sciùra”, detto anche “limùn marséncu”, quello privo di semi, nato da un fiore sbocciato in primavera. Per “limùn da càscia” s’intendeva quello adatto all’esportazione, quella che veniva fatta in casse, appunto.

Limùn muràssu” a buccia spessa, di brutta forma, oppure “limùn zeràu”, quello che ha sofferto il gelo, anche in parte, ed ancora “limùn utùnu”, maturo, vecchio, che non era adatto all’esportazione.

    Il limone tondo, imbastardito era detto “ciarchéla”; altri presentano protuberanze anomale, a forma di una o più dita, le antiestetiche ditine; questo era detto “diétu”, mentre i frutti piccoli non possono essere che “limunéti “, quelli che passavano attraverso l’anello minore.

    “Verdàme” è il frutto verde, non propriamente maturo, se invece fosse stato così di qualità era detto “â tedesca” ed era raccolto senza “u pecùlu”, il picciolo. Per mantenere la freschezza, non dovevano essere “butezài” o “arigài”, ossia senza righe, assunte nella crescita, o bozze dovute alla grandine.7

    Raccolto verde e opportunamente imballato, il limone giungeva maturo al termine di lunghi viaggi. Era questa la quantità maggiore di frutti raccolti per l’esportazione.8

    I limoni prodotti a Bordighera e Ventimiglia, erano commercializzati a San Remo, ma caricati sulle rispettive coste, da “scùne caravàna”, che spiaggiavano. Il mercato intemelio forniva anche Mentone, in concorrenza con San Remo. A Ventimiglia, in particolare nella Valle di Latte, erano coltivati i melangoli (citrus aurantium o bigaradia), localmente conosciuti come “çitrùi” ovvero arance amare, usate per la distillazione de “l’àiga nàfra”, il succo per la pasticceria.

 

ORGANIZZAZIONE  CORPORATIVA

    A San Remo, la coltivazione dei limoni aveva raggiunto un’organizzazione capillare, tanto che, già in pieno Ottocento, poteva contare sulla corporazione dei produttori, riuniti in una Società Proprietari Orti di Limoni, la S.P.O.L., come la definiremmo oggigiorno.

    Da quelle esperienze, Pio Carli ci ha tramandato la descrizione di come i Matuziani operassero nella raccolta dei limoni, la quale era eseguita da una squadra di “limunàri”, che era chiamata “pósta”, formata da cinque uomini tre donne per la raccolta, più uno o due muli per il trasporto, oltre ad un “càpu”, il rappresentante del proprietario, un “sensà”, rappresentante del compratore ed un segretario della SPOL.9

    Le poste, costituite per lo più da artigiani, cui fosse agevole sospendere la propria attività per un certo periodo stagionale, nei giorni stabiliti erano incamminate negli orti, fin dal primo mattino.

    I cinque uomini procedevano alla raccolta, depositando i frutti nel “camixàssu”, specie di rozzo giaccone in tela di sacco, privo di maniche, fermato alla vita con un cordone ed aperto sul petto, per poi andarli a riversare nel mucchio comune in un angolo dell’orto.

    Qui, le tre donne rasavano il peduncolo, con un taglio netto di temperino, scartando i frutti non regolari, eventualmente sfuggiti alla calibrazione. Quest’operazione veniva praticata con l’ausilio di appositi anelli di quattro diverse dimensioni, come vedremo.

 

CONTA  E  TRASPORTO

    Allora, si procedeva alla “conta”, consistente in tante serie di duecento limoni cadauna, più un quattro per cento di tolleranza; ciascuna suddivisa in cinquantadue serie di quattro frutti l’una, che erano chiamate “man” o mani.

    Chi effettuava la conta enunciava ad alta voce il numero delle mani, che via, via de poneva nei recipienti adatti al trasporto, sicché ad ogni cinquataduesima mano era praticata una tacca di coltello sopra un pezzo di legno.

    A conteggio avvenuto il segretario della posta rilasciava regolare biglietto al proprietario dell’orto, il quale presentando questo, indicante il numero dei limoni raccolti, alla cassa della Società, incassava il relativo importo in moneta d’oro.

    Il raccolto, verificato e contato, era caricato sui muli, oppure in capo alle donne, le “camàle” e condotto in città per essere imballato e spedito. Il sistema di vendita e di esportazione più comune era detto “a caravàna” giacché veniva praticato con certe navi dette appunto Carovane, perché viaggiavano in convoglio.

