ALIMENTAZIONE

            

ALLEVAMENTO OVINO-CAPRINO
           Fin dalla più remota antichità, sul territorio intemelio veniva praticato l’allevamento ovino e caprino. Era molto fiorente nel XIII secolo, come è documentato dai solerti notai. Le greggi hanno, da sempre, praticata la transumanza, anche limitata nelle distanze percorse. Nel corso della stagione fredda, i pastori svernavano in vicinanze, della costa marina, dove, una o due volte nella stagione, conducevano le Pecore spiaggia per bagnarle e per aumentare l’assimilazione dello iodio.
          Le zampe, ammaccate da lunghi periodi. di pastura su terreni rocciosi trovavano grande sollievo dall’azione dell’acqua salata.
          Tra i punti d’appoggio della transumanza al mare sono stati, per secoli, anche i villaggi posti alle immediate spalle di Mentone. Persino la zona dei Mulini monegaschi era meta delle greggi di Val Roia e dell’Alta Val Bevera.
          Inoltre, i Ciotti, sopra La Mortola; con Sealza, Sant’Antonio e Villatella, nella Valle di Latte; San Lorenzo e Seglia, sopra Bevera, erano punti di sverno delle greggi. Ciaixe e Sant’Andrea, per Camporosso; Perinaldo e Saldano, in Val Verbone; con Sasso e Seborga, sopra Bordighera, hanno secolarmente ospitato la transumanza ovina invernale. Succedeva che i proprietari. di gerbidi o di prati concedevano il pascolo ed il pernottamento alle greggi, al fine di stercurà, ovvero provvedere alla concimazione del terreno.
           Le greggi composti interamente da Capre, più difficoltosi da gestire, praticavano in maniera ridotta la transumanza, preferendo cambiare pascolo in zone più circoscritte, anche se più impervie. Attorno a Castellaro, Monti e Castiglione; a Dolceacqua, a Rocchetta, a Castelvittorio e ad Apricale, le capre trovavano il foraggio per tutto l’anno, tra la disperazione degli agricoltori.
           Tra i nostri pastori, a féa è la principale componente del gregge, un certo numero di fée vengono fecondate da u mutùn, provocando la nascita de l’agnélu. Il risultato di macellazione della féa diventa carne de pégura.
           La Capra sprovvista di corna è detta mùta; quella di due anni, eccellente per la cottura coi fagioli, si dice a bima. Il maschio de a cràva è u bécu, genitore de u cravéu.

L’ALLEVAMENTO BOVINO
          A differenza della béstia menüa o da cortile, i bovini e gli equini venivano chiamate in generale bèstie gròsse. L’allevamento bovino non ha maturato grandi tradizioni nel Ponente ligure. Salvo casi particolarissimi, si trattava d’un massimo di due o tre capi, mantenuti per soddisfare il fabbisogno di. latte del “clan” famigliare.
          A Pigna, era il gardian dèr munte a raccogliere i bovini di tanti particulà, per condurli al pascolo estivo, definito màrga o margharìa.
          I “cognomi” duecenteschi delle famiglie: Bovetus e Vache stanno ad indicare un fiorente commercio di bovini, nella Carreria de Merçarie, il nostro mercato medievale, rivelatoci dall’Amandolasio, attraverso la Balletto.
          Nel Settecento, Giovanni Ruffini, dal suo “Dottor Antonio” ci presenta la misura della ridotta presenza bovina, quando si trattò di trovare il burro, per la colazione all’inglese dì Miss Davenne.
          Nel periodo tra le due guerre mondiali e fino agli anni Cinquanta, prima alcuni allevatori tendaschi, eppoi i Fantino vacài piemontesi, provenienti, dal Basso Cuneese, avevano organizzato l’allevamento stanziale di vacche lattifere. Questa attività aveva soddisfatto una crescente richiesta di latte, da parte del consumatore cittadino, prima evoluta attraverso la consegna porta a porta, trasformata poi in appropriate latterie. Nell'ultimo dopoguerra, la massima parte dell'approvvigionamento carneo bovino era soddisfatto dai contatti col mercato di Cuneo, da parte di imprenditori coi caratteri di quello che potrebbe essere definito "u maixelà", operatore artigiano-commerciale del settore.
          La numerosa presenza. di Buoi, era invece dettata dall’esigenza di possedere gli animali per l’aratura. U bö, il bue, più mansueto e docile, era l’ideale per l’aratura di terreni ricavati su “fasce”, anche scoscese.
           Gli innumerevoli graffiti di figure cornute, dette Tori ma anche di Animali con corna e di Aratri, tra le incisioni rupestri, nella Valle delle Meraviglie, danno il senso dell’antichità e della diffusione del bue da lavoro, sul nostro territorio.

