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Categoria: USANZE POPOLARI a Ventimiglia
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A PIMPIRINÉLA

Luigino Maccario  - 1984

IL  PERIODO  STORICO

    Questo gioco, altrove conosciuto col nome di “lippa”, è stato, per almeno un secolo, fino agli anni cinquanta, il gioco che più ha impegnato i ragazzotti ventimigliesi.

    Era praticato a livello di vero e proprio sport di squadra, in ogni quartiere, inteso come oggi si intendono: il calcio, la pallavolo, il basket, o il baseball, del quale, il nostro, ha caratteristiche ancestrali ben radicate.

    Nella città bassa, le strade, ancora sterrate, trasversali all’Aurelia, ampie ed in quei tempi, sgombre di veicoli in sosta, dove il traffico era costituito da tre o quattro carri, dieci carretti, pochi cavalli o muli, entro l’intera giornata, ed una o due automobili per tutto il mese, erano l’ideale come campo di gara per qualsiasi gioco.

 

IL  CAMPO  E  GLI  ATTREZZI

    Si praticava ovunque vi fosse uno spazio relativamente ampio e possibilmente sgombro di vetrate, vetri od altri oggetti fragili, posti a qualunque livello.

    Di questo terreno si stabiliva soltanto il limite di fondo, opposto alla base detta “a cima”, che prendeva il nome di “u cièlu”, giungendo con l’attrezzo oltre questo limite si aveva diritto ad un massimo di punti precedentemente pattuito.

    Quali attrezzi per praticarlo erano sufficienti un bastone del diametro di tre o quattro centimetri, lungo tra i quaranta e cinquanta centimetri, inoltre un oggetto, ricavato da un pezzetto del medesimo bastone, della lunghezza di circa quindici centimetri, al quale si appuntivano le estremità, fino a farlo somigliare ad un fuso, la “pimpirinéla”, appunto.

 

LA  PREPARAZIONE

    Un giocatore, il battitore, conduttore del gioco, impiantava la sua partita contro gli altri, che, pur giocando nell’autonomia della prestanza personale, del coraggio o dell’abilità maturata, dovevano in qualche modo aggregarsi, per controbattere le ampie possibilità del battitore, difendendo il campo.

    Il battitore, aggiustato l’attrezzo sul diametro di un cerchio, tracciato a terra, che fungeva da base ed era chiamato “a ca’ ”; domandava agli avversari, schierati di fronte in ordine sparso, se concedevano la possibilità di battuta, con il grido convenzionale di: “Pimpirinéla”.

    Se uno soltanto degli avversari avesse risposto: ”brüta”, il battitore avrebbe dovuto riaggiustare l’attrezzo, trasversalmente al campo di gara, ripetendo la domanda fino ad ottenere da tutti i difensori la risposta: ”béla”.

 

LA  BATTUTA

    Allora, colpita una delle punte dell’attrezzo, lo faceva sollevare per aria, quindi con particolare tempismo avrebbe dovuto colpirlo al volo, spedendolo il più lontano possibile, con la maggior energia concessa, comunque ad un’altezza consona a mettere la “pimpirinéla” fuori portata delle mani avversarie.

    Infatti il compito più ambito dei giocatori, sparsi per il campo, era quello di afferrare al volo l’attrezzo, eliminando cose il battitore, togliendogli l’opportunità di addebitargli qualsiasi punteggio, quindi sostituendolo nell‘incarico, unico ruolo che permetteva di accreditarsi punti.

    Compito altrettanto importante, d’ognuno dei difensori, era quello di impossessarsi dell’attrezzo, anche dopo che questi avesse toccato terra, per iniziare con il battitore un confronto diretto, o attraverso un lancio calibrato, o cimentandosi nella stima verbale delle unità di distanza dalla base, sempre nell’ottica di sostituirsi al battitore.

 

IL  PUNTEGGIO

    L’unità ufficiale di distanza consisteva nella lunghezza del bastone di battuta, che nell’occasione veniva chiamato “càna” misurando in successione, fatto che prendeva il nome di “acànu”.

    Se il difensore detentore della raccolta, giudicava la base irraggiungibile con un lancio, assegnava al battitore la stima di punti-distanza che avrebbe concessi, annunciando il numero, dopo la frase: ”Te ne dàgu …………”.

    Il battitore poteva accettare il computo avversario, rispondendo: ”M’î pìgliu”, oppure dissentire, annunciando la propria valutazione, dopo la frase: ”Ne vögliu …………”.

    Allora il detentore aggiustava il computo, mercanteggiando la differenza tra i due valori, fino ad ottenere l’assenso del battitore, il quale si fregiava dei punti concessi e riprendeva a battere.

