LA CITTà
CHE MOSTRA SEI ETà
V E N T I M I G L I A
Quasi sempre, le città che possono vantare una annosa storia, basano la documentazione relativa con lo sfoggio di documenti cartacei o, sovente, sulle memorie orali; in quanto, se le loro vestigia si sono assommate, in più strati, sul medesimo sito, i ricercatori trovano molte difficoltà nel riportarle alla luce.
Ventimiglia può documentare, con estesi siti di reperti archeologici e col costruito, le vestigia delle sue sei principali età, a partire dalla frequentazione trogloditica. Questa sua estesa peculiarità è fruibile fin dal 1880; vale a dire da quando, gli scavi per riesumare le rovine dell'antico castelliere intemelio e quelle della Città Romana. Intanto, altri scavi hanno riesumato i reperti abitativi nelle grotte preistoriche, in un sito pressoché limitrofo alla città. Vennero così riportate alla luce tre delle sue età o ere del passato, da aggiungere alle tre che si presentavano costruite, alla luce del sole.
Sulla costa, dove è segnato il confine tra Italia e Francia, è visitabile il sito dei Balzi Rossi, con le grotte ed il Museo Paleolitico, dove sono comparsi scheletri Cro-Magnon, a documento dell’età sostenuta con la caccia e la raccolta in natura. Sulle falde della collina di Collasgarba, presso la foce del Torrente Nervia, a ridosso degli Scavi Romani sono visibili le fondamenta di capanne dell’età vissuta con l’agricoltura e l’allevamento, appoggiate ad una serie di “Castellieri” tutti otticamente collegati e perlustrabili, a cominciare da quello di Ciaixe, sulle colline alle spalle della città moderna.
Sul pianoro sottostante la collina di Collasgarba sono visitabili il Teatro, le Terme, e molte Insulæ di Albintimilium, a testimonianza dell’età imperiale romana. Derivano dagli scavi iniziati a praticare dalla metà dell'Ottocento, con gli sterri per realizzare la linea e la stazione ferroviaria e continuati fin'ora da pregiati archeologi.
Sullo “Scögliu”, balcone soprastante la foce del Fiume Roia, è ben visibile la Città Medievale più estesa del Ponente Ligure e della Costa Azzurra, ad affermare l’età di gloria del Libero Comune, ma anche le tribolazioni nel corso della dominazione genovese. Quando questa venne meno, al momento dell'avvento del Regno Sardo, ha concesso le corpose modifiche del centro medievale, con il tracciato della strada larga, dove si affacciano i palazzi nobili, provvisti di giardini pensili sul lato affacciato verso il mare.
A partire dal complesso conventuale agostiniano, sulla piana a sinistra della Roia, compaiono in bella mostra le abitazioni ottocentesche della “Bastida”, nel quartiere Vallone, si documenta l’età nella quale è sopraggiunto il collegamento ferroviario col resto d’Europa, fautore di sviluppo della Città Moderna, che è il penultimo dei sei periodi, riscontrabile con le abitazioni ed i palazzi di servizi dell’attuale Centro Cittadino.
L'ultima età è quella del Miracolo Economico, che ha assistito inerme al poco omogeneo sviluppo cementizio occupante totalmente le Asse, per poi allungarsi nella Val Roia, oppure snaturando le colline circostanti, con il fiorire di antiestetici palazzoni nei sobborghi abitativi tra gruppi di case uni e bi-famigliari, esistenti o aggiunte. Il pur enorme volume costruito pare non sia riuscito a soffocare le peculiarità dei siti storici esistenti, rigorosamente visibili separatamente. Speriamo bene.
PALEOLITICO AI BALZI ROSSI
Le caverne dei Balzi Rossi formano uno dei più importanti complessi di giacimenti preistorici che esistano in Europa. I ritrovamenti che hanno dispensato le hanno rese celebri non solo nel mondo degli studiosi ma anche tra un vasto pubblico internazionale.
Queste grotte, non lontane dall’abitato di Mentone, ma nel territorio italiano di Grimaldi, frazione del Comune di Ventimiglia, si presentano come cavità più o meno ampie e dalla volta spaziosa o come grandi fenditure verticali che, a breve distanza dalla spiaggia e sopraelevate di qualche metro sul livello del mare, si aprono nella parete rocciosa, strapiombante, dal colore rossigno, colore a cui si deve il nome della località: i «Balzi Rossi».
