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USANZE  POPOLARI

C A R N E V A L I

VENTIMIGLIESI

                                                                                            Luigino Maccario  - 1990
                                                                                                

RIFERIMENTI  STORICI

    Si hanno notizie di Carnevali ventimigliesi, popolarmente molto sentiti, all’inizio del secolo, con elitari veglioni nel Teatro Civico, in città alta, ora Civica Biblioteca, e poi nel nuovo Politeama Sociale della città bassa, ora Teatro Comunale.

    Nel suo memoriale lo storico Girolamo Rossi ci informa che: la sera del 9 febbraio 1893, alle ore 21, ha fatto il suo ingresso in città la mascherata rappresentante Carnevale, col nome di “Marchese III”. Nella serata del giorno 14, si era bruciato il Carnevale, al Cavo. 1

    Per il conte Camillo Benso di Cavour, giovane ufficiale del Genio Sabaudo, inviato nella nostra città per ristrutturare il forte San Paolo, il Carnevale ventimigliese del 1829 era:“… oltremodo brillante” e ne informa in una lettera la nonna Filippina, chiamata affettuosamente Mairina, cui era particolarmente legato. Nella stessa lettera dice ancora: ”… In compenso si balla tutte le domeniche, tutto il giorno e la notte, sebbene fino ad oggi non si siano viste che delle danze popolari, cui ha partecipato unicamente il popolino. Tuttavia ci son stati promessi dei balli un po’ più eleganti ai quali interverranno tutte le bellezze ventimigliesi. E siccome il bel sesso del luogo è molto grazioso, la cosa si presenta senz’altro sotto un aspetto affascinante”.2

                      Cavour giovane tenente                                                                    La Nizzarda

 

 

IL  BALLO  COME  SFOGO  POPOLARE

    Del Carnevale a Ventimiglia e della smania per il ballo dei suoi cittadini, siano stati essi popolari o di classe elevata, abbiamo notizie ancora più antiche. Già nel XVI secolo, il vescovo Grimaldi sarebbe intervenuto moderatamente per limitare il divertimento del ballo al solo periodo del carnevale; ma nel 1586, un’altro vescovo ventimigliese, monsignor Galbiati, condannava aspramente il ballo denominato “la nizzarda”.3

    Il segretario del cardinale Aldobrandini, nel 1601 scriveva di una festa di Carnevale a Ventimiglia cui ha assistito e dove ha visto ballare “la nizzarda”, ballo che giudica veramente grazioso.4

    Oltre al ballo, si svolgeva un corteo in maschera, qualche volta accompagnato da carri allegorici, in ogni caso composto sempre da popolazione festante e danzante. Certamente era vivo il rituale di camuffarsi per non farsi riconoscere e poter così dar sfogo a temporanee rivalse, almeno verbali, verso i potenti.

    Persino sul nostro territorio, le feste popolari che si celebravano nell’antica Roma, in onore di Iside agli inizi del mese di marzo, hanno trovato esecuzione nel senso suggerito dalla reale etimologia della parola “carnevale”.5

    Molto della coreografia di questi rituali dipendeva dalla protezione totemica desiderata dalla comunità medesima. I lupercali del popolo romano esaltavano il lupo fecondatore, mentre in altre località, ad esempio, era il suino coi suoi derivati a tenere banco.

    Residuo di tali riti si potrebbe riscontrare nel nostro attuale carnevale, nel quale, pur essendosi esaurita la funzione carnevalesca, restano parvenze di antiche usanze pressoché scomparse, quali, ad esempio il lancio di coriandoli e stelle filanti o il fatto che la maschera principale sfiori con un pesce affumicato i partecipanti (come vedremo nel paragrafo che segue).

 

                   Lupercoli                                                                                    Pescatore con la canna

 

FORMALITÀ  DISSACRATORIE

    Precise informazioni dateci da Emilio Azaretti e confermate dall’esperienza diretta di numerosi altri informatori, ci hanno fornito le caratteristiche peculiari di un personaggio immancabile nei carnevali ventimigliesi d’anteguerra. Il tipo mascherato descrittoci era detto Chélu ch’u fa’ pità. Indossava sempre un enorme camicione col quale mimetizzava le reali sembianze del folle giullare per ovvie ragioni di temute rivalse, possibili, visto l’incarico di dissacratore satirico che assumeva nei confronti della politica cittadina, anche se solamente nei giorni di Carnevale. 6

    La sua caratteristica estetica più rilevante consisteva nel fatto di essere armato d’un lungo bastone dal quale pendeva un’aringa affumicata.7 Si presentava con una frase di rito:(“Sun Segù, u pescavù, òn a cana inescà, vögliu fate pità”), portando l’aringa penzoloni davanti al naso del malcapitato preso di mira e, sempre alterando la voce in falsetto, gli proponeva: ”Ti pìti, ti pìti”, istigandolo ad abboccare all’amo.

