rivista il: 10 agosto 2012
STORIA
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ALTO  MEDIOEVO  A  VENTIMIGLIA
di  Luigino Maccario

LA CONTEA DI VENTIMIGLIA

Il Conte, nell’ambito dei suoi poteri, tendeva ad accaparrarsi la caccia della selvaggina, in certi territori riservati. Il fondamento giuridico di tali pretese era e resta oscuro, verosimilmente, era solo quello della legge del padrone. Identiche erano le requisizioni, imposte ai censuari: quali l’obbligo di albergare e nutrire la muta del signore, costruire capanne nei boschi, nella stagione in cui si tenevano le grandi adunate dei cacciatori. I signori praticavano tali “sport” nelle forme più attraenti: caccia con i levrieri e col falcone, trasmesse all’Occidente dalle civiltà equestri delle pianure asiatiche. La caccia avvicinava quei guerrieri alla natura, ma non mancavano i tornei e le finte battaglie tra i giovani, che servirono, in ogni epoca, ad allenare le truppe ed a svagarle. Nelle Riviere era in uso la “Bataiola”, combattuta almeno tre volte l’anno, tra due fazioni di giovani, protetti da corazze ed elmi di vimini ed armati di bastoni e spade legnose. Questa usanza sopravvisse, nel popolo, in occasione di certe feste, cristianizzate, piuttosto che cristiane: come quegli altri “giochi pagani”, più nobili, quali i tornei. Questi si tenevano a maggio, per il Solstizio d’estate, nelle Feria d’agosto ed all’Equinozio d’autunno. Nell’organizzazione feudale, i detentori del potere di origine pubblica pretendevano di assimilare il territorio, che costituiva la loro circoscrizione, ad un grande dominio. Pretendevano di estorcere a tutti i residenti ed a tutti i passanti, che non fossero cavalieri, ciò che estorcevano ai non liberi di. loro proprietà. inoltre assumevano arbitrariamente gli strumenti del potere pubblico, quando volevano applicarli alla parte disarmata della popolazione. Le assemblee riunite nelle campagne, per giudicare gli umili di condizione libera, diventarono dei tribunali domestici; sovente i Conti delegavano a presiederle uno dei loro funzionari. In quei tempi il Contado ventimigliese aveva per confini: a levante il torrente Armea, a mezzogiorno il mare, a ponente, dal Monte Agel, sopra la Turbia, sino alle radici del colle di N.S. delle Finestre ed alle acque della Tinea. Comprendeva i luoghi di: Lantosca, La Bolena, Gordolone, Lucerame, Belvedere, Roccabigliera, Venanzone; a settentrione abbracciava i contadi. di Auriate e Bredulo. In seguito, i Ventimiglia acquistarono i luoghi di Limone ed Alvernante, come allo scioglimento della Marca arduinica, il confine d’oriente giunse fino al torrente Arroscia. Così costituita, con la pastorizia, il taglio dei boschi, la cultura dell’ulivo, i porti di Ventimiglia e San Remo, le comunicazioni con il retroterra piemontese attraverso il Colle di Tenda, la Contea prosperò per circa tre secoli. In questo distretto amministrativo i Conti oltre a capitanare le milizie in guerra, provvedevano al governo, alla giustizia e prelevavano imposte indirette, dette telonei, fissate sulle transazioni, diritti di fiere e mercati