I primi sicuri indizi della frequentazione umana compaiono in un periodo molto antico del Pleistocene. quando dominava un clima più caldo dell’attuale, che permetteva l’esistenza di fauna tropicale quali l’ippopotamo, il rinoceronte, i grandi felini e l’elefante.
In seguito si ebbero forti rincrudimenti climatici, con i ghiacci delle Alpi che si estendevano fino alle pianure. Con queste glaciazioni, gran parte dell’Europa era ricoperta da una spessa coltre di ghiaccio, dove sopravvissero soltanto animali di clima freddo, quali il mammuth, la renna, ma anche il grande pinguino artico e la volpe azzurra. Quando il ghiaccio si ritirava, nei periodi detti interglaciali, tornavano gli animali di clima caldo e costringendo le specie fredde a ritirarsi verso regioni più settentrionali.
I fenomeni glaciali portarono anche variazioni del livello dei mari, il quale durante le glaciazioni si abbassò notevolmente, mentre nei periodi interglaciali superò il livello attuale. Si è così calcolato che durante l’ultima glaciazione il livello dei mari doveva essere più basso di circa novanta metri di quello attuale e che i fondi marini che si trovano oggi a profondità inferiori, davanti alla grotte, costituivano altrettante rigogliose terre emerse; mentre durante gli interglaciali si formavano spiagge marine ad un livello di alcuni metri superiore a quello attuale.
Durante tutto il Pleistocene, varie razze umane si susseguirono anche ai Balzi Rossi. Queste popolazioni non conoscevano ne l’agricoltura ne l’allevamento degli animali. Avevano scelto a propria dimora le caverne, mentre si dedicavano alla caccia ed alla raccolta casuale, adattando utensili di pietra, che detto nome di Paleolitico a quel periodo.
Nelle fasi più recenti del Paleolitico l’uomo fabbricava manufatti d’osso e d’avorio e certamente lavorò, fin dai tempi più antichi, anche il legno; tutti manufatti che non hanno potuto giungere fino a noi.
Alla fine del Pleistocene le condizioni climatiche tesero a divenire assai simili alle attuali, finché si stabilizzarono definitivamente. L’uomo, pur trasformando le proprie industrie, continuava l’attività di cacciatore, che costituiva sempre la base fondamentale della sua economia. Questo periodo è detto Mesolitico: poi l’attività umana subisce radicali trasformazioni.
Nuove genti giunsero in Europa portandovi nuove culture. Iniziarono così i primi lavori agricoli, comparvero i primi animali domestici: la ceramica apparve accanto alla lavorazione della pietra e dell’osso. Si costruirono villaggi di capanne sulle alture. Nel periodo Olocene, aveva inizio il Neolitico o età della pietra levigata, al quale succedevano le varie Età dei Metalli, che portarono l’umanità alle soglie dell’età storica.
I giacimenti dei Balzi Rossi appartengono quindi al Paleolitico, che è stato suddiviso in Paleolitico inferiore e Paleolitico superiore. L’industria umana del Paleolitico inferiore è piuttosto grossolana e di poca varietà.
Nel Paleolitico superiore apparve un tipo di uomo, i cui resti sono stati trovati in abbondanza nelle grotte dei Balzi Rossi, si tratta del Cro-Magnon, di alta statura e di conformazione atletica, che aveva il cranio voluminoso, dolicocefalo, la faccia bassa e larga, le orbite di forma sub-rettangolare, gli zigomi pronunciati, il naso stretto, il mento massiccio e prominente. Anche un altro tipo umano, vi comparve, detto appunto razza di Grimaldi, i cui resti, fino ad oggi, non sono stati trovati in nessun altro giacimento.
Questi uomini furono in possesso di un’industria litica ed ossea assai varia e molto perfezionata; ma si rivelarono anche mirabili artisti che dipinsero le caverne con bellissime pitture policrome di animali, o che scolpivano statuette antropomorfe, quasi sempre femminili.
I relitti lasciati dai questi uomini sono giunti sino a noi conservati, sia in giacimenti all’aperto, sia in depositi formatisi nell’interno delle caverne, nelle quali consumavano i pasti, accendevano il fuoco, fabbricavano i loro strumenti o inumavano i loro morti.