EQUINI
          L’allevamento equino non ha mai trovato in questa zona un deciso inserimento. La richiesta di cavalli, quali bestie da sella, sia nell’antichità, che nel Medioevo, era sostenuta dalla sparuta nobiltà locale e dalle rare Stazioni di Posta, lungo la via Emilia Scauri, poi Iulia Augusta ed ultimamente conosciuta come Via Aurelia.
          Il solito notaio del Duecento, nei suoi atti, differenzia nettamente la qualità di “destriero”, da quella del “ronzino”., Perché più adattabile, a müra ha trovato invece una diffusione capillare, nel tessuto della componente agricola ponentina.
          Il Mulo, usato come animale da soma, era molto adatto alle erte e strette mulattiere, unica via possibile per raggiungere la maggior parte delle campagne, fino agli anni Cinquanta, di questo secolo. Dal nome dato al carico della Mula, a soumà, l’animale stesso veniva chiamato anche a sòuma.
           L’asino, presente fin dall’Antichità, nel corso del XVI secolo, dovrebbe esser stato diffuso assai capillarmente sul nostro territorio, infatti veniva usato principalmente per girare attorno ai pozzi, onde cavarne l’acqua. Desta interesse il termine col quale veniva indicato il meccanismo elevatore dell’acqua dai pozzi locali; era detto zìru a sànghe, proprio perché azionato dall’umile àse.
          Nei giorni nostri, la passione per le passeggiate a cavallo, lungo le piste del nostro entroterra, fino alle mitiche tappe dell’Alta Via dei Monti Liguri, ha ricreato vivacità nell’allevamento ippico ed un crescente indotto.
           
Fin dall’Antichità, la nostra comunità ha consumato ogni sorta di carne equina, sia tratta da animali colti da incidente, che da equini appositamente selezionati. Ancor oggi, esistono macellerie equine, che propongono gustose e selezionate carni di cavallo e perfino di puledro, a prezzi veramente popolari. Le carni equine, salutari e terapeutiche, per le grandi quantità di ferro che contengono, sono dotate di un particolare gusto dolciastro, poco gradito alla gran parte della popolazione.

ALTRI ANIMALI DA CORTILE
            Il Maiale, detto u pòrcu, non ha mai attivato grandi allevamenti, sul territorio ponentino, avversati dal clima, che non permette la perfetta, lunga conservazione delle carni suine, neppure se opportunamente insaccate. Un discorso a parte si può fare per la salsiccia, da consumarsi fresca, che nel secolo scorso. veniva prodotta in Ceriana ed era divenuta famosa.
         
Nel Medioevo, una mandria con più di sei porci, allevata allo stato brado, veniva chiamata “porcaratus” mentre ne era vietato l’allevamento nell’abitato, a meno che il Maiale non stesse sempre chiuso in una stalla, o venisse accecato.
          Sempre in quegli anni, un Maiale pubblico, detto u purchétu de Sant’Antòniu’ vagava indisturbato per vicoli e chintagne, alimentato dai miseri avanzi di tutta la città. Veniva macellato per organizzare un pranzo ai più poveri, nella giornata dedicata alla celebrazione del Santo, Uno di questi purcheti scorazzava liberamente per le vie di Nizza, ancora nel 1673, come ci annunciano gli Statuti di quella città, riportati dal Glossario del Rossi.
           Oche, Anatre, da noi dette e pàpure ed animali da corsile, in genero , non sono mai mancati, come i conigli, che fin dal tempo della conquista romana, facevano parte del menù intemelio. A gaglina, specie se vecchia, fa buono il brodo, ma il pollo giovane u pulàstru, non mancava sulla mensa benestante, dove a fine d’anno compariva anche u capùn.
           Fin dall’antichità, subito dopo le guerre persiane, attorno al 350 a.C. , proveniente dall’Asia, attraverso la Grecia, vennero introdotti il Gallo e la duttile Gallina, mentre attraverso gli egiziani ed i. romani giunse la gallina Faraona, che nel Medioevo era conosciuta come “frixona”.
           U bebìn e a bebìna, ovvero il Tacchino è giunto tra noi a Cinquecento inoltrato, non avendo potuto mai integrarsi in allevamenti grandiosi. Un tacchino o due rappresentavano sovente l’alternativa alla gallina, però molto impegnativa e limitata ad un numero esiguo di famiglie.
          Dall’anno 1976, insieme ad alcuni nobilissimi Cigni, messi a dimora nelle zone umide, alla foce del Nervia e del Roia, in onore del mitico re dei Liguri, Cicnus sono state immesse numerose anatre domestiche, dette volgarmente papure, un tempo rigorosamente presenti nel menù intemelio.
          Nello svilupparsi della civiltà contadina, qualche Anatra domestica e alcuni branchi di Oche erano presenti in ogni villaggio del nostro entroterra, in simbiosi con i gaglinài ed importanti curumbaire. Anche u pixùn, il Piccione selvatico è stato parte della nostra dieta.