e tasse sui trasporti. Delegavano Visconti, come a La Penna; o Castellani, come a Dolceacqua, Castellaro e Sant’Agnese; considerate centene. Tenevano corte comitale a Ventimiglia, in un castello le cui rovine sono state trovate sul bastione scistoso dell’attuale Cavu. Ogni quaranta giorni dirigevano il mallus, tribunale pubblico in nome dell’imperatore. Inoltre poichè lo Stato richiedeva il servizio militare agli uomini liberi più ricchi, il conte trasmetteva gli ordini di mobilitazione. Per i luoghi di Gorbio, Sant’Agnese e Castellaro dovevano ricevere l’investitura dal Vescovo. I Conti di Ventimiglia si dichiaravano di legge latina, quindi pare non discendessero da famiglie di origine germanica, oppure avevano assunto questa nelle precedenti generazioni. L’Imperatore cedeva ai Conti l’usufrutto di alcuni domini fiscali della contea, chiamati “onore”; mentre il Conte tratteneva per sé un terzo delle ammende inflitte dai tribunali ed un terzo di un certo numero di tasse pagate dagli amministrati. Il territorio veniva suddiviso tra la riserva del padrone ed i mansi dei conduttori, che coltivavano l’insieme trattenendo per sé i prodotti dei mansi. La base della società agricola consisteva nella “villa”, che associava ai proprietari i lavoratori. A partire da quella cellula consolidata che diventerà villaggio e molto spesso la parrocchia, si svolgerà la vita comunitaria delle famiglie e dei gruppi, rafforzando la coesione sociale. Le donne erano costrette al lavoro collettivo nel gineceo, il laboratorio tessile femminile. Il conte attingeva a suo piacere ai figli del popolo ed ogni capanna costituiva un vivaio attraverso cui mantenere le squadre di servitori a tempo pieno. Poteva prelevarne le ragazze per maritarle a modo suo, mentre, se il padre voleva riservarsi questo diritto, doveva comprarla. Pretendeva una parte della successione, il bestiame alla morte del padre, o il corredo alla morte della madre. Divenute, prima o poi, ereditarie, negli stati dell’Impero carolingio, le contee non erano state tutte assorbite dai grandi principati. Certune conservarono a lungo un esistenza indipendente. Il nostro comitato, mirato e conteso da Provenza e dall’emergente Comune genovese, ha potuto gestirsi fino al 1222, retto dai Conti fino all’XI secolo, levandosi poi come Libero Comune marinaro, mentre i Conti restringevano il loro dominio esclusivamente sul trafficato valico montano di Tenda, istituendo di fatto la Contea di Tenda. Nell’Italia lombarda ed in grado minore in Toscana, pur seguendo le direttive germaniche, gli agglomerati di contee in mano di una stessa chiesa erano cosa rara. Dietro al vescovo-conte sorse ben presto un nuovo potere, quello del Libero Comune cittadino, appunto. Intanto l’aristocrazia laica, per sopravvivere, trovava l’espediente della “avvocatura”, di legislazione carolingia. Ogni “chiesa”, dotata di immunità fiscali e politiche, doveva possedere il suo “advocatus”, scelta attentamente sorvegliata dall’autorità pubblica.
        Di fatto  il vescovo di ciascuna città, delegato dall’imperatore, sorvegliava il conte.