Oggi, le grotte dei Balzi Rossi, dette "barme", sono visitabili, intanto che un dotato Museo espone i reperti.
C A S T E L L I E R I
Rilevare un “castelliere” tra le colline liguri, non è sempre facile, dato che i fianchi della collina che lo accoglie sono del tutto simili a quelli delle altre, modellate in fasce a secco; però, se si ricerca con l’immaginazione, la straordinaria efficacia che può rappresentare il culmine opportunamente fortificato, lo si può inserire nel contesto di un sistema di difesa; in ottica coi castellieri attorno, arrivando a scoprire ognuno dei siti. Quel sistema che ha saputo respingere le ondate intrusive di greci e romani. Dobbiamo dedicare rispetto a queste efficaci fortificazioni d’altura, costituite con cerchi concentrici di muraglioni a secco e palificazioni, poste a protezione di villaggi, valichi o passaggi obbligati.
A partire dall’Età dei Metalli, con la scelta della stanzialità, praticata da uomini che avevano portato qui l’agricoltura e l’allevamento; il territorio dell’estremo Ponente Ligure, è caratterizzato dalla presenza dei così detti “castellari” a protezione dell’intero territorio. A seguire quel periodo storico, si hanno intense tracce della romanizzazione, per giungere poi ai resti del probabile limes bizantino e dell’occupazione longobarda, è possibile seguire lo snodarsi della storia in una zona che, sebbene locale, può fornire utili spunti per la comprensione degli avvenimenti generali di un periodo assai avaro di notizie.
La Bassa Val Roia e la Val Nervia seguono una posizione geografica in direzione N-S, sino alla foce, rivolte ortograficamente verso la costa marina, formando due trincee consecutive, abbastanza difendibili da ognuno dei due versanti esterni. Per questo hanno saputo ritardare notevolmente la conquista romana da Levante, quando già avevano saputo contenere l’avanzata da Ponente dei greci massalioti.
Lo spartiacque tra le due valli, a partire dalla massiccia altura del Monte Abeglio, scende degradando fino alla collina di Collasgarba, con una serie di alture altamente difendibili che ne facevano un baluardo quasi invalicabile.
Lo spartiacque sito più a Levante, dall’altura di Monte Ceppo, cala fino alla Cima Croairöra, castellaro naturale in vista del mare, a protezione degli altri sulla linea verso Nord. Anche lo spartiacque di Ponente, abbinato al basso corso del Torrente Bevera ed al Massiccio Granmondo-Longoira, da Monte Tron degrada fino al Pian del Pozzo, alla Magliocca e a Colle d’Appio, bei castellari naturali.
Anche l’ampia piana costiera, formata da recenti alluvioni, nell’antichità si presentava molto più ridotta, oltre ad essere assai paludosa ed impraticabile, sormontata da alture con decise pendenze e numerosi tratti di rocche a strapiombo, normalmente invalicabili, sen non attraverso passi obbligati.
I crinali di tutte tre le displuviali si presentano ancor oggi ben coltivabili, mentre le “draire” di cresta, ossia i tratturi mare-monti, rappresentavano vie di comunicazioni sicure e ben protette, per una situazione geografica particolarmente varia e accidentata, che concedeva facilmente il rapporto monte-mare agli stanziali, precludendolo agli altri.
Scarse e frammentarie sono le informazioni reperibili da questo territorio, in epoca preistorica. Le rarissime ricerche archeologiche effettuate anche da dilettanti evoluti, hanno portato all’individuazione di reperti relativi ad un periodo compreso tra il Paleolitico e la l’Età del Bronzo, con prevalenza di pezzi relativi al Mesolitico. Il frutto di tali ritrovamenti è stato documentato, ma i reperti non sono ancora stati esposti in un sito opportuno.
La presenza di ritrovamenti archeologici, sui tratturi di sommità, in prossimità dei passi o dei culmini collinari rocciosi, unita alla disponibilità di sorgenti, atte a favorire la sosta di animali, indicano una frequentazione legata alla transumanza, sostenuta e protetta dai numerosi “castellari”, a difesa di villaggi, pascoli e campi coltivati.
Di semplice struttura, erano formati da anelli di cinte murarie solitamente eretti su cime già difese naturalmente almeno su un versante ed in taluni casi a quote superiori ai mille metri. A volte racchiudevano al loro interno campi e capanne. Da non sottovalutare anche l’aspetto militare di questi insediamenti.