LE COLOMBAIE
          Quasi sempre, le colombaie venivano impiantate sulla sommità delle torri agricole, presenti nelle campagne del circondario. Di questi torrioni esistono ancora importanti monumenti: in Siestro, a mezza costa, la cosiddetta Torre Ruffini; più sotto tra Santa Marta e la ferrovia, una ancora integra, è stata restaurata ed immersa in un bel boschetto di pini.
           Un’altra è ritrovabile proprio davanti al convento agostiniano, anche se è stata completamente intonacata e racchiusa da altre costruzioni. Voltando l’angolo di via Mazzini, in un corridoio fra le case, quello che un tempo è stato un ampio cortile, si nota lo sporgere di un’antica slanciata torre agricola, appunto, oggi adibita. ad abitazione.
            Si tratta di torri colombaie del XIII secolo, erette in quelli che furono i possedimenti. del Convento agostiniano, adibiti ad orto ed altre colture, tra i Paschei e Siestro, fino a Nervia.
            Queste costruzioni, oltre a tramandarci l’uso di quei primitivi “silos” per la conservazione di certe derrate vegetali, ci segnalano appunto la pratica dell’allevamento dei piccioni.
            Sulla sommità di queste costruzioni, crescevano intime coppie di colombi domestici, atte a produrre gustosi curumboti, da mettere in pentola quando le loro penne alari erano ancora i morbidi canunèti; infatti, l’uso gastronomico de u curùmbu duméstegu è condizionato al prelevamento in nido, quando è ancora novello.
             Successivamente le sue carni diventano troppo asciutte e toste, tanto da non venire considerate dai buongustai. Erano invece molto apprezzate le carni dei colombi e dei piccioni anche anziani, durante l’ultimo conflitto mondiale, quando hanno subito una caccia quasi indiscriminata.
             Gli stormi di colombi semidomestici si sono però ripresi benissimo ed oggi occupano i nostri tetti e le nostre piazze, portando persino fastidiosi contrattempi, anche nocivi alla salute, cosicché siamo costretti a controllarne chimicamente la diffusione indiscriminata. 

PROVVIGIONE  CARNEA
PROVVIGIONE  CARNEA
 avviata il 12 novembre 2011  
 
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          La cucina intemelia è stata assai parca nell'uso delle carni, in specie di quelle bovine, ma la presenza di un esteso allevamento ovino e di un cospicuo parco equino, hanno largamente sopperito alla bisogna, aiutate anche da un limitato cospetto suino e da cortili e stagi pieni di polli, conigli e colombi. La cacciagione è stata praticata nei limiti delle regole che sono state in vigore, nei vari periodi, mai omogenee.

