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U CIARAVüGLIU

    Ciaravügliu - Charivari - Ciabre - Tenebre: erano chiamate le medesime manifestazioni di pubblica condanna e derisione, che sanzionavano matrimoni atipici, anche sul Territorio Intemelio, fin dal XVI secolo; tali usanze continuarono fino al XIX, quando, quella tradizione è andata protraendosi nei villaggi delle Vallate, fino a tutto il XX. Si ricordano ciaravügli a Camporosso e a Pigna, ancora nell’anno 2002. Per dare documento di quanto avveniva, anche qui da noi, visioniamo una simile ricerca condotta nel Cantone elvetico di Vaud:

    Antico rituale di pubblica condanna e derisione, caratterizzato da una musica assordante, con il quale durante l’ancien régime la comunità sanzionava matrimoni atipici, comportamenti devianti e infrazioni in campo etico e morale. Nato come rituale di condanna informale delle seconde nozze dei vedovi, nel corso del XVI secolo. lo Charivari venne esteso dalle relazioni matrimoniali al controllo della morale pubblica e della vita politica; da qui la particolare importanza che assunse durante la Riforma. Protagonisti principali dello Charivari erano i giovani, che agivano in luogo degli adulti e con il loro consenso, interpretandone la volontà e prendendo di mira chi veniva identificato come avversario della comunità. Nonostante i divieti delle autorità civili e religiose, lo Charivari rimase nelle usanze svizzere dal XV fino al XIX secolo.; in alcuni villaggi del cantone Vaud si mantenne fino agli inizi del XX secolo. come una sorta di tributo che tutti gli sposi dovevano versare ai giovani: in quanto garanti dell’endogamia della comunità, i giovani esigevano un’offerta dagli sposi per far cessare il baccano.

 

 

Le tenebre e i beveraggi

                                                                                                   di Nino Allaria Olivieri

          Nel mese di giugno dell’anno 1763, il Bargello Otto da Genova, avuta denuncia dai Sindaci delle sommosse in atto in occasione dei matrimonio di alcuni vedovi; con un folto numero di milizie da Ventimiglia, si reca in Camporosso e in Vallecrosia, località di sua giurisdizione, per indagare e porre fine alle “tenebre” che un gruppo di sconsiderati facinorosi “trascinano da quattro notti urlando per le vie dell’abitato e devastando”.
 
       Divide le milizie in due gruppi: il sergente Ascanio è inviato a Vallecrosia, mentre riserva a sé i facinorosi di Camporosso e a notte fonda sorprende i “tenebranti”: due di essi sono fatti prigionieri e condotti in Ventimiglia. A difesa dei due malcapitati intervengono presso il Parlamento i sindaci di Camporosso e accusano il Bargello di troppa severità e di volere con il suo agire annullare “ciò che ab antiquo era uso farsi in occasione di un matrimonio di un vedovo”.
           
Alle opposizioni ufficiali il Bargello relaziona del fatto e del suo agire al Serenissimo Senato della Repubblica in Genova e richiede che siano emessi severi decreti in materia “a scanso di tumulti e grandi disordini”.
           
Era “la tenebra” una vecchissima usanza, diffusa in tutto il genovesato, ideata da buon temponi allorché un vedovo convolava a seconde nozze. Sorta quale manifestazione augurale di amici con il tempo mutò di intento e assunse carattere di illecita imposizione a cui era impossibile sottrarvisi. Il Vescovo Mascardi e il Vescovo Bacigaluppi con sonanti editti ne avevano proibito la pratica, scagliando interdetti e scomunica; è dall’editto del Mascardi che ce ne viene una dettagliata descrizione anche se tace dei particolari e si premura condannare i Rettori “che si prestassero a indicare il luogo o il tempo delle nozze”.
            
La “tenebra” iniziava la sera antecedente il giorno delle nozze, al calare della notte (da qui il lemma tenebra); un gruppo di spensierati con urla, rumori di pentole, battito di tamburi e agitare di campane percorrevano le viuzze del paese; erano le pre-tenebre, un avviso ai futuri sposi invitati a preparare il dovuto in vino e cibarie. La sera del giorno delle nozze i tenebranti si piazzavano sotto la casa e urlavano gli auguri. Per lo più era una fraseologia di trivialità e di invettive e di invito a farsi sulla porta di casa e pagare, sulla mano, il dovuto in abbondante vino, pane fresco di forno, canestrelli e leccornie. La richiesta, mai lieve, assumeva pesantezza allorché gli sposi erano giudicati abbienti.
           