Le popolazioni autoctone dovettero far fronte a progressivi contatti con altre popolazioni che assunsero, in prima battuta, la forma di veri e propri scontri. In seguito possiamo pensare ad un progressivo processo di assimilazione e fusione tra gli originali abitanti della regione e gli invasori con, in particolare, i Celti; giacché sono sempre più frequente i ritrovamenti di luoghi con onomastica celtica o protoceltica.(*)
I castellieri fungevano, poi, da centri religiosi: le vette dei massicci montani utilizzate per i “castelli “ racchiudevano anche l’area sacrale raggruppando, quindi, in un unico ambito l’estrema ridotta difensiva ed il centro di culto. I confini di queste comunità non erano necessariamente determinati dall’andamento orografico dei crinali; spesso erano i boschi a svolgere una funzione confinaria. Le selve erano le aree dove, in tempo di pace, si svolgevano attività di pacifico vicinato ed erano aperte ai circonvicini, anche per ragioni di culto. In caso di ostilità divenivano una terra di nessuno, a protezione di ogni contendente e i culti praticati avrebbero dovuto allontanare la magia negativa.
Sulle falde di Collasgarba ed in zona Cavalcavia, sono emersi ritrovamenti preromani che avrebbero dovuto appartenere alla sede di un emporio, per lo scambio di merci coi navigatori massalioti, da parte degli abitanti dei castellari di crinale, a cominciare da quello di Ciaixe, che avrebbe funzionato da quadrivio di media valle. Teniamo l’espansione commerciale dei Massalioti non si è mai avventurata oltre Capo Ampeglio, diffidente della capacità piratesca degli Intemeli d’altura.
(*) Plutarco ricorda la comune origine delle popolazioni liguri al servizio dei romani, con altre popolazioni celto-galliche, testimoniata dallo stesso grido di battaglia, “Ambrones”. Lo stesso commercio di prodotti tipici delle regioni del Nord Europa, quale l’ambra, di cui erano quasi monopoliste le popolazioni liguri, confermerebbe questo stretto legame.
ALBINTIMILIUM ROMANA
Gli Intemelìi dei “castellieri”, avevano aggregato le loro tribù in un unico popolo, il quale aveva assunto a capoluogo l’emporio che andava sviluppandosi, nei pressi della costa, alla foce del Torrente Nervia, sulla collina di Collasgarba.
La oppidum che stava sviluppandosi attorno all’emporio era conosciuta come «città degli ìntemelìi», che gli storici ed i cartografi dell’epoca tradussero con Albium Intemelium.
Questa nascente entità politica, in stretta unione con gli Ingauni di Albenga, con buone probabilità sì alleò con Cartagine durante la seconda guerra punica; in seguito, dopo un periodo di ostilità con Roma, entrò nel 180 avanti Cristo nell’orbita romana ed accettò a poco a poco leggi e costumi dei conquistatori. Alla base della oppidum dei Liguri Intemelìi, si insediò probabilmente un castrum con un presidio romano, che fu il primo nucleo e il punto di partenza della città romana.
In epoca imprecisata, probabilmente nell’89 a.C., i Liguri Intemelìi conseguirono il diritto latino e costituirono un Municipium, che fu uno dei cardini della romanizzazione dell’antica Liguria. Il suo territorio si estese allora a tutto il bacino del Roia, naturale entroterra di Ventimiglia, aggregando alla civitas degli Intemelìi i Liguri Montani, nelle zone di Saorgio, di Sospello e di Briga, sottomessi successivamente, e giungendo lungo la costa sino ai confini di Monaco e di Sanremo.
Nell’anno 49 a.C. tale ordinamento acquistò carattere definitivo, giacché Giulio Cesare concesse la cittadinanza romana: Albium Intemelium, nell’organizzazione impiantata da Augusto venne considerata l’ultima città amministrativamente italica, col nome contratto in Albintimilium, «città assai grande», come la ha definita Strabone; mentre poco a ponente, alla Turbia, aveva inizio la provincia delle Alpi Marittime e, oltre il Varo, la Gallia, o meglio le Gallie.
