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Cucina Ventimigliese

RICETTE   LOCALI

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    Nel ricercare notizie sulle tradizioni locali, non si può fare a meno d’imbattersi in usanze gastronomiche tipiche legate ad alcune festività o a determinati periodi rituali dell’anno. Il frutto di questa particolare documentazione riesce a completare il panorama delle solite ricette locali, con piatti dai caratteri ricercati o raffinati, molte volte dimenticati.
       Queste note contengono buona parte di quelle formule che non trovano spazio negli usuali ricettari, oppure, la descrizione di quelle altre che solitamente vengono stravolte dai moderni cucinieri, per ragioni di praticità, il più delle volte non richiesta.
      La certezza d’un’esecuzione corretta è stata sperimentata da Ebe Maccario, che è una provetta cuoca, oltre ad essere la gelosa custode delle ricette di tradizione intemelia ed una attenta analista della gastronomia locale.     

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ANTULUGIA D'U MANGIA'

       Quando non si disponeva d’abbondanti scorte in dispensa bisognava preparare in ogni modo un pasto, e la massaia d’un tempo  evitava lo spreco di pane raffermo, mettendo in pentola l’Aiga panà. Il medesimo criterio di risparmio ha portato agli uccelletti scappati.

       Eseguire alla perfezione frittelle e saccottini con vegetali, fritti, richiede qualche stratagemma non trascurabile.

Salsine di preparazione quasi immediata, a sostegno di pietanze con carne o conservati di suino, sono la Salsa Ravigota, oppure, la Franzada che si improvvisava nel frantoio in attesa del “rugliu” di olio dalla macina.

       L’Agliada, l’Agliulì, il Machetu ed il Marò, sono condimenti a lunga conservazione, oggi in disuso, ma il loro potenziale di gusto merita d’essere tramandato e di tanto in tanto rivisitato.

       La zuppa di pesce locale, ancor oggi attivamente praticata nei ristoranti tipici monegaschi, si chiama Bugliabasciu. Nelle taverne tipiche, stagionalmente, vi si gusta anche il raffinato Brodetto col novellame d’acciuga e le sardine ripiene.

       Il Lofio martino in zuppa è senza dubbio la ricetta di pesce autoctona più raffinata, ma anche quella meno ricordata dai moderni chef.

       Lo stoccafisso è stato per secoli il pesce della mensa  povera, altamente nutriente e conservabile. Le ricette locali che lo hanno tramandato fanno oggi parte della cucina raffinata, ma anche costosa.

       Legato al ciclo dell’Avvento, verso il tempo solstiziale invernale, è il piatto del gran pistàu, ancora in uso in Alta Val Nervia. Per i pastori, era essenziale avere a disposizione una base precotta, per rimediare un pasto caldo e veloce, continuando a controllare le bestie.

       Pestavano grossolanamente i chicchi di grano, per poi cuocerli bolliti fino a consumazione, in piccoli recipienti, dove trasportavano la “pasta” ottenuta, nella loro transumanza. L’ora del pranzo, raccolti sul posto ortaggi o vegetali da costa, portavano tutto a rinnovata veloce cottura.

       La farina di grano è sempre stata assai scarsa tra le nostre genti, quindi realizzare la sfoglia per le tagliatelle si presentava un’operazione sontuosa. Mescolando al macinato di grano una parte dell’invece abbondante farina di castagne si otteneva una pasta alimentare più corposa, ma assai felicemente sposabile ad un sugo di formaggi.

       Il coniglio cotto nel proprio sangue e nel proprio fegato presenta una maggior conservazione fuori del frigorifero, era quindi preparato per la intrinseca trasportabilità, ma il coniglio in scivé (salmì) possiede ancor oggi una gustosità di tutto rispetto.

       La capra cotta assieme alle fagiolane di Pigna o di Badalucco è sempre una prelibatezza della cucina locale, ma non è facile eseguirla.

       Ci sono stati avvenimenti storici che hanno interessato qualche personaggio importante in visita al nostro territorio, la ricetta locale, maggiormente apprezzata da questi, merita pur sempre di essere tramandata.

      Camillo Benso, Conte di Cavour, inviato dal Genio Sabaudo a ristrutturare il Forte San Paolo, nel 1828, trascorse l’inverno a Ventimiglia. Si può credere che il diciottenne tenentino avesse veramente incontrato l’entusiasmo di qualche ospitale trattore se è rimasto nella cucina ventimigliese il ricordo di tre piatti intitolati al suo nome: il “cappone alla Cavour”, la "minestra alla Cavour", minestra di pastina in brodo con crema di riso e tuorlo d’uovo, ed infine l’appetitosa “testina alla Cavour” con olive nere locali, crostini al burro e salsa di pomodoro.

      Il Filetto alla Voronoff è oramai una ricetta internazionale, ma pochi sanno che il celebre medico russo la elaborò durante il suo lungo soggiorno nel proprio Castello in Grimaldi, dove portava avanti le ricerche sull’eterna giovinezza.

      Tisane e acquacotta restano troppo in oblio nella moderna dieta.

      Il Castagnaccio è un dessert che esige regole fisse, non gradendo l’improvvisazione. Così anche le frittelle di mela.

      Gli abitanti d’un paese che, per secoli, sono stati conosciuti come “figones” non possono dimenticare i dolci che abbiano come base i fichi fioroni.

      Un tempo la nostra terra produceva gustose mandorle e compatte nocciole in quantità esportabili; per questo Bane e biscotti alle mandorle vanno ricordati.

      Nel medioevo i signori locali allestivano pseudo alberi di Natale in lauro, ornandoli con biscotti antropomorfi: e Bügatéte. All’Epifania non mancava mai il franzipane alla francese, portato oltralpe da Caterina De Medici.

      Castagnole, Pansarole e Bane fanno ormai parte del bagaglio dolciario locale, costituendo dunque una tradizione, come le focacce colorate eseguite a San Secondo.

                                                                                                                                                                                                    

  U DESCU RUNDU

 Rivista il:   18 agosto 2013
 

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