 

Milite feudale
 

 

LA CONTEA  ASSEGNATA ALLA MARCA DI SUSA

       Il territorio delle Alpi Marittime, dal Margureis fino al mare passava, di fatto, sotto la dominazione provenzale.
950   Ventimiglia veniva assegnata alla Marca Arduinica, di Susa.

953   Guidone cita “... in capella di Sancti Michaelis, quam patres meus construi fecit in oliveto apud Vintimilium ...”
954   Guidone, conte di Ventimiglia e marchese delle Alpi Marittime, partiva con Ildefonso di Aragona, contro i Saraceni. Divideva i feudi tra i figli Corrado, Ottone e Rolando, oltre a legare alla rinomata abbazia di Lerina, il priorato della chiesa di San Michele, fatta costruire da suo padre, ed il castello di Seborga, l’antica Castrum Sepulcri. Ordinava la fabbrica della cappella di Sant’Antonio in San Michele, sepolcro della famiglia contile, e disponeva la costruzione di un ospedale, presso la chiesa, per la cura d’una epidemia di fuoco sacro.

958   In Genova, venivano rese pubbliche “consuetudines adorabatae” che regolavano l’autonomia cittadina.
959   I monaci di Lerina stabilivano la residenza di un convento nel castello di Seborga, donato dal Conte Guidone. Ne rimarranno in possesso fino al 20 gennaio 1729.
960   L’11 agosto, a Ravenna, Ottone I assegnava al marchese Aleramo 16 Corti. Nasceva la Marca di Savona.
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962   Per l’incoronazione dell’imperatore Ottone I°, in Roma, fu presente il vescovo ventimigliese: Gioioso.
Il vescovo di Genova distribuiva a numerose famiglie terre, nella zona a Levante della Contea di Ventimiglia, da concedere a “pastinatio”.
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       I contratti “ad plantandum” ed “ad pastinandum”, in base ai quali, dopo un certo periodo di tempo, generalmente di dieci anni di esenzione dal pagamento dei canoni, i concessionari diventavano comproprietari della terra insieme al concedente, o più spesso, acquisivano il diritto ad una parte del raccolto. La domanda era cosi elevata che, in Liguria, la pastinatio e la colonizzazione in genere, assunsero la forma di imprese collettive.
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Contratto di Pastinato
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967   Le truppe inviate dall’imperatore Ottone I per sedare la coalizione tra Saraceni e feudatari locali nell’estremo Ponente Ligure, passarono il Colle di Tenda, ma vennero fermate avanti di raggiungere Ventimiglia.
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972   In estate, mentre attraversava le Marittime, tornando in Borgogna, dall’Abazia di Bobbio, Maiolo, famoso e nobile abate di Cluny, veniva catturato dai Saraceni del Frassineto.
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       Verrà pagato un riscatto, ma il famoso abate non verrà liberato. Si innescherà così la reazione della nobiltà occitana, borgognona, piemontese e ligure che, invece di accettare i servizi dei Saraceni com’era capitato fino ad allora, radunerà le sue forze per scacciare definitivamente i Mori dal Frassineto.
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Maiolo abate di Cluny
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Arduino III° Glabrione, marchese di Torino, distruggeva i Mori nel covo del Frassineto.
973   Il conte Guglielmo d’Arles scacciava definitivamente i Mori, dalla Provenza.