    Ad una qualunque reazione del soggetto scelto, iniziava, sempre in uno strettissimo falsetto, la sequela delle invettive popolari, più o meno pubbliche o più o meno note, che lo riguardavano, non risparmiando proprio nulla. Ebbene, se il malcapitato abbozzava, tutto finiva in allegria tra una bevuta generosamente offerta alla compagnia; se, viceversa, si alterava, peggio per lui, perché la città tutta sarebbe ben presto stata informata delle presunte malefatte o scandali.

    Lasciata una vittima, la “maschera” andava subito alla caccia di quella successiva, la quale, se personaggio pubblico, avrebbe fatto meglio a farsi trovare tra la folla festante in modo bonario e spontaneo. Con questa presenza si sarebbe risparmiato ben più feroci canzonature, che non sarebbe stato semplice sminuire ridendoci sopra come se nulla fosse.

    Compito rilevante, gravoso e delicato aveva dunque la maschera Chélu ch’u fa’ pità, ovvero colui che invita, che costringe a beccare. Era, di solito, il giovanotto in possesso delle migliori caratteristiche di attore, mimo ed improvvisatore di tutta la compagnia di buontemponi che frequentavano i caffè culturali cittadini in auge negli anni Venti.

    Le notizie ed i testi delle punzecchiature erano creati coralmente, nelle insonni nottate precedenti il Carnevale, ma gli appunti strategici sugli argomenti piccanti venivano raccolti e conservati nel corso dell’intero anno, quando capitavano o quando se ne veniva informati, meglio se segretamente: tutto nella prospettiva della più o meno accettata originariamente, trasgressione carnevalesca.

 

                                                                                                                                                   Bacco ebbro

IL  RUMPIPIGNÀTA

 

    Il Carnevale vero e proprio inizia il giovedì ed i giorni fino al lunedì successivo, “a setemana grascia”, vengono considerati giorni de carlevà, mentre il martedì grasso è il vero e proprio carlevà, il giorno dopo si entra in quaresima, anche se l’atmosfera resta carnevalesca fino alla domenica successiva.

    Un’altra delle caratteristiche del Carnevale locale è la sua durata, derivante dall’influenza subita dal Rito Ambrosiano, a causa della lunga appartenenza dalla diocesi intemelia a quella metropolitana di Milano conclusasi il 9 aprile del 1806.8

    Come accade su tutto il territorio lombardo ed in qualche altro luogo della Riviera di Ponente, anche Ventimiglia, nella prima domenica di Quaresima, indice la festa popolare della “pentolaccia”.

    Fino agli Anni Cinquanta, la celebrazione di questa festa, detta idiomaticamente del rumpipignàta, era molto sentita, tanto che persino la pubblica autorità indiceva un raduno popolare, attorno a mezza dozzina di pentolacce, pronte da sorteggiare.

    Il contenuto delle pignatte era quasi sempre di natura alimentare, a volte un oggetto di un certo pregio, ma naturalmente non mancava quello liquido, cioè l’acqua ..., sovente, per irrorare il malcapitato bendato che si voleva cimentare.

    Negli anni successivi, la manifestazione venne sempre più dedicata ai bambini, con le meno ruvide pentolacce di cartone ricolme di caramelle, ma anche di coriandoli e segatura che, nell’immancabile esito di burla, sostituiva - trattandosi di bimbi - la più insidiosa acqua, o qualcosa di peggio.

 

                  Il Carrus navalis                                                                         A porta d'u Cuventu          

 

LA  FILASTROCCA  DI  CARNEVALE

    Com’è nella migliore tradizione, anche il Carnevale ci ha tramandato una sua filastrocca, documento ricordato ancora da Emilio Azaretti, con un testo tutto improntato alla coincidenza tra il divertimento, l’enologia e la gastronomia:

 

Carlevà u l’è mortu

imbriàgu cùme in pòrcu;

u l’à fàitu testaméntu

ìnscia pòrta d’u Cuvéntu,

lasciàndu ai sòu figliöi

tagliarìn e raviöi.

 

    Come tiritera entra di diritto tra i più classici rituali popolari del Carnevale, che sarà bruciato come capro espiatorio facendo appena in tempo a mettere a buon fine il lascito testamentario, il quale ultimo, oltre al buon vino di cui Carnevale si dimostrava satollo, conterrà due tra le più conosciute specialità gastronomiche locali.