ALIMENTAZIONE INTEMELIA

       Prima che venisse addomesticato l’ariete e la carne o i prodotti delle greggi fossero disponibili per la gran parte dell’anno, erano gli uccelli acquatici a fornire il maggior apporto di proteine carnee alla mensa umana.
           Nel nostro caso, i segni dell’affermarsi per l’allevamento e la progressiva diminuzione della caccia e della raccolta, come primarie attività di approvvigionamento, sarebbero da ascrivere all’Età del Ferro.
         Fin dall’Antichità, il potentato sì è riservato il monopolio della cacciagione, prima nelle vesti della nobiltà locale, poi della famiglia contile ed infine con le famiglie borghesi emergenti, continuativamente fino al XV secolo. Si è poi stabilito un periodo, caratterizzato da una discreta libertà di caccia; quando le prede servivano al popolo minuto per portare a termine baratti, essenziali alla sopravvivenza.
         Nel Medioevo, le prede più ambite, consistevano in: Caprioli, Cervi, Camosci, Cinghiali, Lepri e Conigli selvatici, che non mancavano mai sulla mensa del nobile, o alla corte comitale. Il Camoscio lo chiamiamo u camùnu, e nel dialetto distinguevamo u craviö e a lévre.
          Nella dieta del popolano erano più frequenti u tàsciu e le Marmotte, oltre a e tàrpe ed i Ghiri, oggi non troppo appetibili e sovente protetti. Ma hanno fatto parte delle prede anche l’Orso e persino bisce e serpi.
           Con la regolamentazione moderna della caccia, seguita da un intenso sfruttamento delle risorse e da un irreversibile inquinamento, le possibilità di cacciagione si sono decisamente ridotte. Anche la sensibilità ecologica dei moderni cacciatori pare sia decisamente migliorata.
            Oggi, la caccia più praticata è quella al cinghiale; effettuata da squadre organizzate, riesce a mantenere l’equilibrio vitale di una specie in rapida crescita, a causa dell’abbandono, da parte dell’uomo, del territorio montano.
           L’auspicato reinserimento del lupo, u lùvu, ingiustamente creduto dannoso, per interminabili secoli, dovrebbe ridare equilibrio all’ecosistema, che troverebbe giovamento anche dal ripopolamento, ad alte quote, di erbivori selvatici di grossa taglia, quali caprioli e camosci.

LA CACCIA DA PIUMA
          Tra la cacciagione da piuma, sulla mensa nobile locale, non sono mai mancati: a becàssa, a càgliara, a pernìxe, u galétu de muntàgna, ovvero il Fagiano, u becafighe, u becaçìn, u verdùn, a spìpura, u pitapìn, a tùrtura e u curùmbu, ovvero il Piccione selvatico.
          Nella cattura, con le reti o con i trapin unti dì vischio, finivano: u frenghélu, u mérlu, a cavéurna, a testanégra, u lùgaru e u tùrlu, del quale si conoscevano tre varianti u cursìn, u scascélu, a çésara”, u marvìssu e u butàssu. Si catturavano anche u rebìssu, il Pettirosso, u strùnelu e persino u buì, o u ciciö, lo scricciolo, che rappresentavano l’uccellagione minuta. Ancora negli anni dal Trenta al Cinquanta, del nostro secolo, questi uccelletti furono bottino di numerose doppiette.
          Nell’ultimo dopoguerra, invece, venivano cacciati con fucili a ripetizione sempre più sofisticati, usati da “cacciatori” sempre meno oculati, tanto da diventare merce rara e venir quindi, in qualche modo protetti.
          Altro volatile commestibile, oggi giustamente protetto, è u galétu de màrsu, ovvero l’upupa. Sulla mensa odierna, l’auxelétu è rarissimo e forse è meglio così. Nei supermercati si trovano, a buon mercato, ottime quaglie e robusti piccioni, che sostituiscono degnamente la richiesta base gastronomica. Anche il fagiano e l’anitra sono presenti nei mercati.
          Il volatile migratore più rappresentativo, della caccia nostrana, è stato l’anitra selvatica; mentre la preda più ambìta e stato u germàn, o anitra nera. Nell’Alto Medioevo, veniva catturata anche la Gru, che arrostita, offriva qualitativamente un ottimo banchetto.
         Le Gru, assieme al Cavaliere d’Italia ed altri trampolieri sceglievano sovente la zona umida, alla foce del Torrente Nervia, quale sede di tappa, nel loro viaggio di trasmigrazione verso il Nord Europa.
          Trattando di uccelli, non si può dimenticare l’apporto dato alla caccia dalla falconeria. Nel Medioevo, la nobiltà locale ha certamente praticata la caccia con u farchétu, appositamente  addestrato. La specializzazione si è poi trascurata, fino agli anni Settanta, quando una scuola dì falconieri si è insediata sulle alture della Turbia, praticando l’arte per il solo gusto della dimostrazione.
           Oltre ai conosciuti selvatici, la popolazione ha da sempre dato la caccia a piccoli animali e persino ad insetti per sfamarsi, ma qualche volta per assaggiare vere e proprie leccornie alimentari, che oggi la cucina riscopre, anche se a molta gente non vanno proprio giù. Tra questi animaletti troviamo rane e lumache, mia anche qualche insetto, oggi neanche più proponibile.

