ALIMENTAZIONE

LE ERBE SPONTANEE
            Tra gli arbusti della Macchia mediterranea, da sempre mettono radici erbe ed arboscelli che l’uomo ha saputo abbinare ai gusti dei prodotti mangerecci; infatti, anche oggi, restano insostituibili nel tocco conclusivo di qualsiasi ricetta.
            Sono onnipresenti: u rumanìn, a sàrvia, a pérsa o maggiorana, il timo detto a ferügura e l’origano a cornabüsa, con la santoreggia, chiamata u tùmbaru, nella Media Val Nervia.
            Le erbette commestibili spontanee, ottime per preparare insalate, che vengono sovente esaltate dalla cucina locale, sono state riconosciute dagli abitanti, lungo i secoli, con intuito ed esperienza: e buràixe, i scaparùi, u dénte de can, l’èrba fuìna od ortica, e çime de ràva, assieme a i spàrghi.
            In tempi remoti, assegnati ad un’era che dal 6000 viene verso l’anno 5000 prima della nascita di Cristo, con la comparsa dell’agricoltura sul nostro territorio, dalla spontaneità, sono state ammesse alla coltivazione: u prunsému, u sélaru, i spinàssi, a richéta o rucola; con i fenùgli, i càrdi, e còste d’ê gé. Gli “agricoltori” che giungevano da Oriente portarono con loro: a laitüga, a scaròla, a radicéta, a capücia , oltre a e çevùle.
            Nell’Alto Medioevo, i nostri impararono a raccogliere la caccialepre, detta i scaparùi, oltre ad imparare il nome de a scursunéla, nome che deriva dallo spagnolo “escorso”, ovvero la vipera, il cui morso veniva curato con quelle foglie.
           Altre pianticelle sono state importate dalle aree circostanti: sia dalla Provenza, sia dal Genovesato e dal Basso Piemonte, cosicché oggi crescono spontanee nel nostro entroterra. Con i Porri, u baixaricò, a ménta, a màrva e l’erbaluìsa, sono alcuni esempi; oltre alla pianta, preziosa e rara, de i tàpani, che fu importata dalla lontana Sicilia, in tempi remotissimi.