    Nel menù tradizionale del Carnevale spicca un dolcetto fritto, assai semplice, confezionato con strisce di pasta intrecciate o variamente involtate, poi spolverate di zucchero. Il loro nome dialettale è e buxìe, (le bugie).

NOTE :

(1) Girolamo Rossi: Cronaca Ventimigliese 1850-1914, estratti e note di Emilio Azaretti.  - Cumpagnia d’i Ventemigliusi 1989. p. 43.

(2) Girolamo Rossi: Storia della Città di Ventimiglia - Eredi Ghilini  Oneglia 1886. p. 217.

(3) Domenico Astengo - Emanuela Duretto - Massimo Quaini: La Scopetta della Riviera viaggiatori, immagini, paesaggio  - SAGEP Genova 1982.  p. 185.

(4) Erino Viola e Serena Vatta Leone: L’esilio a Ventimiglia del luogotenente Cavour.  - I MESI, anno 6, n. 4, dicembre 1978, p. 75.  - Istituto Bancario San Paolo di Torino.

(5) Carnevale, ci riporta al “carrus navalis”, il battello su ruote, preceduto da gruppi burleschi di personaggi travestiti, sul quale era trasportato il simulacro di Iside, protettrice dei marinai, tra le danze ed i canti liturgici della popolazione romana, ancora verso la fine dell’età imperiale. Alfredo Cattabiani: Calendario, le feste, i miti, le leggende e i riti dell’anno. Rusconi  Milano 1988. p. 151.

(6) Sfogliando Paolo Toschi; deriviamo le affinità del nostro personaggio con gli “issocadores” del folclore sardo di Mamojada, in Barbagia. Questi figuranti, in processione danzata, associati ai “mamutones, sorta di “umbrae silentes”, frustano le persone che assistono al corteo, e la frusta è un attrezzo dalla forma assai simile alla canna da pesca. Questo rito potrebbe rifarsi agli antichi Lupercali, nel Lazio, che si celebravano a Roma il 15 febbraio, ed ormai trasformate in un rito di fertilità, fin dai tempi degli antichi re. Due giovani, rivestiti delle pelli degli animali sacrificati, correvano intorno al Palatino, percuotendo con strisce di cuoio, tagliate dalla pelle del lupo, le donne ansiose di garantirsi la fecondità. Secondo Pierre Échinard, sulla spiaggia di Marsiglia, al culmine della “nuotata di Caramantran” alcuni gagliardi fendono l’oceanica folla, portando in spalla a mo’ di fardello un bastone, con appesa un’aringa salata, a significare il sopraggiungere della Quaresima e della sua magra dieta. Paolo Toschi  - Le origini del Teatro italiano  - Boringhieri, Torino 1979; pp 182/185.

(7) La derivazione di quell’armamentario gli giunge dai rituali isiaci, dove maschere addobbate da pescatore provvedevano alla cattura delle anime dal mare dei peccati. Il Donini, invece ci avvia ad un’interessante evoluzione sul significato dell’aringa, o del pesce in generale, quale ancestrale protettore totemico della popolazione locale. Ambrogio Donini  - Lineamenti di storia delle religioni, (Roma 1959) ci si avvia ad un’interessante evoluzione sul significato dell’aringa, o del pesce in generale quale ancestrale protettore totemico della popolazione locale.

(8) Una conferma dei riferimenti liturgici al Rito Ambrosiano, presenti nella nostra Diocesi, la ricordavano i paramenti sacri dedicati al Santissimo Sacramento, presenti in Cattedrale, ancora al termine dell’ultimo conflitto mondiale e dispersi per incuria attorno agli anni Sessanta. Quando la Cattedrale fu restaurata, seguendo anche le variazioni della liturgia esteriore dettate dal Concilio, si perse l’uso di rivestire le colonne e certe pareti con i pesanti paramenti, legati ai colori del calendario liturgico. Oltre ai paramenti, anche il baldacchino per accompagnare le processioni dedicate al Santissimo Sacramento era di colore rosso, secondo il Rito Ambrosiano, mentre il Rito Romano prevedeva, da sempre, il colore bianco. Oltre alle cotte ed alle dalmatiche degli officianti, sempre in color rosso era l’ombrello dedicato al trasferimento del viatico verso la casa d’un morente.

da INTEMELION n. 11  - 2005  - Archivio della memoria p. 157

         Aringhe dolci                                                                      Aringhe salate
           

                   Tagliarin e raviöi                                                             E Buxie