Grande offesa era il rifiuto alle richieste e il chiudere loro in faccia la porta, anche se a notte inoltrata. Nuove invettive e maledizioni e promessa di protrarre “la tenebra” per altre notti fino a richiesta ottenuta.
             
Ma non sempre la tenebra e il beveraggio vennero condannati; i nobili le consideravano attestati alla loro virilità e generosità e le richiedevano.
           
La tradizione vuole che in Castelfranco la figlia del nobile Orengo giovane, poco avvenente, ma vedova, convogliasse a seconde nozze in Pigna. Il padre venuto a conoscenza che non avrebbe avuto la tenebra per rispetto al casato, convoca gli affittavoli e i quattro pastori alla sua dipendenza; ordina di fare turba con campani, pentole, tarabacche; promette e fa dono di buona quantità di vino e di tre agnelli. Le tenebre non furono di buon augurio; l’anno successivo la Caterina morì di parto.
             
Alle tenebre subentrarono i “beveraggi” altra imposizione popolaresca agli sponsali. Lo sposo, il giorno che precedeva il matrimonio, chiamava il più vecchio e il più giovane degli scapoli del paese, nel linguaggio locale venivano chiamato “l’Abau e l’Abatino”, consegnava loro buona quantità di vino e cibarie. Seguiva una cena “la notturna” alla quale prendeva obbligatoriamente parte anche lo sposo e fra canti e libagioni dava l’addio alla compagnia.
              
La relazione del Bargello viene accolta dal Senato in Genova; si temono altri tumulti e in data 9 dicembre 1763 ordina a Domenico Pineti, Governatore Giurisdizionale del Ponente, in San Remo, di emettere un editto proibitivo contro gli usi e le liberalità del popolino.
           
 Il 16 dicembre 1763, un suo editto minaccia pene corporali e prigione “con la confisca di tutto il ricevuto”. Ordina ai Sindaci della Giurisdizione di darne avviso “con richiamo di Trombetta e grida nei luoghi idonei”.
           
L’editto non tocca i diritti e gli usi delle chiese locali, tuttavia fa pervenire al Vescovo Giustiniani, in Bordighera, copia del decreto. Il Vescovo, oppositore dichiarato alle “tenebre” ne impone la divulgazione e l’affissione alla porta della Cattedrale e di tutte le chiese degli Otto Luoghi. A perenne ricordo ingiunge che sia esso, salutare e giusto decreto trascritto nel Settimo Libro Decretorum Ecclesiae Ventimilii, a pagina 135-136.
           
Fa seguire una lettera indicativa ai sacerdoti degli Otto Luoghi, in cui esorta educare i fedeli a maggior rispetto al sacramento del matrimonio.
          
La storia del dopo attesta che ne Senato, ne Governatore, ne Vescovo ebbero la meglio: l’usanza popolare delle tenebre e dei beveraggi travalicò il tempo e ancora oggi nei nostri villaggi non manca di rivivere, meno irrispettosa.

LA VOCE INTEMELIA anno LVIII n 1  - gennaio 2003

 

    Processione caratterizzata da grida, gesti osceni, frastuono, travestimenti e indirizzata contro vedovi o vedove che si risposavano, praticata soprattutto nell’Europa centrale e in Inghilterra nel Medioevo. Poiché non se ne hanno testimonianze precedenti i primi decenni del XIV secolo, la si ritiene collegata alle epidemie e alle carestie che investirono l’Europa del XIV secolo, in quanto espressione di disapprovazione sociale per un evento che danneggiava un equilibrio demografico già precario. La grande peste del 1348 gli assicurò poi fortuna. Nei secoli successivi, diminuita la pressione demografica, lo charivari assunse anche altri significati. Nell’Inghilterra del XVIII e del XIX secolo, per esempio, la processione bersagliava non solo i matrimoni anomali, ma tutti coloro che si ponevano contro la comunità, infrangendone la legge non scritta. Di origine incerta, sembrava però la traduzione cristiana di un più antico mito folklorico, diffuso nell’Europa medievale, dell’esercito selvaggio, ossia dei morti non placati perché deceduti anzitempo e che qui sarebbero schiere di anime purganti interpretate ritualmente dai partecipanti allo charivari, in cui quindi si sarebbero venute sovrapponendo nuove funzioni sopra vecchie forme rituali, più lente delle prime a modificarsi. In seguito la pur minima coerenza tra forme e funzioni andò perdendosi e con essa anche le implicazioni mitiche del rito.