LE RANE
         Un tempo e ràine erano abbondanti anche lungo il corso dei nostri torrenti, mai sufficienti comunque ad organizzare un consistente menù. Sono stati i contatti con le risaie del Vercellese, che ci hanno fatto conoscere anche questa delicata leccornia, sovente presente sulle mense di censo. Sul nostro territorio, vivono da sempre le Raganelle mediterranee, mentre la Rana verde è stata introdotta dopo la seconda guerra mondiale, importandola dall’Albania, a scopo alimentare.
          L’eccessivo uso di anticrittogamici e diserbanti nella floricoltura ha quasi cancellato la presenza delle rane. Oggi, per l’uso in gastronomia, lo stesso prodotto viene importato, congelato e raro, dalla lontana Indocina, sempre concesso alle mense benestanti e di gusto compiacente.

LE LUMACHE
         Dopo ogni temporale, sui camminamenti interpoderali del nostro entroterra, pullulano gustosissime lumàsse e squisiti ciùi, che da sempre vengono raccolti, lungamente spurgai e cucinati, in succosi intingoli, sostenuti dalla menta.
           Nei boschi, la raccolta di questi gustosi gasteropodi è oggi proibita ed attentamente controllata, anche se gli abusi abbondano. L’allevamento di lumache, che altrove costituisce una interessante opportunità imprenditoriale, nel nostro entroterra viene decisamente evitato. Eppure, sia per le condizioni climatiche, che per il reperimento di abbondante foraggio, le nostre Alte Valli sarebbero ideali.

CACCIAGIONE E RACCOLTA

 

          Il 26 marzo del 1643, un sensale e commerciante di “bestie grosse e minute”, che operava tra il Basso Piemonte, Tenda e Briga si aggiudicava la fornitura di carni alla mensa del vescovo e di tutte le persone ecclesiastiche di Ventimiglia, compresi i frati del Convento di San Francesco. La qualità della merce prevedeva “… carni di manzo o manza piemontese e carni di montoni novellani”, al prezzo di vendita di 34 denari di moneta genovese alla libra. Il posto di macellazione veniva definito, o nel Convento francescano, o nella strada antistante le Case Canoniche della Cattedrale. I giorni di vendita erano così documentati: “Carni di manze dalla festa di Pasqua a venire fino alla festa di San Giovanni; da questa fino ai Santi carne di montoni; dai Santi fino a Carnevale venderà carni al sabato e martedì e quelle di montone tutti i giorni permessi”.

Fin dal 1558, il Comune appaltava numerose imposte, in pubblica callega, tra le quali era presente anche la Gabella macellarum, la Gabella macelli, pedagii, la Gabella passagii animalium e la Gabella porcorum; ponendo i sensali di bestie all’interno di strette regole commerciali.
       Nel 1600, il Parlamento ventimigliese, nelle Regole dei Maestrali, decretava sulla macellazione e la vendita delle carni in tutta la Comunità di Ventimiglia; assegnando poi l’appalto per la fornitura di carni alla stessa Comunità. In precedenza, gli appaltatori locali riuscivano a sottrarsi ai continui controlli. Molto spesso gli abusi venivano tollerati giacché, non raramente, famiglie notabili della città si approvvigionavano nottetempo a fonti non legali. Privilegiate, sia per la lontananza dai controllori, sia per il blando controllo effettuato, erano le Ville.