L’ORTO COLTIVATO
           Fin dall’antichità e fàve ed i peséli hanno trovato posto nei nostri orti, mentre e lentìglie ed i céixi, a causa della composizione geologica locale, sono stati da sempre generi di importazione, principalmente dal basso Piemonte. Nel territorio di Apricale, l’angusta ed umida valle del Merdanzo, alle falde del paese, porta il toponimo u favàr, con l’antico ricordo delle cabanete di fave.
           E ràve, i ravanéti, e gearàve o Barbabietole ed i navùi hanno fornito il loro amido fin dal più remoto passato; come la pastinàca e la rutabàga, cadute in disuso con l’arrivo della più redditizia e duttile Patata, nel Cinquecento.
           Nel tempo la Carota ha destato notevole interesse, specialmente nei primi anni del XVIII secolo, quando si cominciarono a coltivare intensamente i territori sabbiosi delle Asse e di Nervia, favorendo i ritrovamenti archeologici.
            Nella bassa Val Roia, nella media Val Nervia, così come nella valli del Borigo e del Carei, oltre che nell’alta Val Bevera, sono sempre stati curati importanti orti, che hanno prodotto grandi quantità dì primizie, riversate per il mercato locale.
             Ecco i principali ortaggi, presenti fin dall’antichità: i còuri di diverse specie, tra cui u courusciù, u garoùxiu o u bròculu, quello a infiorescenza unica. Ancora e çévule, con e çévulete, oltre a i cugömari, come da noi sono detti i Cetrioli, mentre i Broccoletti, quelli a fiori ramificati abbiamo imparato a conoscerli da meno di un secolo.
             Negli Statuti duecenteschi di Apricale, era fatto obbligo di piantare almeno mezu sìtu con l’àgliu, per ogni persona del paese; tanto ne venivano considerati i pregi terapeutici.
           Importate dall’Oriente, e mérezane, dette mele-insane per falsi preconcetti, venivano indicate come apportatrici dì follia e trovarono molte difficoltà ad entrare sulle nostre mense.
           Un orto che si rispetti, contiene un angolino, dedicato al riposino pomeridiano, sormontato da una tòpia od un bersò ombreggiato da in zücà, dal quale si potranno raccogliere: e züche oppure i zücui, come i più teneri zücunòti, le primizie dette i patecùi, o i frutti della rampicante detti i bélurin; ma anche e sciùre de züca, deliziose quando vengono infornate ripiene o fritte impastellate.
           Tolta la piccola antichissima Cucurbita, che come in Provenza chiamiamo a cugùrda, le Zucche, così come le vediamo oggigiorno, sono state importate dall’America, nel XVI secolo. Originari del Messico, si sono acclimatate anche da noi, nel Cinquecento: i faixörìn, i faixöi, e faixörele.  Dapprima venivano utilizzati come legume secco, di facile conservazione. poi vennero anche diffuse le qualità da consumarsi fresche con tutto il baccello. Anche se erano già note agli antichi Greci ed ai Romani, e articiòche le abbiamo conosciute attraverso i movimentati contatti avuti con i Saraceni.
            Ai nostri giorni, in Val Nervia, gli orti sono rimasti rinomatissimi per le Fagiolane, e faixöréle raccolte fresche, ma famose principalmente quando si riescono a trovare essiccate. I famosi faixöi de Pigna, che si producono anche a Rocchetta ed ancora in Valle Argentina, benché siano meno rinomati e certo un poco più coriacei.

ALBERI DA FRUTTO
            Alcuni alberi da frutto si svilupparono spontaneamente nella nostra regione, molti altri vennero importati in epoche remote. Quasi tutti gli arbusti che, nel tempo, sono entrati a far parte della Macchia Mediterranea, producono frutti mangerecci, molte volte usati in cucina.
            Questi sono: il Corbezzolo, detto l’arburussin, a sciòrba ed a zìzura. In seguito si sono introdotti il Melograno u megràn e u carübu, infiltrati dal Medio Oriente.
            Il Pruno domestico non è per niente diffuso sul nostro territorio, così come non deve esser mai stato in passato, le prugne, che confondiamo come e brigne vengono e venivano quasi sempre importate.
           Innestando il pruno selvatico si è ottenuta la pianta che produce a brigna ed il più grosso brignùn, che chiamiamo anche a suséna, ovvero susini di varie ed ottime qualità, tanto che, moltissime località intemelie, i Susenéi, hanno sopportato piantagioni, più o meno intensive di questa essenza.
           Dalla medesima matrice del Pruno, il Ciliegio, a çeréixa è presente fin dall’antichità nella forma d’agriota, nei secoli é stato integrato con e négre e le ottime e giancàire.
          Nel medioevo, in Liguria, la Ciliegia veniva detta a düràia, sicché i frutteti coltivati a ciliegie venivano indifferentemente chiamati çerezériu o düraxériu.
          Il Melo è originario con le piccole gustosissime renéte, quando è stato poi immesso u pecugögnu”, il Cotogno, invece il lazzaruolo a nazaròla era presente sulle coste mediterranee ma le sue melette ce le hanno indicate gli Arabi.
          Ancora, u perüssu, è presente fin dall’antichità importato dai coloni Focesi, eppoi rinselvatichito e mai generatore di selezioni particolarmente adatte al territorio. Agli stessi Focesi si deve anche la densissima piantumazione del Fico, u fìgu, che caratterizzerà indelebilmente la zona intemelia, a livello dì monocoltura specifica; come vedremo.
            Essendosi parecchio propagata, la piantagione del fico, che localmente viene detta figarétu, non ha però conservato particolari segni toponomastici.
           Molto diffuso u pèrsegu, il Pesco, introdotto dai coloni romani, quasi certamente nel 50 a.C.; assieme alla così detta uva da tavola ed all’uva passa.
            A nùxe e a ninsöra”, il Noce e il Nocciolo, guarnivano le vallicelle più fresche dell’entroterra, mentre l’amàndura si e introdotta, per biancheggiare sui pendii più riparati, in faccia al mare. Il terreno coltivato a noci era detto nogarétu.
           Dalla dominazione araba della Sicilia, abbiamo importato Limoni, mentre gli Aranci, dovrebbero esserci giunti dalla penisola iberica, giacché le chiamiamo i purtegàli; ancora, i Saraceni oltre alle basi per la coltura dell’agrumeto, ci hanno fatto conoscere u mescemìn, l’Albicocca.
         In periodi piuttosto recenti, provenienti dall’estremo oriente, comparvero: u néspuru e u càcu; intanto che il Cedro ed anche il Pompelmo entrarono a far parte dell’agrumeto. Più recentemente, importanti coltivazioni dell’esotico Kiwi aiutano moltissimo l’economia agricola dell’Alta Val Nervia.
          Le Palme, importate dal Medio Oriente nelle più varie qualità, dai Crociati dell’Embriaco; nel nostro clima non hanno mai prodotto i loro Datteri, in piena maturazione. Per contro, fin da quei secoli, venivano trapiantati i datteri, così come erano, per ottenere degli ottimi germogli, che venivano consumati dalla cucina nobile. Così com’è regolamentato negli antichi Statuti di San Remo.