A. Moroni

 

 

    Massimo Centini, antropologo del Centro Studi Tradizioni Popolari di Torino, studioso di cultura alpina, ha riproposto recentemente nelle pagine del periodico Coumboscuro il percorso di questa antica consuetudine, richiamando atmosfere di sapore medioevale non abbastanza conosciute. Ecco una sintesi di quanto il ricercatore ha scritto in proposito: Abbiamo notizie, nelle fonti medievali piemontesi, della pratica della ciabra, più nota con il nome francese di chiarivari, una sorta di chiassoso corteo mascherato, che aveva la funzione di deridere il secondo matrimonio delle vedove e dei vedovi... Le ciabre, costituite dalla chiassata vera e propria e dalla richiesta di riscatto ai vedovi, erano spesso organizzate da gruppi strutturati, con un Abate della festa a capo. Per frenare queste forme tradizionali che nascevano nella religiosità, ma ne fuoriuscivano quasi subito, Amedeo VIII di Savoia, comminò una multa di 25 soldi a quanti sarebbero stati sorpresi a partecipare alla ciabra: “Condanniamo in modo assoluto i ludibri delle maschere e mostruosi camuffamenti che alcuni osano fare in disprezzo e beffa del sacramento matrimoniale degli sposi, col nome di chiarivari; e così pure i detestabili mascheramenti che si fanno in certi giorni festivi, specialmente nelle feste di San Nicolò e Santa Caterina: alcuni vestendosi in modo di diavoli e girando per le vie e i mercati della città, fermano i contadini e le persone semplici e li costringono, con la violenza e spesso con percosse, a riscattarsi per danaro”. Altre testimonianze hanno documentato nelle valli alpine di Cuneo l’usanza del “Comperare la Capra”, allorché in una famiglia i figli più giovani si sposavano prima dei fratelli anziani, una forma di chiarivari nostrano che si avvicina a quello riproposto dall’Associazione “Masche di Paroldo”, che ha saputo spettacolarizzare le “ciabre” ed è pronta ad esportare e far conoscere in giro per il Piemonte questa sua perfomance culturale: “I fratelli anziani che ancora non riuscivano a sposarsi erano costretti a “chatar la chabro”, a comprare la capra. Nel giorno delle nozze, dopo la cerimonia religiosa, durante il pranzo, qualche invitato andava a prendere una capra e la portava davanti al fratello o alla sorella più anziani. Le tiravano le orecchie per farla belare più forte e dicevano: “...guardate che bella capra ha comprato” e tutti battevano le mani. Quindi la mungevano e con il latte facevano i tomini che venivano mangiati da coloro che si erano fatti precedere nel matrimonio. Ma non era ancora tutto finito perché poi venivano gli scherzi della prima notte. Alcuni invitati preparavano qualche sorpresa nel letto agli sposi.  Facevano il sacco, oppure mettevano dei campanelli o dei campanacci delle mucche sotto il letto. Se riuscivano li bagnavano o infilavano mazzi di ortiche in fondo al letto. Si nascondevano in camera e li spaventavano”.

 

 

Dal “Glossario Medievale”

di Girolamo Rossi

Zabra * - «Ciabre» in Piemonte, e «chiaravugli» in Liguria.
       
De zabra secundo nubentibus non fienda. (Synod. epis. taurinensis Provane, 1507, cap. LXXX).

Chiaravuglius * - Rumori notturni, che si facevano contro gli sposi in seconde nozze, chiamati ciabre in Piemonte, tenebre a Genova e tamburate a Massa e Carrara).