Le Gabelle macellarum

 

      Fin dal X secolo, la corte comitale e la conseguente presenza della classe nobiliare nella città, esercitavano una notevole pressione fiscale verso le Ville e gli agricoltori del contado. Se nel XI e XIII secolo, il porco salato era ancora per tutti, cittadini e contadini, la carne per eccellenza, dal secolo XIV, i cittadini amavano distinguersi come consumatori di bue e di manzo, la carne più cara ed esclusiva sul mercato.
     Chi non poteva permettersela, si doveva accontentare di pecore e castrati, un genere che in quel periodo trovava la massima espansione, più a causa dei bisogni dettati dall’industria laniera, in rapida e potente espansione, che per la stima che il genere incontrava dal punto di vista alimentare.
      Inoltre, la trasformazione del paesaggio rurale o montano, aveva cancellato molti spazi coltivati, che non avevano visto ripristinare i primitivi boschi. La foresta era stata terreno incontrastato per l’allevamento dei maiali, i vasti prati naturali che l’avevano sostituita, dopo gli inconsulti disboscamenti, erano aree più propizie alle pecore animali di “‘moda”’, per la lana, nella società urbana del XVI secolo.
     Da documenti del Cinquecento apprendiamo invece che in quel secolo, il macello di Ventimiglia era dato in appalto dagli amministratori del Banco di San Giorgio, cui la città era assegnata. Il macellaio che si aggiudicava la concessione doveva fornire un certo quantitativo, annuo, di carne fresca alla comunità.
      Anche gli eserciti stranieri che transitavano nella regione, numerosi, pretendevano l’approvvigionamento di carni, oltre al pane fresco.

A partire dal secolo XII, al mercato della città erano destinati i bovini, che venivano prodotti in quantità maggiore che in passato. A ragione del peso, macellare un bovino non era quasi mai un affare di famiglia. Solo la presenza di una folla di consumatori rendeva conveniente l’operazione.
      I rogiti notarili indicano che, nella Ventimiglia del Duecento erano parecchi i ‘‘macellarius”, riuniti in una potente Maestranza. Anche la presenza toponomastica, continuativa, dell’antico “Vico Macelli” è segno d’importanza per l’allora emergente “arte”. Da questo, si può stabilire che il duecentesco Libero Comune ventimigliese fosse alla stregua di una discreta “città stato”, fra le molte che apparirono in quel momento.
      Ma ecco che nacque un’opposizione, anche in termini d’immagine, fra la città ed il suo contado. Fra la carne suina, macellata in famiglia e messa in conservazione: salata, seccata o affumicata; simbolo di un’economia tendenzialmente autarchica contro la carne bovina, macellata in città e simbolo del nuovo dinamismo commerciale.
      Oltre che alimentare, l’opposizione tra la città e le sue “Ville” risultava anche politica, ma l’immagine esteriore dettata dai particolari evidenti, era quella che maggiormente segnava in negativo i rapporti tra le due diverse entità. Rapporti che, nel Seicento, sfoceranno nell’autonomia della rinomata “Repubblica degli Otto Luoghi”.    

CARNI  E  STRATI  SOCIALI

 

 

          Le trippe bovine, preparate usando gli stomaci: a buséca, assieme a a scùffia, e çentupéle e a drüa, con aggiunta dell’intestino crasso, cioè: u biélu gràsciu, u stùpu e u biélu cùrau, ai quali si aggiungono i mìsculi d’i zampìn e u mürrétu, che decretano il denso all’intingolo, ovvero a bàgna per legare la ricetta.
          Dalle frattaglie bovine ed ovine si ricavano ottime fritture, con: u figarétu, a mìrsa, a curà o curatéla, com’era chiamato il polmone, i rugnùi ed i lacéti o ghiandole; mentre a çervéla risulta più gustosa se impanata.
          Gli agnelli da latte, che ancora non avessero toccato foraggio, fornivano una delicatezza, oggi introvabile, i bieléti, l’intestino tenue raccolto in mazéti e cotto a zemìn, con aglio e prezzemolo.

I già citati documenti notarili del XIII secolo, asseriscono che la corporazione dei “macellarii” fosse assai potente, in Ventimiglia, quindi, i suoi associati sarebbero stati numerosi e ben introdotti nel commercio locale.
         Dalla macellazione, oltre alle carni, derivavano una grande quantità di frattaglie, che il popolo minuto apprezzava particolarmente per questioni economiche, sovente imitata dai benestanti, per ragioni di gustosità.
         Dai bovini, a lénga preparata con i capperi o salmistrata, a testìna in gelatina e a maschéta in umido, oppure a  cùa, bollita o stufata.

IL GUSTO DELLE FRATTAGLIE

 

 

 

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 rivista il: 06 agosto 2012