PRODOTTI  COLTIVATI
PRODOTTI  COLTIVATI
 avviata il 18 settembre 2011
 
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          Le popolazioni che hanno gravitato su questo territorio, nel corso dei secoli, hanno ottenuto sorprendenti risultati d'autosufficienza economica, ma soprattutto alimentare e gastronomica, basata anche su un sufficiente approvvigionamento di derrate coltivate localmente, lungo le tenacemente ubertose vallate dell'entroterra.

ALIMENTAZIONE INTEMELIA

          Ma non mancavano, piccole, dolcissime e pissalüte, oltre a e brilasòte” ed alle classiche e belùne, che potevano diventare bélune scrite. Esiste anche una qualità di mescìe giànche, e le selvatiche e tapacardì, rossastre come e purcàsse. Si ricordano ancora e padréte, e paruchìne, e imperiàli, oltre alle tipiche e ventemigliùse.
         Nel Medioevo, gli abbondanti Fichi venivano messi a seccare su graticci denominati vìrse, indi esposti al sole in luoghi opportuni detti virséri.
         In particolari zone ben esposte, vengono a maturazione e fighe d’a Madòna, gli spinosi Fichi d’India, importati attraverso la Sicilia, ma mai molto diffusi. In Sicilia, i Fichi d’India vennero portati dagli spagnoli, dopo la scoperta dell’America, paese dove la pianta spinosa è originaria.


I FICHI VENTIMIGLIESI

           
 Una popolazione conosciuta col nome di figun, come vedremo, non può ignorare le delicate differenze, nelle varie qualità delle gustose e zuccherine infiorescenze, che nei secoli, gli agricoltori locali hanno saputo incrociare fino ad ottenere più di venti qualità diverse.
           Tra quelle di colore bruno, un nero che volge al bluastro, le più diffuse e pregiate sono senza dubbio e mescìe, che quando sono ben mature diventano mescìe scrìte. Ancora tra le nere abbiamo e cagliàne, di piccola taglia; nere e selvatiche sono e belùrfe, piccole ma dolcissime. Di un nero che volge al rossastro sono le esotiche e türche.
            Tra quelle bianche, d’un colore verde chiaro, che volge al giallognolo quando sono più che mature, le più richieste erano i còli de dàma, le ultime a maturare.