Gabella chiaravugli sive illorum qui accipiunt uxorem viduam. Qui transiverit ad secundum votum teneatur solvere pro qualibet summa librarum centum solidos decem et sic ad eamdem rationem, et non possit ultra aliud petere preterquam solidos decem pro centenario, et teneatur maritus talis uxoris denunciare et solvere dicto gabellato infra dies octo. (Tractatus de gabellis Vintimilii).

Nel primo sinodo del vescovo di Ventimiglia Promontorio, si legge esser proibiti: Strepitus rumoresque tumultuosos per vicos et plateas vel etiam ante domum habitationis iterum nupte vel ejus sponsi, quod hic vulgo chiaravuglio dicitur.

A p. 462 della Istoria di Sospello de l’Alberti si ha, che quel comune eleggeva ogni anno fra i pubblici ufficiali li ciariviglieri o capitani del ciavarino; negli Statuti di Nizza del 1673, p. 71, è prescritto: gli abbati dei balli haveranno l’essazione dei chiaravigli entrate e uscite di spose. Chiaraviglieri sono chiamati questi ufficiali negli Statuti di Briga; e leggermente modificato in Charaviariam è ricordato questo vocabolo dal Saraceno a p. 236 del Regesto dei Principi d’Acaja.

 

 

 

U CIARAVÜGLIU IN VAL NERVIA 

 

          Una antica usanza della Val Nervia e della Val Roia era quella di sottoporre i vedovi o le vedove che convolavano a seconde nozze a una specie di processo pubblico. Questa “azione-giudiziale-pubblica”, oggi caduta in disuso, veniva chiamata ciaravügliu* e consisteva nel celebrare pubblicamente un processo a coloro che si erano macchiati di questa “colpa”, al fine di ottenere un risarcimento simbolico per l’ipotetico danno subìto dalla comunità paesana.

            La manifestazione avveniva la stessa sera delle nozze. Poco dopo l’imbrunire una moltitudine di gente cominciava a schiamazzare sotto le finestre della casa dei novelli sposi mentre dalla piazza principale del borgo partiva un corteo capeggiato da una specie di gran cerimoniere, u gran ciaravügliê, che aveva il compito di leggere al responsabile, in alcuni casi ai responsabili, la “colpa” per avere proceduto a nuove nozze.

             Per dare maggior solennità alla cerimonia il gran ciaravügliê era azzimato con una vistosa palandrana e cavalcava un mulo o un asino anch’esso ricoperto di fantasiose bardature. Uomini, donne ragazzi e ragazze seguivano il maestro di cerimonia muniti di pentole, coperchi, campanacci, trombe, insomma qualsiasi tipo di arnese che potesse far rumore.

            Quando il corteo raggiungeva l’abitazione degli sposi veniva data lettura del reato, reso flagrante dalla coabitazione, e poi si passava immediatamente alla specificazione della pena che consisteva in una distribuzione a tutti i presenti di vino e focacce.

            Letta la sentenza e la specifica della pena, i partecipanti alla manifestazione davano il via, con gli strumenti in loro possesso, ad un chiasso infernale che durava fintano che gli imputati non si affacciavano alla finestra. A questo punto gli sposini erano costretti, loro malgrado, ad offrire tutto quello che era stato richiesto.

          Quando le finestre non si aprivano e gli sposi si rifiutavano di offrire ai compaesani lo spaudo, lo schiamazzo andava avanti fino alla mezzanotte. Per poi essere ripreso la sera o le sere successive fino a che gli sposi non avessero pagato il pegno: solo da quel momento in poi avrebbero potuto godersi in pace la nuova luna di miele.

 

* Antica usanza, probabilmente risalente al Medioevo, che un tempo veniva praticata su tutto il territorio ligure. Nell’estremo Levante viene chiamata: a Castelnuovo ciamberlata o skampanata, a Fosdinovo zumbalata, a Sarzana ciamberlada, a Levanto tambüata, a Zanego zambeada, a Montemarcello bataia. In alcuni paesi questa chiassata si faceva anche in occasione di riconciliazioni tra marito e moglie dopo plateali separazioni.

 

                                           Dalla rubrica Cose d’altri tempi di Marino Cassini, pubblicata su “La Gazzetta di Isolabona” 1994.