ALIMENTAZIONE

OLII  E  GRASSI
         L’olio d’oliva è senza dubbio il condimento più diffuso, meglio apprezzato e largamente prelibato di tutta la cucina ligure ed in modo particolare di quella intemelia. Il nostro olio è neutro, perciò adatto ad ogni ricetta, compresa la delicata focaccia. Profuma di fiori da campo, camomilla, mandorla e pinoli, perciò è anche delicato con pesci e crostacei.
          Ancora nel primo Novecento, sul nostro territorio, il burro non poteva essere prodotto in grandi quantità, per l’eccessivamente moderata presenza di capi bovini. Le poche quantità che si producevano erano anche egregiamente aromatiche, ma tradivano una breve, quanto ignobile conservazione. L’informazione ci viene fornita da Giovanni Ruffini, dal suo romanzo d’ambiente “Il Dottor Antonio”.
          Il particolare clima, goduto da questa nostra terra, benedetto per altri aspetti, non si prestava alle lunghe conservazioni degli alimenti grassi. Ragione per cui il burro, come altre vettovaglie grasse, si presentava soltanto sulle mense più ricche, attrezzate con apposite dispense, molto spesso ricavate in grotte naturali o particolari cantine.
         Tra i grassi animali veniva usata fresca a sùngia, nota sugli Statuti medievali col nome in “axiungia”, che non godeva di lunghissima conservazione. Lo Strutto, sovente importato in barili, non durava a lungo fuori dai freschi magazzini.
           La presenza quasi esclusiva del lardo e dei grassi suini nella dieta della gente comune nostrana si è protratta dall’antichità preromana fino al cosiddetto Rinascimento, quando cominciò a risultare disponibile l’olio d’oliva, in discrete quantità alimentari.
           Infatti, fino ad allora il nostro olio d’oliva era quasi esclusivamente relegato ad usi illuminanti, farmaceutici e cosmetici, o come detergente nell’arte laniera. In molti casi, un pezzo di lardo salato veniva usato parecchie volte, immerso nella cottura di minestre eppoi riappeso in luogo fresco e possibilmente riparato da insetti ed animali, fino al successivo riutilizzo.

SALUMI  E  PROSCIUTTI
           Sulla costa, sempre a causa del clima, per la presenza dell’aria iodata e delle temperature relativamente elevate, la produzione e la conservazione naturale dei prosciutti non è neppure pensabile. Il rancido si impossessa dei grassi, guastando ogni cosa, quando resta al di fuori di ambienti opportunamente rinfrescati.
            Nel passato, la stessa salumeria insaccata, considerando la presenza di grassi, veniva opportunamente scaldata su bracieri e poi essiccata, per renderne rigida ed impenetrabile la superficie, in tempi abbreviati. Meglio ancora se era esposta su fumi aromatici, per scongiurare anche l’ovulazione delle mosce. Oggi le mosche vengono meglio controllate, anche se chimicamente.
            Non cerchiamo dunque, tra la nostra produzione tradizionale, salumi o prosciutti di qualsivoglia qualità o stagionatura. Questa è stata da sempre merce d’importazione dal Basso Piemonte, non esente del tutto da guai, almeno fino al sopraggiungere della catena del freddo.
          Un discorso a parte andrebbe tenuto per le vallate interne, dove microclimi locali potrebbero invece favorire lo stagionamento degli insaccati, come succede da secoli nella vicina Ceriana, patria di ottime salsicce.
            Il prosciutto cotto a vapore, quello chiaro, che noi chiamiamo u giambùn, alla francese, è forse l’unica specialità, da conservazione, fattibile nel nostro clima, giacché i grassi così trattati non sono più attaccabili dal rancido. Si ha memoria di un delizioso giambun, prodotto da Pinò Biamonti, aiutato dalla sorella Orsolina, in Via Cavour, vicino all’Albergo Francia; a cavallo dell’epoca che ci ha riservato l'ultimo Conflitto Mondiale.