Dell’anno 49 a.C. si hanno, da una lettera a Cicerone, le prime notizie dirette sulla situazione interna della città, quando il partito pompeiano vi provocò disordini, facendo assassinare un concittadino, il nobile Domizio, che aveva ospitato Giulio Cesare: gli Intemelìi insorsero (risale a questo episodio il motto della Città: Civitas ad arma ìit ) e Marco Celio Rufo, luogotenente di Cesare, fu costretto ad accorrere con truppe dalla Provenza in soccorso del presidio minacciato.
La città doveva essere a quest’epoca completamente romanizzata, grazie soprattutto alla sua posizione di nodo stradale sulla strada per le Gallie, denominata nel 13 a.C. Via Julia Augusta, di cui si conservano molte pietre miliari tra Ventimiglia e Nizza, e che diventò la principale arteria di comunicazione terrestre con l’Occidente.
La città aveva come supremi magistrati i duoviri, autorità pari ai consoli di Roma, il suo senato municipale di decuriones e tutte le altre cariche civili e religiose proprie di ogni città romana: edili, prefetti, questori, flamini, collegi corporativi. I cittadini di Albintimilium, iscritta alla tribù Falerna, o Falerina, militavano sotto l’Impero nelle legioni e nelle coorti pretorie, e i migliori percorrevano le carriere pubbliche conseguendovi alti gradi: il più insigne di cui si abbia finora memoria è Marco Emilio Basso, che al tempo di Adriano ebbe molti incarichi di primo piano nella carriera procuratoria e fu tra l’altro fu un successore di Ponzio Pilato nel governo della Giudea.(*)
Fu pure oriundo di Ventimiglia Gneo Giulio Agricola, il conquistatore della Britannia, la cui madre, Julia Procilla, fu trucidata nei suoi poderi suburbani durante il saccheggio che la città subì nel 69 d.C., da parte dell’armata navale dì Ottone, reduce da uno scontro con l’esercito del rivale Vitellio sulla costa nizzarda. Tacito, genero di Agricola, ci ha conservato il ricordo dei funerali della sventurata donna, svoltisi ad Albintimilium negli stessi giorni in cui giungeva la notizia della proclamazione di Vespasiano a imperatore; e ci da in questa occasione un quadro della floridezza della città; «pieni agri, apertae domus» è la frase incisiva usata dallo storico, che doveva mostrare gran contrasto alla povertà e al carattere primitivo delle valli interne, sino al Colle di Tenda, ove mancano quasi totalmente le vestigia di un’intensa vita romana. Solo nella Val Nervia, vicina alla città, sembra si fosse sviluppata una vita rurale più intensa; lungo la costa da Bordighera a Mentone, privilegiata dal clima, dovevano essere frequenti le ville suburbane.
Dopo l’infortunio del 69 d.C. Albintimilium si risollevò, probabilmente col patrocinio di Agricola e col favore di Vespasiano, e prosperò per più secoli nella pace generale dell’Impero, fino al IV e al principio del V secolo, in questa epoca la vita della città subì un brusco arresto, conseguente ad una o più azioni distruttrici, forse dovute alle invasioni barbariche o alle agitate vicissitudini dei tempi. La città decadde rapidamente anche dal punto di vista civile ed economico, mentre la popolazione cercava rifugi più sicuri nelle valli e sulle alture circostanti.
La tradizione cittadina tuttavia non si estinse, e Ventimiglia, mutando il suo nome in Vintimilium, accolse una delle prime sedi vescovili della Liguria, che conservò la giurisdizione territoriale del municipium romano. Nel VI secolo fu un castrum, caposaldo della difesa del limes bizantino contro i Longobardi, e potè resistere fino al 641, anno della conquista di Rotori, e forse ancora per qualche decennio dopo, nella Provincia Maritima Italorum quae dicitur Lunensis et Vigintimiliensis, ultimo baluardo della difesa bizantina. In questo periodo avvennero il definitivo abbandono della città distrutta nella piana di Nervia e il trasferimento della sede principale e giurisdizionale sul colle meglio fortificato di Ventimiglia alta, a ponente del Roia. Le vestigia romane vennero sommerse dalle ghiaie e le sabbie marine e rimasero, quasi dimenticate, fino alla metà del XIX secolo.
(*) Di Marco Emilio Basso, sul poggio del Cavu, riva destra della Roia, sono stati recuperati il cippo funerario e il sigillo, che sono esposti nel locale museo.