    Tornando agli anelli da misurazione, questi erano detti semplicemente: “prìmu”, “segùndu”, “térsu” e “càrtu”, a partire dal più grande; ma venivano anche conosciuti rispettivamente come: “anélu gròssu”, “anélu de Mentùn”, “anélu spezin” e “vergùn”.10

    Quest’ultimo prendeva il nome da un classico orecchino d’oro, allora molto in voga, che era appunto a forma di cerchio ed era detto “vérga” o “verghéta”, essendo poco più stretto del citato anello da limoni.

    Per il limone che, seconda la stagione, raggiungeva il diametro voluto dalle regole veniva usata la dicitura “esse a l’anélu”. Era questa una frase corrente che, riferita figurativamente alle belle adolescenti nostrane, prendeva il significato d’aver raggiunto l’età da marito.

 

DECLINO  DEL  MERCATO

 

    Le eccezionali gelate degli anni tra il 1752 ed il 1793, non alterarono il mercato, infatti si provvide puntualmente a sostituire le piante colpite ed a ricreare l’autorità del Magistrato, però: Mentre in Mentone il Magistrato vigilava opportunamente, in Ventimiglia si lasciava il commercio in mano ai singoli produttori, portando in auge il mercato nero.

    I limoni dell’Olignana e della Valle di Latte venivano portati in Mentone, dove spuntavano prezzi ancora remunerativi, mentre i produttori di Bordighera si immettono sulla piazza di San Remo, regolamentata e frequentata dai mercanti delle Fiandre e dell’Inghilterra.

    Poi sopravvennero le gelate del 1808 e del 1810, allora il mercato perdeva competitività a favore delle importazioni dai paesi caldi del Mediterraneo meridionale. Si cercarono quindi altre culture, che per Bordighera divennero le piante di palma da ornamento; mentre a Ventimiglia iniziò la cultura dei fiori in pien’aria

 

NOTE:

  1) Nel 1768 la Moscovia importò duecento casse dal mercato di Nizza, l’anno successivo la richiesta aumentò fino a quattrocentocinquanta.

  2) La ditta apparteneva alla famiglia del famoso deputato Giuseppe, che fu Presidente del Regio Parlamento.

  3) I “capitoli” non si differenziavano molto tra piazza e piazza: in Mentone veniva prospettata particolare severità contro chi tentava vendere i frutti “alla nascosta”; in Bordighera il magistrato regolamentava ogni relazione nella raccolta, nella vendita e sul prezzo; in Ventimiglia era liberalizzata la vendita privata purché non potesse venir definita “disonesta e truffaldina”.

  4) Il limone alla tedesca era destinato al centro Europa, veniva raccolto a maturazione incompleta, privo di peduncolo ed era spedito in casse di legno. Il limone all’ebrea, veniva acquistato dalle comunità ebraiche di tutta Europa, per la ricorrenza liturgica dei “Cedri”, veniva raccolto col peduncolo fornito di una o più foglie ed era spedito, in cestoni di canna, assieme ai cedri coltivati nella piana di Carnolese, presso Mentone.

  5) Ventimiglia, Latte e Bordighera erano i maggiori centri di produzione ed esportavano in tutta Italia, ma anche nel Nord Europa, imbottigliato in una grossa bottiglia da otto litri, detta “Bombona”. L’acido citrico veniva altresì usato nella confezione di bevande, nella tintura di alcuni tipi di tessuto, ed ancora in medicina, come emostatico ed astringente. A Nizza, per la produzione dell’acido citrico, al succo di limone veniva aggiunto il succo del melangolo, localmente chiamato bigarandi. Per saturare il succo a disposizione si usavano crete bianche locali e venne costruito un particolare forno vaporativo.

  6) Per i limoni di “Primo fiore” la raccolta durava da novembre a metà marzo, quella di “Secondo fiore” era effettuata da aprile a giugno, per quelli “autunnali”, aveva inizio nei primi giorni di settembre e durava quasi un mese.

  7) Anche il pidocchio, la mosca e la morfea mettevano i limoni fuori del “mercantile”.

  8) Nell’imballaggio era usata una speciale carta, ricavata come sottoprodotto della canapa, lavorata industrialmente a Genova. La canapa trovava coltivazione nell’alta Val Nervia, in particolari “fasce umide” chiamate: “canavàire”.