MONOCUTURE ARBOREE

         L’erosione, ma sovente la distruzione del bosco, non fu il solo risultato di un’intensa agrarizzazione dell’economia medievale; infatti il bosco medesimo venne messo a coltura ed addomesticato. Fu questo il periodo di massima diffusione del castagneto da frutto, selezionato a partire da alcune specie selvatiche e spesso impiantato al posto di antichi querceti.
          La Quercia, per il suo passato di pianta sacra ai Celti, veniva vituperata dai monaci, che furono gli autentici motori della innovazione agraria medievale, anche al fine di incentivare la scelta del castano, dal cui frutto si poteva ottenere una farina molto più proteica di quella, pessima, ricavata finora dalle ghiande. Il ruolo alimentare del castano era altresì assimilabile a quello dei cereali, non per niente veniva chiamato “albero del pane”.

IL CASTAGNETO

         In latino “castanea” è identico al greco, entrambi derivano da Castanis, città del Ponto, nell’Asia Minore, dalla quale la pianta passò in Grecia e poi in Italia. La più antica tra le monocolture e quella del Castano, nelle alte Valli Roia e Nervia, dove tra domestiche e selvatiche, maturano le eccellenti marùne, grosse e carnose.
         I secolari castagneti delle nostre valli, con il rinforzo di qualche lenticchia e dì coriacei ceci d’oltregiogo, hanno soddisfatto il fabbisogno locale di proteine, fino alla metà del XIX secolo. Consumate fresche, seccate o ridotte in farina dolciastra, hanno concesso proteine lungo tutto un Medioevo di ristrettezze.
          A partire dal IX e con notevole accelerazione dall’Xl secolo, un deciso incremento della popolazione spinse ad allargare le superfici coltivate, a scapito dei boschi naturali.

          Ancora nel 1862, nel corso della Guerra Civile americana, siccome la produzioni di agrumi era privilegio rimasto ai Confederati sudisti, gli stati del Nord importavano Limoni ventimigliesi, in grandi quantità, spediti alla rinfusa su navi.
          Erano gli ultimi bagliori di una coltivazione che ha dato grandi riconoscimenti alla nostra zona; colpite da parassiti invadenti e da muffe insopportabili, le piante d’agrumi si rarefacevano a vista d’occhio, mentre altre regioni mediterranee si presentavano più disponibili e più competitive nella gestione degli agrumeti.
          Furono probabilmente i Romani ad importare dall’Oriente i primi limoni, attraverso quella via di comunicazione marittima che, partendo dal mar Rosso, giungeva fino all’India ed alla Malesia. Della loro presenza in Italia fin dal I° secolo dell’Era Volgare, abbiamo testimonianza in alcune pitture ci Pompei, ritrovate durante gli scavi del 1950. Furono tuttavia gli Arabi e qualche volta i Crociati a diffonderli sui litorali del Mediterraneo, come testimonia il loro nome che deriva dall’arabo “limum”.
           Sulle nostre terre producevano: i limùi, i çitrùi, ovvero gli aranci amari, i purtegàli cioè le arance, i cèdri ed anche i amandurìn. Inoltre ci si poteva procurare la materia prima per distillare l’àiga de sciùra de çitrun, dal fiore dell’arancia amara. Un’acqua che tanta parte conserva nelle dolci ricette locali, lo stesso distillato che più anticamente chiamavamo àiga nàfra.