 

IL  LANCIO

    Se il detentore, raccolto l’aggeggio, giudicava effettuabile un lancio, a vantaggio suo, come di tutti i difensori, avrebbe cercato di annullare il risultato acquisito dal conduttore, annunciando la sua volontà col grido:”Lanzu”, e costringendo così il battitore a disporre il bastone lungo il diametro trasversale della base.

    L‘ottimizzazione del lancio consisteva nel centrare fisicamente, anche di rimbalzo, il bastone steso a terra nella base.

    Riuscendo in quest’impresa, il difensore si sarebbe aggiudicato l’ambito ruolo di battitore, annullando i punti-distanza del conduttore precedente.

 

LE  BATTUTE  PREMIO

    Non riuscendo nell’impresa, il difensore concedeva al battitore la possibilità di effettuare tre tiri consecutivi, che avrebbero costituito il nuovo termine di patteggiamento, ampliato a quanto il battitore fosse stato in grado di conquistare, sempre che non fosse giunto al “ciélu”.

    Nel corso dei tre balzi consecutivi, i difensori avrebbero potuto fermare l’attrezzo al volo, riuscendo cosi a neutralizzare, almeno in parte, il punteggio avversario, e costringendo il battitore a continuare con le restanti battute, riprendendo dal punto precedentemente conquistato.

    Effettuate le tre battute, il conduttore iniziava il patteggiamento, col difensore giunto sull’attrezzo, cominciando ad annunciare: “Ne vögliu ……………”.

 

LA  STIMA  IMPOSTA

    Era ovvio che il difensore detentore, consultandosi con quanti altri avessero interrotto i precedenti due voli, controbatteva in diminuzione.

    Cominciava il patteggiamento che il battitore avrebbe potuto decisamente interrompere annunciando: ”Me l’acànu”, volendo così dire d’essere tanto sicuro del risultato acquisito, da volerlo misurare nella realtà.

    Con quest’intervento il battitore rischiava di vedersi addebitare il punteggio minimo, ultimo assegnatogli; se non fosse riuscito a contare nella realtà le “cane” annunciate.

    Come rischiava di doversi accontentare della stima da lui stesso annunciata, anche quando, misurando, fosse risultato un numero maggiore di “càne”.

    Se i difensori interessati non avessero valutato, a quel punto, la concessione dell’ultima stima avversaria, si sarebbe passati alla misurazione.

    Questa era un’operazione, abbastanza faticosa per il battitore e piuttosto noiosa per i giocatori che non vi fossero coinvolti direttamente, per cui sovente il: ”Me l’acànu” poneva termine al patteggiamento.

 

LA  MISURAZIONE

    Se si fosse giunti ad eseguirla, il battitore avrebbe dovuto poggiare un’estremità della “càna”, sul punto dove era finita la “pimpirinéla”, punto che veniva marcato a terra, a scanso d’equivoci.

    Cominciando a rivoltare detto bastoncino e poggiandone in successione i due terminali lungo l’immaginaria linea retta che conduceva alla base, si contavano, ad alta voce, i segmenti conseguenti, alla più rapida misurazione possibile.

    L’azione del battitore era sottoposta ad un controllo capillare da parte dei difensori interessati, onde evitare che questi potesse eccessivamente dilatare la lunghezza dei segmenti, facendo magistralmente levitare la “càna”.

    Se uno dei difensori avesse scoperto un minimo d’inganno avrebbe annunciato: ”Strénzi”, costringendo così il battitore a ridurre drasticamente la velocità di misurazione.

 

IL  CAMBIO  DEL  MISURATORE

    Con l’annuncio: ”Strénzi”, il difensore si poneva nella condizione di sentirsi annunciare dal battitore: ”Acànateri tü”, e vedersi passare il bastoncino per proseguire nella fatica, a sua volta controllato dal battitore.

    Era ovvio che a quel punto il battitore avrebbe potuto intervenire ulteriormente, soltanto con l’annuncio: “Alàrga”, valutandone le conseguenze; oppure riprendere a dilatarli, annunciando: ”Acànu tùrna mi”

 

LA  RIPRESA  DEL  GIOCO

    Portato a termine l’ultimo patteggiamento o la misurazione conseguente, il battitore, fregiatosi del punteggio stabilito, riprendeva il gioco da capo, salvo l’essere sostituito.

    Al termine di un numero precedentemente concordato di partite, dette “man”, oppure al lo scadere d’un orario stabilito, avrebbe riportata la vittoria chi avesse saputo incamerare il maggior numero di punti, ovviamente avendo saputo conquistarsi il ruolo di battitore.

    La versione descritta è quella praticata nell’ultimo dopoguerra, ed è stata anche l‘ultima attivamente messa in atto e tramandata. Altre versioni, a questa precedenti, potrebbero presentare differenze anche sostanziali.