  9) Il sensale era anche quello che aveva il compito di incidere i limoni di scarto, affinché non potessero essere più commercializzati.

10) Lo “Anélu gròssu” era di 5,4 centimetri, il “Vergùn” era di 3,8, gli altri avevano dimensioni che aumentavano, ogni volta, di quattro millimetri.

 

 

L’AGRU

    La polpa succosa e acidissima, del limone, ricca di vitamina C, è largamente utilizzata per la preparazione di bevande o come condimento; inoltre si usa per l’estrazione di acido citrico; così come accadeva nel Ponente Ligure, fin dal XVIII secolo.

    L’Olio essenziale, liquido giallo assai odoroso, che si ottiene dalla buccia del limone, più o meno sottile, liscia o rugosa, ma sempre profumata, si usa in profumeria o per aromatizzare bibite, liquori e prodotti dolciarî.

 

AIGA  NAFRA

AIGA DE SCIURA DE ÇITRUN

    “U çitrun”, ovvero l’arancia amara, è un frutto ornamentale usato in pasticceria, mai consumato come frutto fresco. Dalla scorza si ricava un tipo d’aroma, ma anche pregiati canditi, come pure la marmellata di arance, in ricetta anglosassone. I fiori e le foglie sono invece utilizzati per ricavare pregiate essenze, come l’acqua di fior d’arancio amaro, “aiga nafra” usata per insaporire i dolci; largamente usata nel Ponente Ligure.

 

ANELLI PER LIMONI

    Studioso di storia locale, Alberto Politi, spiaretin a Sanremo, ci ha inviato l’illustrazione degli anelli per limone, in vigore nel Comune della Colla, tratta dalla sua pubblicazione “Ospedaletti, un po’ di storia” edita nel 1994, da Alzani - Pinerolo.

    Anelu a tedesca di mm. 59, anelu grossu di mm. 56, anelu de Mentun di mm. 53, anelu Spezin di mm. 50, vergun di mm. 47 e vergheta di mm. 44. Ristampata nel 1999, l’opera è ancora disponibile.

 

 

    Dopo le forti gelate di fine Settecento, Ventimiglia abbandonò le colture di agrumi in mano al mercato nero, che trasferì il commercio a Mentone, dotato di porto; mentre San Remo conservava il mercati inglesi e olandesi.

     In Mentone, i Principi di Monaco  hanno sostenuto efficacemente le colture fino alle forti gelate dei primi anni dell’Ottocento, quando, dirottato anche dalle innovazioni nei trasporti, il mercato degli agrumi si trasferì in latitudini più calde, pur concedendo a Mentone di operare fino ai primi anni del Novecento.

 

 

Fête du Citron  a Mentone

 

    Nell’inverno 1895, in concomitanza con la grande sfilata del Carnevale di Nizza, gli albergatori di Mentone hanno organizzato un corso fiorito, con l’intento di attrarre l’attenzione della clientela nord-europea e americana sulla mitezza del clima di cui la città godeva, come ne gode oggi.

    È stato un successo. Fin dall’anno successivo un sempre crescente numero di ospiti qualificati sceglieva quel momento per recarsi a svernare in Costa Azzurra, onde partecipare alla kermesse mentonasca.

    Memorabile è stata la sfilata del 1882, resa in onore della Regina Vittoria d’Inghilterra, che è terminata con un fantasmagorico spettacolo pirotecnico, sulla baia di Garavano.

    Nel 1929, Mentone si manteneva ancora tra i più grandi produttori europei di limoni; sicché al proprietario dell’Hotel Riviera venne l’idea di organizzare una mostra di fiori e agrumi nei giardini del suo grandioso parco; procurandosi un tale successo che l’anno successivo gli agrumi salirono sui carri della sfilata, in abbinamento ai fiori.

    La municipalità d’allora, che desiderava sviluppare il turismo, ha subito cercato di dare una tipicità alla parata, sviluppando il colore locale, fino a far nascere la Fête du Citron, nel 1934.

    Due anni più tardi, ha lanciato la prima mostra di agrumi e fiori nei giardini Biovès. François Ferrié, progettista responsabile dell’allestimento, ha ideato le monumentali figure realizzate in agrumi, che oggi caratterizzano la Festa, confermandone il continuativo successo.