L’AGRUMETO

          Tra le colture d’esportazione, maggior interesse ebbero gli agrumeti. Nel Seicento, la costa ligure ponentina era disseminata di interminabili orti piantumati ad agrumi, che producevano stimatissimi limoni. Già nel XV secolo, vennero messi a dimora gli aranci, appena importati dai Portoghesi dalla Cina.
           I nostri antenati avevano scoperto, fin da quei tempi, che alcune derrate alimentari, tra le quali gli agrumi, appunto, servivano a combattere lo scorbuto, un’affezione mortale diffusa tra il personale imbarcato sulle navi. Senza saperlo, avevano capito la necessità dì combattere la mancanza di vitamina “C”, riconosciuta dalla scienza soltanto all’inizio del XX secolo.
          Dalla Valle di Latte fino alla Valle del Verbone la qualità preminentemente coltivata era la Bignata, che produceva un frutto assai succoso,  dalla pelle liscia ed elastica, che lo rendevano adatto al trasporto su navi alla rinfusa. Le altre varietà erano la Lerisca, a pelle liscia, ed il Ballottino, a pelle rugoso e con minor succo.
         La conca di San Remo era un ininterrotto giardino punteggiato dai gialli frutti del limone, la vicina Mentone ancor oggi si vanta di aver coltivato Aranci e Limoni tra i muri pietrosi dei suoi orti esclusivi, ma i limoni prodotti a Ventimiglia, avendo il vantaggio di una buccia particolarmente elastica e cerosa, erano i più adatti per essere spediti in luoghi lontani, imbarcandoli sulle navi, alla rinfusa.

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Gli orti, ricavati nei secoli sulle monumentali fàsce contenute da muri a secco, i caratteristici maixéi, hanno prodotto in quantità sufficiente al fabbisogno locale, fino all’Ottocento. Così come la patata, i fagioli ed il granturco, conosciuti nel Cinquecento inoltrato, hanno contribuito sfamare intere generazioni dì valligiani, fino all’altroieri.
            Tra il Seicento ed il Settecento, piatto fisso era un minestra composta di pasta, verdura fresca e fagioli, qualche volta arricchita con l’aggiunta di trippa, lardo o cotica di maiale.
            Il Pomodoro, a pumàta, introdotta anch’essa dal Nuovo Mondo, venne per secoli considerata tossica, tanto da venire accettata soltanto nel XIX secolo. Da allora però, è entrata in innumerevoli ricette, fino a far dire popolarmente: - ti sei delòngu ìntu mézu, cume a pumàta -.
            Nei rari frutteti organizzati, domina il Pesco, piantato anche tra i filari delle viti, il gustosissimo e rìcercato pérsegu de vìgna. Il frutteto domestico, oltre all’agrumeto, è composto di almeno due qualità di Ciliegi, qualche Melo e pochi Peri, che hanno rappresentato l’alternativa al diffusissimo fìgu.

           Una miscela di Farro e Miglio, coltivati anche in loco, forniva la farina:, per il popolo dell’Antichità. Dal medioevo, i prati attorno alla cima del Monte Toraggio e quelli dei Gerri, presso la Cima Granmondo, oltre che tutta la conca di Sospello e molte delle valli mediane del Roia sono stati seminati ad Avena o Segale, fino agli inizi del XIX secolo, ma non riuscivano a soddisfare altro che un fabbisogno circoscritto.
          A nord di Saorgio, il versante aprico della cima di Campubel è completamente eretto a fascioni di muri a secco, che da pochi decenni hanno smesso di produrre Frumento ed Avena, i quali venivano trattati nel mulino sociale all’imbocco del monumentale villaggio roiasco. Anche Granile, borgata in val Paganir sulla sponda destra del Roia, dice quanto fosse praticata i coltivazione del grano nelle medie valli.
          Dagli atti notarili del XIII secolo, apprendiamo che si seminavano Grano e Biade anche a Vallebona ed a Vallecrosia fino all’altezza dei Negì; tanto che, in qualche caso interessanti quantità dì cereali venivano esportate, verso Genova.
           Che si fosse seminata la Segale, ci viene confermato dal fatto che, quasi alla fine dell’XI secolo, un parassita di questa graminacea aveva provocato una grave epidemia d’ergotismo, come vedremo.

LE COLTURE ESSENZIALI

 

 

 

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 rivista il: 23 dicembre 2011