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       Era epoca di violenza. La violenza era nell’economia, nel diritto e nei costumi. Violenta era la classe dominante e guerriera, violenta la famiglia, violenti gli individui per sopravvivere. Nella profondità di quell’epoca sconvolta i capi erano alla ricerca ed imponevano la pace. L’aspirazione alla pace, percepita come un bene che favoriva i commerci, nella Provenza del X secolo, portava alla nascita di un movimento pacifista, la “tregua Dei”, che tendeva alla conurbazione dei gruppi di vicini ed associazioni consortili. La coesistenza di elementi feudali e ceti emergenti di differente estrazione, avrebbe dovuto creare lacerazioni, nei confronti dei codici culturali difformi, cui entrambi facevano riferimento. Invece, l’intervento della Chiesa, sollecitato dai comportamenti. positivi del Monachesimo, tese alla predicazione ufficiale della “tregua Dei”, che si diffuse, ben presto, per tutta l’Italia nord occidentale. Andava formandosi il movimento delle “Leghe per la Pace”, che coinvolgeva cives e feudalità, alla ricerca di annullare la nociva presenza saracena, sui mari, ma specialmente nei territori della Spagna, della Francia mediterranee, corre dell’Italia nord occidentale. Tra gli armati dei Comuni e le forze feudali si instaurava un rapporto di collaborazione, ossequiente all’idea predicata dalla Chiesa, onde condurre “guerre cristiane” al comune, invadente, nemico islamico.
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Tregua di Dio
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974   Teodolfo, vescovo di Genova, confermava la concessione, agli uomini di San Römu, dei territori matuziani, siti nel contado di Ventimiglia, con la testimonianza del cardinale Brunengo, già vescovo di Ventimiglia.
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976   Per riconsacrare l’abazia di Novalesa, ricostruita dopo le scorrerie saracene, veniva inviato, quale legato apostolico, il vescovo di Ventimiglia, di nome: Pentejo.
977   Un documento citava coltivazioni di olive nel territorio di Ventimiglia.
978   Nella divisione in Marche del Regno d’Italia, la nostra città era inserita nel “Maris Littora”, aggregato e diviso tra la Marca di Tuscia, quelle della Liguria Orientale ed Occidentale e la piemontese Marca in Italia.
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       Nella Marca Littora, la Contea di Ventimiglia comprendeva l’intero bacino idrografico del Fiume Roia, con le fortezze dei dintorni di La Piena, Saorgio-Malamorte, Breglio, Tenda, Briga, Baiardo. Queste erano presidiate dalle milizie della nobiltà locale, come lo era la costa, nelle fortezze di Eze, Monaco, Roccabruna, Mentone, Ventimiglia e Montenero.
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979   Il vescovo di Genova: Teodolfo, conduceva alcune famiglie d’agricoltori ad occupare i “loco et fundos Matucianos”, oggi San Remo, ed a dimorare in “loco et fundo Tabia”, oggi Taggia.
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       L’espansionismo genovese produceva le prime abili mosse. Sia la nobiltà genovese che quella ventimigliese prosperavano con i commerci, ma specialmente con azioni navali “di corsa” o “corsare” che dir si voglia. La differenza che porterà alla sopraffazione genovese, stava nella possibilità di usufruire di un porto naturalmente più efficace. Un golfo naturale, ottimamente strutturato dai genovesi, contro un porto canale, delicato nelle strutture e malamente sfruttato dai ventimigliesi.
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990   Il vescovo Pentejo, riconsacrata l'Abazia di Novalesa, riceveva in dono la reliquia del capo di San Secondo; martire tebeo a Victimulo, presso Vercelli; che trasferiva a Ventimiglia, dando inizio al culto ed a molte leggende sul santo.