 


    Come è stato per tutti i corsi fioriti organizzati in Costa Azzurra e nella Riviera di Ponente, dal canto suo, Ventimiglia ha continuato a mantenere il fiore come materia prima, incentivandone la coltivazione; fino a specializzarsi in quella del garofano, che ha permesso ai costruttori dei “carri” ventimigliesi di mettere a punto una speciale “infioritura” a mosaico che ha finito per caratterizzare la “Battaglia dei Fiori”, iniziata nel mese di marzo dell’anno 1930; questa però, nel tempo, non ha saputo conservare l’attrattiva mantenuta e persino ampliata della mentonasca “Fete du çitron”.

 

Il  magistrato  de’  Limoni

di Nino Allaria Olivieri

    Nei sec. XVIII e XIX in Ventimiglia e contado si sviluppa in maniera intensiva la coltivazione della pianta del limone; lo smercio dei frutti, richiesti per l’ottima qualità e la confermata durata di conservazione dai mercati dalla vicina Provenza si estende alle maggiori città dell’Europa. La raccolta e la vendita dall’usato sistema familiare si fa ora con metodi razionali e regolamentati per cui, a difesa del prodotto e della piazza, in Bordighera, Mentone e Ventimiglia ha vita il “Magistrato de’ Limoni”.

    Il metodo di raccolta, la pezzatura dei frutti, l’imballaggio, la vendita, sono soggetti a determinate regole e tempo; con alcuni capitoli “detti dei Frutti” si regolamenta il rapporto con i trasportatori e gli acquirenti.

    In definitiva: difesa della merce e onestà di acquisto. Le “leggi o capitoli” poco si differenziano: in Mentone si riscontra particolare severità contro chi tenta vendere i frutti “alla nascosta”; in Ventimiglia si lascia libertà ad una vendita privata purché non “disonesta e truffaldina”; in Bordighera con massima severità il magistrato regolamenta ogni rapporto sia nella raccolta che nella vendita e sul prezzo.

    Si è, dunque, in regime di grande e affermato sviluppo di quella coltura che nei secoli antecedenti fu solo familiare e di ripiego. Dati cartacei confermano come la pianta del limone, da Capo Martino al golfo della Rota, cespugliasse vigorosa e produttiva per il costante clima. L’habitat ha, nel tempo, creato alcune qualità selezionate: in Val San Bartolomeo, in Olignana e, oltre il Roia, in val Crosia e val Verbone, si coltiva la “Bignata” dai frutti a pelle liscia, fine e gustosissima, la “Lerisca” dalla pelle liscia ma di poco succo e il “Bollotino” con pelle rugosa, spessa e di poco succo.

    Ogni varietà richiede particolari lavori di sterro, lunga ed attenta cura poiché non mancano malattie, sbalzi di temperatura e disastrose gelate. Nel ventimigliese sono da ricordare la gelata del 1752, in cui Finterà coltura viene distrutta, quelle del 1790, del 1793. Il commercio ne risente: si ricomincia anche se vi è l’incerto. Il vecchio istituto del “Magistrato de’ Limoni”, richiamato in vita, viene perfezionato e arricchito di nuovi capitoli. Al Magistrato compete vigilare contro ogni disonestà e che i capitoli siano osservati: lo affiancano tre controllori dei frutti, gli estimatori, i messi incaricati a reclutare i raccoglitori: i sensali cui compete sentenziare sui prezzi.

    Il proprietario dei limoneti non può interferire né raccogliere, riceverà solo il dovuto a fine stagione.

    Due capitoli regolamentano la pezzatura del limone sia nella maturazione e nella qualità che verrà classificata a secondo delle piazze di smercio. Tre sono le classifiche: limoni alla tedesca, alla ebraica, e da torchio. Il limone alla tedesca, destinato al centro Europa, veniva raccolto a metà maturazione con peduncolo a una o più foglia; la spedizione richiedeva ceste di canna e carta; di particolare smercio, in Italia e Germania, era il limone alla “Ebraica”; veniva acquistato in buona quantità dalle comunità ebraiche per uso liturgico; di ottima consistenza si smerciava con i cedri provenienti dalla piana di Carnolese (Mentone).

    Il limone da torchio, detto più comunemente per “acido citrico”, di bassa qualità e prezzo non veniva esportato, ma lavorato in loco, Ventimiglia, Latte, Bordighera; l’agro era messo in commercio con notevole successo e venduto in Italia e al Nord Europa. Contenitore era la “Bombona” grossa bottiglia da otto litri; veniva usato nella confezione di bevande, nella tintura di alcuni tessuti, come emostatico e diuretico in medicina.