ARTIGIANATO CONSERVIERO
            Il Ponente intemelio non si e mai attivato, alla grande, nell’artigianato conserviero degli alimenti, ma è comunque provvisto di una sostenuta tradizione. Dall’antichità ci è segnalata la conservazione dell’uva in orci.
           Dal Medioevo non ci giungono documenti di particolare interesse, se non sulla diffusa coltura dei fichi, ovviamente seccati e conservati, in una sorta di pani, fasciati con foglie. Agli inizi del Cinquecento, dall’agrumeto venne in auge l’artigianato dei canditi, delle confetture e delle conserve in zucchero, ma anche la distillazione del Fior d’Arancio.
           Erano conosciutissime, anche: le cotognate, le pignolate, le persiche e la zucca candita, prodotte in tutta la Liguria. Tra i prodotti del mare, veniva conservato il filetto di delfino essiccato al sole ed all’aria di mare. Oggi la pesca al delfino è vietata e questo prodotto detto musciàme viene sostituito dall’analoga preparazione con il filetto di tonno.
          Con le ovaie già sviluppate del müseru dourìn, salate, pressate ed essiccate, veniva prodotta la butàrega, che veniva consumata come antipasto, tagliata finemente; oppure grattugiata sulla pastasciutta.
           Nell’ottocento, venivano messe sott’olìo e sotto sale le acciughe, le olive ed i capperi in salamoia, invasettato u machétu, mentre venivano confezionate ottime composte, dagli abbondanti agrumi.
          Dopo le felici intuizioni del francese Pasteur, fu possibile conservare il pomodoro in recipienti di vetro, ponendoli a bollire, ermeticamente chiusi, in grandi pentoloni. Con lo stesso metodo usato per imbottigliare a cunsérva, vennero mantenuti i pomodori pelati.
           Nell’ultimo dopoguerra si cominciò a mettere conservanti chimici, nella conserva, invece di provvedere alla bollitura; in seguito, l’Industria ha messo sul mercato intere gamme di prodotti conservati, riducendo gli spazi per l’artigianato conserviero e l’opera delle casalinghe intraprendenti. Oggi, sì è creato mercato nel conserviero artigianale, aggiungendo alle specialità ottocentesche, il “tapenàde” dì olive triturate, d’importazione provenzale, da noi detto a franzàda.

VETTOVAGLIE  CONSERVATE
VETTOVAGLIE  CONSERVATE
 avviata il 18 ottobre 2011
 
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           La presenza di aria iodata e le temperature tendenti al tepore, anche d'inverno, rendono invidiabile il clima della Riviera Ligure, in particolare nella Zona Intemelia; ma presentano disagi nella conservazione delle derrate alimentari grasse. Molto attivo l'artigianato conservativo a fine Ottocento.

ALIMENTAZIONE INTEMELIA

          Le cose cambiarono a metà dell’Ottocento. Essendo stata decretata Stazione Internazionale, Ventimiglia visse l’arrivo della ferrovia con il privilegio del capolinea. Molti servizi accessori ai treni, produssero nella nostra città numerosi posti di lavoro e qualche volta, interessanti attività imprenditoriali.
         Il “Train bleu”, ovvero le carrozze ristorante del Wagon Lits, dovevano essere fornite di ghiaccio, così come i vagoni che servivano al trasporto di derrate alimentari deperibili. Anche la nascente floricoltura necessitava di ghiaccio per il trasporto ottimale dei fiori recisi. Così, il 15 luglio del 1895, i fratelli Semiglia di San Remo aprivano una fabbrica industriale di ghiaccio, in Roverino. In seguito sarà la famiglia Lupi ad avviarne una, nel Borgo, all’imbocco di vico Mulino.
         Da allora, la fornitura di ghiaccio alle famiglie è andata diffondendosi per tutto il comprensorio, con aspetti vari ed affatto omogenei. Prima dell’Ottocento, il freddo artificioso, per la conservazione di certi specifici alimenti, si otteneva con la costruzione di fresche cantine o in opportune grotte.