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    Potrebbe aver avuto inizio la costruzione della Cattedrale romanica, sul terreno occupato precedentemente da una chiesa preromanica, edificata sulle fondamenta di una precedente bizantina o normanna, che aveva preso il posto di  un tempio pagano, dedicato a Giunone.
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CATTEDRALE  ROMANICA
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        Il restauro che dal 1947 ha interessato l’esterno, fino al completo racconcio interno degli anni attorno al 1960, ha riportato alla luce le pietre originali dell’XI secolo, nascoste dai precedenti rifacimenti, fino a quello del Mella, nel 1877. Le reliquie di San Secondo sono servite per dare ai ventimigliesi qualcosa di concreto da venerare, in alternativa all’Assunta, patrona della città e dalla diocesi, che di reliquie proprio non poteva fornirne.
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994   Attorno all’anno Mille, il Capitolo ventimigliese svolgeva le Rogazioni.
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              LE  ROGAZIONI  A  VENTIMIGLIA
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996   L’imperatore Ottone confermava l’investitura del contado di Ventimiglia ad un non precisato rampollo di casta romana, o gallica, o ligure-romana, per il fatto che gli eredi, negli atti, professeranno sempre la legge romana.
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       Potrebbe trattarsi di Corrado, figlio del conte Guidone,  autore del testamento apocrifo nell’anno 954. La madre di Corrado sarebbe stata Eleonora, sorella di quell’Umberto Biancamano che in Borgogna stava guadagnandosi l’investitura della Savoia, sostenendo Rodolfo III l’Ignavo, ultimo re burgundo. Cinquant’anni prima la Contea intemelia era passata dall’orbita toscana a quella arduinica piemontese.
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997   Il nobile viennese Jocelin de Chateau Neuf, di ritorno da un pellegrinaggio in Terra Santa, portò in Francia le spoglie di Sant’Antonio Abate che aveva avute in dono, pare, dall’imperatore di Costantinopoli.
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       Le reliquie dell’eremita tebano furono stimolo alla creazione di una confraternita laicale degli Antoniani, che saranno presenti a Ventimiglia, in San Michele, dove curavano il “Fuoco Sacro”.
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 ANTONIANI A VENTIMIGLIA
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998   Il Concilio tenuto a Pavia, in primavera, portava l’imperatore Ottone III° ed il pontefice Gregorio V ad accordarsi sulla necessità di contenere lo sfaldamento nelle proprietà della Chiesa ambrosiana.
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       L’arcivescovo milanese Ariberto da Intimiano non volle bandire la “simonia” nella sua giurisdizione archi-episcopale, ma da elemento di dissoluzione del patrimonio ecclesiastico la volle trasformare in cespite di guadagno per la Chiesa. Decise di impiegare i “munera”, offerti da sacerdoti all’autorità ecclesiastica che li ordinava, nella compera di beni terrieri per la Chiesa. Per quanto concerne il concubinato, tanto discusso in quegli anni, non veniva inteso da Ariberto come tale, se rientrava negli schemi di una tradizione remota, di origine orientale, presente nella Chiesa ambrosiana, che prevedeva il matrimonio dei preti. Il fatto importante era quello di mantenere ed accrescere il patrimonio ed il potere della Chiesa arcivescovile, nel suo complesso.