    I produttori dell’agro, a norma dei capitoli, all’inizio estraevano il succo con uno spremilimone, “la neveta da cavare l’agro de limoni”; per aumentare la produzione venne introdotto la torchiatura con conse­guente peggioramento del prodotto, e perdita di molte piazze.

    Puntualmente subentra un mercato nero. Mentre in Mentone il Magistrato vigila e riesce a far fronte alla sempre più crescente importazione via mare dalla Sicilia, in Ventimiglia si lascia ravviato commercio in mano ai singoli produttori; i limoni dell’Olignana e della val San Bartolomeo sono portati in Mentone a prezzi ancora remunerativi, mentre i produttori di Bordighera si immettono sulla piazza di San Remo, regolamentata e frequentata dai mercanti delle Fiandre e dell’Inghilterra.

    Il commercio si allenta, crescono le importazioni dal Mediterraneo; nel 1808 e 1810 due gelate distruggono le coltivazioni; si cerca di ricuperare; ai limoni di sostituiscono le piante di palme da ornamento. Per Ventimiglia e il suo contado ha inizio una coltura che nel tempo confermerà la futura vocazione di “Terra dei Fiori”.

 

1599  Il comune di San Römu incominciò a chiamarsi San Remo.

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Il territorio di San Remo, ottimamente coltivato ad agrumi ed ortaggi, oltre all’attività marinara condotta nel realizzato porto, permettevano lo sviluppo della città, che allora arrivava a contare tredicimila abitanti.

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1637  In gennaio, un gravissimo gelo sugli agrumi.

 Il 29 novembre, un terribile terremoto sconvolse la Liguria.

1671 Il 22 giugno, Luigi I° di Monaco decretava l’Editto sulla costituzione del Magistrato dei Limoni, simile a quello esistente a San Remo.

1678  Luigi I° di Monaco dotava il Principato di Statuto, dove si legge la rubrica “Della vendita delli Limoni di Mentone”.

1683 Luigi I° di Monaco aggiungeva al regolamento del Magistrato dei Limoni, l’articolo sui danni provocati dagli animali.

1684  Luigi I° di Monaco prevedeva nuove regole sul comportamento dei mulattieri ed i battellieri che trattavano il trasporto dei limoni.

1690 In giugno, sulla spiaggia di San Nicolò, il Lascàris di Castellaro sbarcava sessanta pecore e due cavalle.

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I traffici di mare erano svolti da naviglio di basso pescaggio che alava o scaricava in rada. I leudi imbarcavano olio, legni, carboni, lane e carni ovine dirette verso i porti di San Remo o Mentone. Nella buona stagione, portavano cedri e limoni verso Savona o Genova. Gli stessi sbarcavano derrate alimentari e merci da costruzione, d’importazione. Il costo del facchinaggio per il rimessaggio a domicilio era di sessantadue soldi di Genova, per la fatica di due uomini, addetti ad un intero carico, per l’intera giornata.

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1693 Luigi I° di Monaco dotava il Magistrato dei Limoni delle quattordici misure ufficiali (anelli) per classificare i limoni secondo il diametro.

1701 Antonio I° di Monaco dotava il Principato del Magistrato di Sanità, che sorvegliava anche sull’igiene nella raccolta dei limoni.

1709 Il 6 gennaio, eccezionale nevicata. Un inusitato gelo diede la stretta alla raccolta delle olive, facendo morire una grande quantità di alberi secolari nelle nostre campagne. Le coltivazioni di limoni vennero perse quasi totalmente, con gravi danni agli alberi. Qualche marinaio perse le gambe per congelamento.

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La grande e diffusa gelata aveva danneggiato le colture provenzali ancor più di quelle liguri, facendo aumentare la domanda europea ed inducendo a piantare olivi anche ad alte quote con una densità maggiore per ettaro. Intanto, a partire dall’onegliese si andava sviluppando l’attività legata alla produzione dell’olio.

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1717 Il 21 aprile, Antonio I° di Monaco prevedeva sanzioni e pene corporali per i recidivi contro le regole sulla raccolta dei limoni. La pena più punitiva era la estrapade, o gogna della culattazione sulla ciapa per la vendita del pesce nel Mercato.