           Al giorno d’oggi, con l’energia elettrica diffusa capillarmente, in ogni casa esiste un frigorifero, quasi sempre corredato da un congelatore, per la ottimale conservazione degli alimenti. Si è creata così le “Catena del freddo”, che consente la realizzazione di molti prodotti, la cui conservazione è basata sul freddo, o sul molto freddo, ovvero, il congelamento o il surgelamento.
        Le ditte di produzione, i trasportatori ed i negozi rivenditori sono tutti dotati di opportuni frigoriferi, in modo da non interrompere la conservazione, se non per brevissimi tempi. In precedenza, ancora negli anni Cinquanta, molte famiglie non possedevano neppure una ghiacciaia: apposito mobile domestico che opportunamente fornito, giornalmente, di ghiaccio naturale o industriale, provvedeva ad un’approssimativa salvaguardia di qualche derrata alimentare.
         Per tutta l’ultima metà dell’Ottocento i fruitori di una comoda ghiacciaia si contavano sulle dite delle mani, su tutto il territorio, mentre le famiglie medio borghesi si arrangiavano con l’acquisto del ghiaccio industriale, tenuto in contenitori metallici.
       
Dal secolo XVI, soltanto le famiglie più facoltose cominciarono a fornirsi, avventurosamente, di ghiaccio naturale, appositamente prelevato dai ghiacciai e dai nevai delle Alpi Marittime. Grosse quantità di neve e di ghiaccio venivano stipate in apposite celle, ricavate nelle cantine, sino a provocare un discreto raffreddamento di alcuni locali.

IL GHIACCIO E LA CATENA DEL FREDDO

 

foto Alberto Cane

 

      Tra le forme più note della pasta, oltre a i tagliarìn, ad imitazione della pasta fatta in casa; e lasàgne, da non confondere con quelle larghe emiliane, erano più simili alle attuali farfalle. La specialità Ligure, riconosciuta, sono da ritenersi e trénete, ideali ad essere condite con u pìstu, ottimamente trattenuto da quei loro svolazzi sui bordi.
           Ad iniziare dal Seicento, la pasta ha cominciato ad assumere un ruolo importante nella dieta della popolazione. L’accoppiata pasta e formaggio, andava a sostituire il tradizionale binomio cavolo-carne. E’ stata una soluzione dietetica che ha garantito un buon apporto proteico, oltre al desiderato volume alimentare.
           All’inizio dell’Ottocento, in Liguria, esistevano oltre cento pastifici, che esortavano i loro prodotti, anche in altre regioni italiane, dove la pasta veniva riconosciuta “all’uso di Genova”. Anche Ventimiglia, alla fine dell’Ottocento, ebbe i suoi pastifici. L’ultimo, ancora in produzione negli anni Settanta, era sito in corso Genova, sull’angolo di via Regina; luogo che i nostri anziani indicano ancora come “da'u pastificiu Ligure”. Oggi la pasta è riconosciuta reclamisticamente come napoletana, ma la pasta ligure ne è stata l’antesignana.
           L’attuale produzione di pasta fresca, da parte di piccoli artigiani, oltre alla diffusione delle pratiche “pastamatic” domestiche, stanno ripercorrendo il cammino settecentesco, nella produzione “fideliaria” ligure.

         Un atto notarile ligure, datato 1279, ritrovato dal professor Nilo Calvini, tratta un testamento, nel quale, l’inventario dei beni indica “bariscella una plena de macaronis”, cioè, un contenitore pieno di maccheroni.
           Quest’atto notarile precede di tredici anni il ritorno di Marco Polo dall’Oriente e la sua descrizione del pasto del Khan dei Tartari, che consuma un piatto di pasta di scie., elaborata come spaghetti.
           Se è accreditabile ai mercanti genovesi l’aver diffuso, in Liguria e Toscana, le pasta alimentari secche di produzione siciliana, dal XIII secolo, in una Genova, dov’era già vivace la fabbricazione artigianale delle paste di frumento, l’idea degli spaghetti trova pronta applicazione, senza avere a disposizione la Soia, come materia prima, ma ottime farine di grano duro.
          Il successo popolare delle paste alimentari seccate, dovuta alla loro qualità di derrate alimentari a lunga conservazione e di facile trasporto, è stato integrato dalla preferenza che i ceti benestanti hanno accordato alle paste fresche, di elevata deperibilità, ma accreditata di lusso e ghiottoneria.
          In Liguria, le paste secche ottenute con filiere di acciaio delle più svariale fogge, storicamente si sono chiamati i fidéi, nome esteso in seguito, genericamente, a tutte le forme di pasta secca, maccheroni compresi.  Per contro, le forme più minute e spezzettate, adatte alle minestre si sono sempre chiamate i fideřin.

PASTE  ALIMENTARI

 

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 rivista il: 04 agosto 2012