879   Si ha notizia che Adalberto, marchese di Toscana, inviasse il figlio, allo scopo di infeudare la Contea di Ventimiglia, assegnatale per eredità.
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       Da un documento di papa Giovanni VIII°, Adalberto marchese di Toscana risulta feudatario di alcune contee in Provenza, fra le quali anche quella di Ventimiglia. Sarebbe la conferma dell’infeudatura eseguita da Lodovico il Pio nei confronti del padre di Adalberto, Bonifacio di Lucca, soltanto nell’814.
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880   Il Lionese, il Viennese e la Provenza, diocesi alpine restate a lungo senza un re, venivano unificate da Bosone, sotto il nome di Regno d’Arles.
881   A Milano, il vescovo Ansperto da Biassono appoggiava l’elezione di Carlomanno a imperatore, contro la volontà di papa Giovanni VIII, che incoronò Carlo il Grosso.
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       Il potere dei vescovi milanesi si dimostrava sempre meno suddito del potere romano. La nostra diocesi, tributaria in effetti di quella milanese, ne seguiva le disposizione, oltre al Rito Ambrosiano.
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887   Alla morte di Bosone, il Regno d’Arles veniva ereditato dal figlio Ludovico il Cieco e gestito da Ugo d’Arles.
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       Con la deposizione di Carlo il Grosso, anche il titolo d’Imperatore formalmente scomparve, ma per ottant’anni fu tenuto in vita solo dalle ambizioni dei grandi signori feudali dell’Italia settentrionale e della Francia meridionale, che se lo contesero. In queste lotte fu coinvolta anche la Contea di Ventimiglia, che quale entità di confine, cercava l’aggregazione più opportuna, in ogni momento.
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888   I conti ventimigliesi avrebbero dovuto chiedere l’investiture da Berengario del Friuli, Re d’Italia, ma preferirono tenersi in bilico tra questi ed il Regno d’Arles, di Ludovico il Cieco.
889   Pirati saraceni ponevano un loro insediamento stabile al Frassineto, o Garde-Freinet, in Provenza, presso l’attuale Saint-Tropez, base per le loro scorrerie su tutto il litorale ed una costante penetrazione nelle valli delle Alpi Occidentali, oltre Susa.
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       La presenza dei Saraceni al Frassineto, determinava una situazione conflittuale e di estrema insicurezza sul nostro territorio, come su tutto il Piemonte occidentale, con frequenti disastrose incursioni ai danni di città, abazie e scontri coi potentati locali. Sebbene, molti di questi, sulla base di spregiudicate valutazioni, fossero inclini a stringere alleanze e molto spesso ad affidare ai Saraceni il controllo di taluni importanti valichi. Nel Mediterraneo, dove era scomparsa la classe dei grandi mercanti, sussistevano dei “negociator” occasionali, che approfittavano di guerre e carestie per i loro piccoli affari. C’era soprattutto chi seguiva gli eserciti per trarne profitto e chi si avventurava lungo le frontiere per vendere armi al nemico o fare baratti coi barbari e gli stessi Saraceni. In contrapposizione, nascevano i mercati, detti “forum hebdomadarium”, fondati ovunque per tutto l’Impero. Se ne trovava regolarmente uno ogni civitas, nei borghi, in prossimità delle abbazie. I contadini dei dintorni, vi vendevano “per denari”, al dettaglio ed erano anche importanti come luoghi d’incontro. L’imperatore Carlo ne aveva proibito lo svolgimento di domenica. Non bisogna confonderli con le fiere annuali, che si tenevano, nei monasteri, il giorno della festa del santo. Vi affluiva la “familia”, che veniva da molto lontano, ed avevano luogo transazioni di compravendita tra i suoi membri. Quasi ovunque, la festa religiosa coincideva con la fiera, alcune delle quali divennero molto frequentate.
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890   Anche la popolazione di Olivula, l’odierna Villafranca presso NIzza, dovettero abbandonare le loro case presso la splendida baia per trasferirsi sulle alture in un luogo denominato Montolivo.
891   Vescovo intemelio avrebbe potuto essere: Amatore.
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       La ripresa degli affari, aveva spinto Carlo Magno a riorganizzare il sistema monetario e la moneta scorreva, con esile gettito sui mercati che si erano creati in numerose città. Sosteneva il commercio a breve e media distanza, alimentando un gruppo di piccoli mercanti che si stabilirono nei “borghi” vicini ad un monastero o ad un centro vescovile. Intanto, trafficanti più audaci ed agiati, si stabilivano nei “portus”, nelle città dove i traffici si incontrarono e conobbero un deciso sviluppo. Tra questi e sicuramente da inserire Ventimiglia, porto, contea e diocesi di confine.
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894   Il vescovo ventimigliese avrebbe dato in feudo al locale conte le decime di Castellaro, Gorbio e Sant’Agnese.
895   Rilevamenti operati negli anni Settanta, hanno accertato lo sfruttamento della miniera di galanite nella Vallata della Beonia, presso il Monbego, da parte dei Saraceni, nell’ultimo scorcio del IX secolo;  estraendo zinco e piombo.