1732 Antonio I° di Monaco pubblicava un regolamento sull’esportazione dei limoni.

1751 Un inverno particolarmente rigido, portava alla gelata del febbraio successivo, che segnalava la distruzione dell’intera cultura di agrumi, assai diffusa tra San Remo e Mentone.

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Nei secoli XVIII e XIX, nel contado ventimigliese si sviluppava in maniera intensiva la coltivazione della pianta del limone; lo smercio dei frutti, richiesti per l’ottima qualità e la confermata durata di conservazione dai mercati dalla vicina Provenza si estendeva alle maggiori città dell’Europa. La raccolta e la vendita dall’usato sistema familiare si faceva ora con metodi razionali e regolamentati per cui, a difesa del prodotto e della piazza, in Bordighera, Mentone e Ventimiglia era fondato il “Magistrato de’ Limoni”. Il metodo di raccolta, la pezzatura dei frutti, l’imballaggio, la vendita, venivano assoggettati a determinate regole e tempo; con alcuni capitoli “detti dei Frutti” si regolamentava il rapporto con i trasportatori e gli acquirenti, per la difesa della merce e l’onestà di acquisto. Le “leggi o capitoli” poco si differenziavano: in Mentone si riscontrava particolare severità contro chi tentava vendere i frutti “alla nascosta”; in Ventimiglia si lasciava più libertà ad una vendita privata purché non “disonesta e truffaIdina”; in Bordighera con massima severità il magistrato regolamentava ogni rapporto sia nella raccolta che nella vendita e sul prezzo.Si era dunque, in regime di grande ed affermato sviluppo di quella coltura che nei secoli antecedenti fu solo familiare e di ripiego. Dati cartacei confermano come la pianta del limone, da Capo Martino al golfo della Rota, cespugliasse vigorosa e produttiva per il costante clima. L’habitat aveva, nel tempo, creato alcune qualità selezionate: in VaI San Bartolomeo, in Olignana e, oltre la Roia, in vaI Nervia e vaI Verbone, si coltiva la “Bignata” dai frutti a pelle liscia, fine e gustosissima, la “Lerisca” dalla pelle liscia ma di poco succo e il “Bollotino” con pelle rugosa, spessa e di poco succo. Ogni varietà richiedeva particolari lavori di sterro, lunga ed attenta cura poiché non mancano malattie, sbalzi di temperatura e disastrose gelate. Al Magistrato competeva vigilare contro ogni disonestà ed all’osservazione dei capitoli, e per questo veniva affiancato da tre controllori dei frutti, da estimatori, da messi incaricati di reclutare i raccoglitori e dai sensali, ai quali competeva di sentenziare i prezzi. Il proprietario di limoneti non poteva interferire ne’ raccogliere, soltanto a fine stagione riceveva il dovuto. Due capitoli regolamentavano la pezzatura del limone sia nella maturazione e nella qualità che verrà classificata a secondo delle piazze di smercio. Tre sono le classifiche: limoni alla tedesca, alla ebraica, e da torchio. Il limone alla tedesca, destinato al centro Europa, veniva raccolto a metà maturazione con peduncolo a una o più foglia; la spedizione richiedeva ceste di canna e carta; di particolare smercio, in Italia e Germania, era il limone alla “Ebraica”; veniva acquistato in buona quantità dalle comunità ebraiche per uso liturgico; di ottima consistenza si smerciava con i cedri provenienti dalla piana di Carnolese. Il limone da torchio, detto più comunemente per “acido citrico”, di bassa qualità e prezzo non veniva esportato, ma lavorato in loco, Ventimiglia, Latte, Bordighera; l’agro era messo in commercio con notevole successo e venduto in Italia e al Nord Europa. Contenitore era la “Bombona” grossa bottiglia da Otto litri; veniva usato nella confezione di bevande, nella tintura di alcuni tessuti, come emostatico e diuretico in medicina. I produttori dell’agro, a norma dei capitoli, all’inizio estraevano il succo con uno spremilimone, “la naveta da cavare l’agro de limoni”; per aumentare la produzione venne introdotto la torchiatura con conseguente peggioramento del prodotto, e perdita di molte piazze.

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1771  In marzo, nevicata e gelata di limoni.

1787  In dicembre, gelata degli agrumeti e dei limoni.

1793 Il 14 febbraio, Parigi decretava l’annessione del Principato di Monaco alla Francia, incorporandolo nel Dipartimento delle Alpi Marittime.

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Dopo l’esperienza popolare della Repubblica rivoluzionaria monegasca, il governo di Parigi passava a vie di fatto, esautorando e scacciando i Grimaldi e cambiando il nome del principato in Porto Ercole. L’annessione comprendeva Mentone e Roccabruna, ancora parti integranti del principato medesimo. Tra i primi provvedimenti, messi in atto dai nuovi governanti, avvenne l’abolizione degli Statuti sulla coltivazione dei limoni; che rendevano liberi i contadini di praticare coltivazioni a loro gradimento, anche se molti agricoltori mentonaschi avrebbero preferito il dismesso assetto.

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Fine febbraio, ancora importante gelata negli agrumeti.

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Il commercio risentiva delle gelate, ma si ricominciava. Veniva richiamato in vita il “Magistrato dei limoni”, perfezionato ed arricchito di nuovi capitoli. Puntualmente subentrava il mercato nero. Mentre in Mentone il Magistrato vigilava e riusciva a far fronte  alla sempre più crescente esportazione via mare dalla Sicilia, in Ventimiglia si lasciava I’avviato commercio in mano ai singoli produttori; i limoni dell’Olignana e della vaI San Bartolomeo venivano portati in Mentone a prezzi ancora remunerativi, mentre i produttori di Bordighera si immettono sulla piazza di San Remo, regolamentata e frequentata dai mercanti delle Fiandre e dell’Inghilterra.

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1809     In dicembre, gelata parziale dei frutteti. Soltanto le Cüse di Mentone produssero limoni.

1810     In febbraio, gelata parziale dei frutteti.

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Il commercio si allentava, crescevano le importazioni dal Mediterraneo; si cercava di ricuperare; ai limoni di sostituivano le piante di palme da ornamento. Per Ventimiglia e il suo contado aveva inizio una coltura che nel tempo confermerà la futura vocazione di “Terra dei Fiori”. Ma la cultura di base restava ancora l’olivicoltura, che sosteneva un cospicuo commercio. Secondo i dati di quell’anno, tratti da l’Archives départemental des Alpes-Maritimes, la Ditta Biancheri, in concorrenza con quella bordigotta dei Moreno, come con quella dei cugini di Camporosso, erano tra le più importanti, nella sottoprefettura di San Remo, tra quelle che commerciavano con tutte le principali piazze europee, come con l’America del Nord e persino con quella del Sud.

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1813 L’attività marinara era tradizionalmente una delle principali occupazioni degli abitanti della costa, il cui esercizio aveva rappresentato l’unica alternativa all’attività agricola nei tempi di crisi.

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Capitani e marinai di Ventimiglia, Sanremo, Porto e Diano avevano acquistato fama di esperti navigatori, sia in Liguria, sia fuori di essa; erano imbarcati sui bastimenti di vario cabotaggio che alla fine del settecento facevano rotta nel mediterraneo e nei mari europei. Le importazioni provenienti da Genova, Livorno, Napoli e dalla Sardegna riguardavano granaglie ma anche legumi, vino, formaggio; dalla Francia e dall’Inghilterra arrivavano soprattutto tela, panni di lana, vini, concime; dalla Norvegia merluzzo e pesce salato; dall’America caffè e generi coloniali; dalla Spagna carrube, dalla Russia e Turchia grano e avena. Le esportazioni invece si limitavano a olio, agrumi e palme che erano i principali prodotti del territorio.

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1815 Il 7 agosto, il Principe di Monaco riammetteva le punizioni per i guastatori degli orti di limoni, limitandosi ad una pubblica gogna, nel giorno di festa.

1817 In gennaio, gelata dei frutteti quasi ovunque. I commercianti di limoni di Mentone furono costretti a comprare 550.000 limoni in Ventimiglia, per soddisfare le loro comande.

1818 Il 10 gennaio, Onorato V° di Monaco riorganizzava i regolamenti sulla raccolta dei limoni, istituendo un’apposita polizia.

1821  Il 26 luglio, un terribile terremoto sconvolse la Liguria.

I moti liberali spagnoli e piemontesi provocarono delle manifestazioni in Mentone, dove si reclamò una costituzione. La calma venne ricondotta dalle truppe sarde.