                                
SECOLO DECIMO

ESPANSIONE DELLA CONTEA

900   La città costruita sullo Scögliu doveva essere di una certa consistenza a giudicare dall’ampiezza della pianta della Cattedrale preromana, costruita in questo secolo sulla pianta di una precedente chiesa longobarda o bizantina, edificato sulle vestigia di un antico tempio romano.
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906   I Saraceni del Frassineto si espandevano in tutta la regione della Alpi Cozie e Graie, arrivando ad occupare la regione di Tenda.

924   Rodolfo II° di Borgogna, ricacciava gli Ungari oltre le Alpi, ripristinando i suoi territori a ridosso dei più transitati passi alpini.
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926   Chiamato in Italia dalla sorellastra Ermengarda di Toscana, Ugo di Provenza avrebbe dovuto portare un po’ d’ordine nel potere politico.
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       Ugo di Provenza era invocato anche dal papa, Giovanni X, che mal sopportava la tutela di Marozia, figlia della sua probabile amante. Appena giunto in Italia, Ugo provvide ad accecare il fratellastro Lamberto, esautorandolo dal marchesato di Toscana che riverserà al fratello Bosone. Provvide ad eliminare Anscario e Bosone dai marchesati di Susa e Torino, Impose Ilduino quale arcivescovo di Milano e costrinse Berengario d’Ivrea a riparare in Svezia. Ma giunto a Roma, trovava Marozia appena vedova del suo stesso cognato, Guido di Toscana, che l’induceva al matrimonio, legandolo alla nefanda politica romana. In considerazione ai numerosi ed articolati cambiamenti, con feudatari di fiducia nelle Marche alpine, Ugo avrebbe potuto imporre Guidone, quale conte di Ventimiglia e Marchese delle Alpi Marittime.
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928   Alla morte di Ludovico il Cieco, il regno d’Arles veniva unificato al regno di Borgogna.
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       Fondato nell’888, da Rodolfo Guelfo, di origine bàvara, il regno di Borgogna, comprendeva il ducato di Trangiurania, tra il Giura e le Alpi, oltre alla maggior parte della provincia ecclesiastica di Besançon. Con l’acquisizione del regno d’Arles, la Borgogna comprendeva il Lionese, il Viennois e la Provenza; da Basilea al Mediterraneo e dal Rodano alle Alpi. Nel 1032, verrà ereditato da Corrado II° il Salico, re di Germania e imperatore.
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930   Guidone, conte di Ventimiglia, avrebbe preso in moglie Eleonora, figlia d’Ottone Guglielmo di Borgogna e sorella di Umberto Biancamano.
931   Una flotta bizantina infliggeva una sconfitta ai Saraceni del Frassineto.
Ugo di Provenza imponeva Ilduino a vescovo di Milano.
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933   Il vescovo intemelio Amato, assieme al vescovo nizzardo Amizzone, consacravano la chiesa di Sant’Andrea, nel territorio ventimigliese.
                                                       (tra Camporosso e Dolceacqua)
Ugo di Provenza, re d’Italia, cedeva parte dei suoi territori a Rodolfo II° di Borgogna.

935  Genova veniva saccheggiata dai Mori del Frassineto.
Rodolfo II, re di Borgogna, metteva le mani su ampie porzioni del territorio provenzale, estendendo i confini al Mediterraneo.
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       Il regno di Borgogna, usava come luogo simbolico di corte l’abbazia di Saint-Mauriçe d’Agauno, nell’alta valle del Rodano, non curandosi del disporre di una vera capitale. I suoi re “Rodolfingi.”, fino ad Ottone Guglielmo del 980, si curavano di sottomettere i territori a ridosso dei valichi alpini, cosi da controllare i trasporti e le merci. Dal 935, al 1032 , giunto al suo massimo splendore occupava tutta l’ampia valle del Rodano, parte della Provenza e giungeva fino a Nizza e le valli retrostanti. Il figlio di Ottone Guglielmo, detto Umberto Biancamano, sarà considerato il capostipite della fortunata casata dei Savoia.
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936   I Saraceni radevano al suolo Cimella, la Ventimiglia Nervina e la villa Matuciana.
I Mori avrebbero fortificato il monte sotto il quale sfociava il Fiume Roia, chiamato da allora Mauře, o Mauře.
Dalla Villa Matuciana, le reliquie di San Romolo venivano portate in salvo, a Genova.
937   Il vescovo intemelio poteva essere Mildone.
Sarebbe già stata esistente la chiesuola di San Martino sul Resentello, sorta a fianco di una grangia monacale.
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940   Ottone, vescovo di Vercelli, accennava ad un Concilio, celebrato in Milano dal vescovo Alderico, nel quale era stato presente un vescovo di Ventimiglia, di nome Mildone; ma nello stesso anno si sottoscriveva nel testamento del vescovo di Vercelli, il vescovo intemelio Aldegrano.
A difesa delle Alpi Marittime dagli attacchi saraceni, Berengario opponeva la costituzione della Marca arduinica di Susa.
945   Genova, armata una potente flotta, scacciava i Saraceni dalla Corsica, impadronendosi dell’isola.
946   Ugo di Provenza, re d’Italia, organizzava un poderoso esercito, col quale attaccava i Mori al Frassineto, ma terminava l’avventura facendo lega coi medesimi.
947   Moriva Ugo di Provenza, così Berengario II, marchese d’Ivrea s’impadronì del Nord d’Italia, facendosene re nel 950.