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La popolazione del Principato chiedeva nuove norme sul diritto di proprietà, il suffragio popolare e i poteri limitati dello Stato; mentre le riforme del sovrano tendevano, almeno in parte, alla nazionalizzazione dell’industria e del commercio, ai poteri illimitati e alle nomine dall’alto. L’urto fra queste due concezioni condurrà alla ribellione e al distacco da Monaco di Mentone e Roccabruna, le quali tenderanno ad unirsi al Piemonte, dove si attuava, appunto, un vasto movimento verso le libertà «borghesi». Il Principe, invece, regolò la principale industria del paese, quella degli agrumi; dove i proprietari non potranno toccare i frutti, i quali verranno raccolti, controllati, trasportati dagli ufficiali comunali senza che essi debbano intervenire. Vi saranno, a tal uopo, dei sorveglianti permanenti della produzione. La coltura sarà divisa in tanti «posti», ogni «posto» avrà un «capo posto» o «tagliatore», servito da due uomini e qualche donna per il trasporto dei frutti, e tutti saranno funzionar! scelti da un consiglio formato dai Consoli e tre deputati di nomina sovrana. I Consoli dovranno stabilire ogni mese la quantità di agrumi da cogliere. Se per caso i frutti non potessero subito essere imbarcati, verranno rinchiusi in un magazzino dietro rilascio di una bolletta. Di tutte queste operazioni: sorveglianza, raccolta, trasporto, spedizione e, naturalmente, ricavo, verrà tenuta una registrazione minuta ed accurata. Il Principe istituì anche qualche industria e rivendita di Stato. Il Comando della Marina fu autorizzato ad aprire due magazzini, uno di tela da vele e uno di cordami, e tutti i marinai e i pescatori erano obbligati a comprarne per i loro bisogni. Una filanda per tele varie venne pure istallata nel Palazzo, e così, in un altro caseggiato, una di cotone e una fabbrica di cappelli di paglia. L’importazione della farina e delle granaglie fu avocata a sé dal Principe, che ne diede l’appalto a un ex fornitore dell’armata francese, certo Chapon: quattro mulini nel vallone di Carei vennero a tal uopo requisiti ai loro proprietari. Istituzioni simili vennero adottate per gli olii, le carni, i cuoi. Le nazionalizzazioni e il dirigismo, adottati allo scopo di migliorare le finanze dello Stato, dar lavoro alla popolazione e offrirle mercé a buon mercato, furono accompagnati dalle misure doganali e dalle coercizioni sulle persone senza cui non potevano mantenersi: dazi protettivi, controllo dei benefici; proibito introdurre farina, chi rientrava non poteva aver in tasca che un paio di pani; proibito coltivar agrumi fuori del Principato, cioè creare all’estero una coltura in concorrenza a quella locale; proibito introdurre mercé simile alla nazionale; proibito lamentarsi del prezzo o della qualità di quest’ultima o di quella la cui vendita era consentita nel Principato; proibito chiedere aumenti di salario, i quali avrebbero tolto ai prodotti locali il loro valore esportativo. Ma i «malcontenti», che non potevano esprimere il loro risentimento in patria, lo facevano con pubblicazioni all’estero. Un memoriale venne anche presentato al Re di Francia perché s’interessasse dei disgraziati monegaschi, minacciando di chiedere l’annessione alla Sardegna. Il Congresso delle potenze finì per dire al Principe che non gli era stato reso il Principato per «livrer les habitants a un système de désolation».

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1828 Il 18 aprile, Onorato V di Monaco ripristinava il Comitato per la coltivazione dei limoni, che resterà in vigore fino al 1848.

1850 A Monaco e Mentone, le mansioni del Comitato per la coltivazione dei limoni venivano assunte dal Consiglio comunale.

1862 La ditta Andrea Biancheri esportava tonnellate di limoni, dal Ponente ligure, alla Unione Federalista Americana.

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La flotta degli Stati Federalisti era sprovvista della fornitura di agrumi, coltivati prevalentemente nella Confederazione Sudista, dando via libera allo scorbuto tra gli equipaggi. I limoni ponentini, assai resistenti al trasporto ed alla conservazione si dimostrarono molto adatti alla bisogna.

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1870 Il 22 ed il 26 dicembre, la caduta di neve gelava molti limoni ed in certe località anche olivi.

1880 In Ventimiglia furono prodotte seimila arance e tre milioni e mezzo di limoni, a circa 25 lire il migliaio.

1901 In febbraio, straordinari freddi avevano rovinato la raccolta dei fiori e degli agrumi.