 

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MARCA  ARDUINICA

     La marca Arduinica comprendeva il territorio che sulla costa era delimitato tra Nizza ed Oneglia, tutte le Alpi Marittime, le Cozie e parte delle Graie, comprendendo il territorio di Ivrea e verso Sud, fino al Monferrato escluso. L’assegnazione della Contea di Ventimiglia a questa marca è confermata dalla presenza, sul territorio di Dolceacqua, dei monaci benedettini provenienti dalla casa di Novalesa, che in quel periodo, avevano ricevuto un fondo ed una chiesa in feudo. Da Dolceacqua, si dipartiva una “Strada del Sale”, che dagli approdi di Mentone e Ventimiglia, attraverso i crinali che costeggiano la Roia, il Colle di Tenda ed i crinali prealpini del cuneese, portavano a Novalesa, a Susa, proseguendo per Ginevra. Dopo la liberazione dai Saraceni, lungo tutta questa “Via salis” erano presenti insediamenti benedettini, legati a Lerina ed a Novalesa. Il sale trasportato proveniva dalle saline di Lerina, di Hyers e di Peccais, nella Provenza. L’Italia settentrionale e quella centrale si trovarono saldate all’edificio imperiale da forti legami. Per la prima volta, furono deliberatamente attratte verso il centro dell’Europa; al quale guardavano anche prima, senza individuarne i nessi di collegamento e di coesione; furono costrette a volgersi verso il nord ed il nord-est, mentre la parte occidentale era attratta verso il nord-ovest. Nel frazionamento del territorio, seguito alla disgregazione dell’Impero, si formarono principati o marchesati, abbastanza vasti, che diventeranno autentici Stati. Contrariamente ad Impero e Regno, il Principato risulterà più omogeneo, corrispondente alle dimensioni dell’epoca, i dirigenti potranno valutarlo adeguatamente e trasmetterne la conoscenza in modo diretto. La Provenza diventerà Regno, mentre in Italia, il processo venne facilitato dalle divisioni politiche preesistenti. Alla nostra storia influivano da vicino i Marchesati di Toscana e d’Ivrea. Questi si spartirono i territori secondo una sfera d’influenza omogenea, predisponendo tutto l’arco litorale della Liguria, quale zona di ulteriore confine. Ne approfitterà Genova per inserirsi nei giochi di dominio.

 

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Vescovo conte
RIPRESA ECONOMICA

        Una più estesa utilizzazione del ferro, consentiva di disporre di strumenti più duri e resistenti, che concessero di lavorare con più energia. L’applicazione di tecniche già note, che non si erano potute sfruttare per insufficienza di mezzi ed una certa inerzia, oltre alla migliore utilizzazione dei corsi d’acqua, per far girare mulini o frantoi per l’olio, in attesa delle macine da concia, indissero a costruzioni più solide, come a deviazioni di corsi d’acqua, scavando gore e canali. L’inserimento del collare da spalla per il cavallo e del giogo per il bue, aumentando la forza di trazione permettevano miglior sfruttamento delle coltivazioni, che attraverso le prime concimazioni e con l’impiego della rotazione triennale, fornirono due raccolti in tre anni, anziché uno ogni due. L’aumento della produzione che ne derivò, favorirà le attività commerciali ed artigianali, per una diversa e migliore organizzazione economica e sociale. Fortuna volle che questo periodo non conobbe terribili epidemie, mentre penurie e carestie si facevano sempre più rare. Inoltre, l’estensione dell’uso del pane nel sistema alimentare, che dall’inizio del XII secolo diventava il nutrimento di base. Le guerre non furono particolarmente micidiali, perché agli scontri partecipavano poche persone, visto che riguardavano ed interessavano soltanto gruppi poco numerosi, lo scopo dei quali non era quello di distruggere ma di prendere ed arraffare.

 

Libero Comune
Albero genealogico Ventimiglia-Lascàris