VENTIMIGLIA MEDIEVALE
Rimasta saldamente protetta dai Bizantini anche dopo l’invasione longobarda della Padania, Ventimiglia fu, per circa un secolo, un caposaldo della regione Alpi Cozie; ma nel 641, probabilmente si dissolse anche la protezione bizantina. Certamente, col regno di Liutprando, la Città era saldamente longobarda, dato sicuro, considerando le fondamenta della cattedrale eretta sullo Scögliu, a destra della Roia; dove celebrava anche il vescovo Giovanni, che sappiamo essere stato al Concilio svoltosi a Roma, nell’anno 680, per la condanna dei monoteliti.
Non esistono altre notizie certe, fino all’avvento dell’Impero carolingio e la sua organizzazione del secolo IX; quando si conosce dei danni subiti da parte dei Saraceni insediati al Frassineto, Allo stesso periodo risalgono le più antiche notizie circa i conti di Ventimiglia: secondo un documento di papa Giovanni VIII (879), Adalberto marchese di Toscana risulta feudatario di alcune contee in Provenza, fra cui potrebbe trovarsi quella ventimigliese. Da Adalberto discendeva Bonifacio e da questi Guido, cui si attribuisce un documento apocrifo, datato al 954, che costituisce peraltro traccia sicura dell’antica origine della contea.
Inserita nella Marca di Susa, cui rimase legata, anche se in maniera assai labile, almeno fin verso il 1030, la contea di Ventimiglia, retta da feudatari che si dichiaravano di legge latina, ebbe un ruolo rilevante nella scacciata dei Saraceni dal Frassineto.
All’inizio dell’XI secolo, la contea è saldamente insediata fra l’Armea e la zona di Monaco, e controlla le valli dell’entroterra, mentre più ad oriente, Sanremo tende a divenire un punto di penetrazione dell’influenza genovese, in una prima fase per le consistenti tenute della Curia vescovile, mentre, ancora oltre ad est di Taggia, si estendono le terre dei Benedettini, con una sorta di principato monastico, la cosiddetta Villaregia, legata alla chiesa di Santo Stefano di Genova.
Il progressivo consolidarsi della città, in un rapporto conflittuale con il potere comitale, che comunque permaneva ben presente con il suo palazzo fortificato nei pressi della Cattedrale, si mostrava con l’ingrandirsi della Cattedrale, l’erigersi delle mura e nel sorgere di una piccola marineria, che trovava nel Lago del Roia un ottimo Porto Canale. La città venne organizzandosi in forme comunali, col ruolo attivo dei conti, capaci di esprimere una originale politica territoriale e dinastica.
Il progressivo espandersi della potenza genovese lungo la Riviera si scontrò con la resistenza tenacissima di Ventimiglia, durata implacabile per oltre un secolo, con fasi di adattamento, di alleanza o una fiacca resistenza. Ne sono testimonianza i giudizi dati ai Ventimigliesi dagli annalisti genovesi: «dediti unicamente alla rapina e alle malefatte», «senza coscienza» e «incapaci di rimorso», «poca fede, instabilità e cattiva natura».
Nel 1130, l’intromissione genovese provocava un primo scontro, ottenendo il giuramento di fedeltà a Genova del conte Oberto e dei borghi di Baiardo e Podium Pini. Ancora nel 1140, Genova, costringeva il conte Oberto a trasferire la famiglia comitale a Genova, ad aderire a quella Compagna Communis. Anche Dolceacqua era occupata dai Genovesi e le reliquie di Sant’Ampelio, fino a quel tempo custodite in territorio di Ventimiglia, venivano portate a Sanremo.
Intanto la marineria ventimigliese era alleata coi Genovesi contro i Mori, alla presa di Almeria e Tortosa. Nel 1157 il conte Guido Guerra cede a Genova vari castelli, ma l’anno successivo, forse su istigazione di messi del Barbarossa, la città insorgeva e sbaragliava la guarnigione genovese. Tuttavia Genova, confondendosi tra gli alleati del Barbarossa, nel 1162, riusciva ad ottenere dall’Imperatore il sospirato predominio sulle Riviere.
Nel 1185, la Città strappava al conte Enrico il rinnovo di una serie di concessioni, spostando di fatto il potere comitale verso l’entroterra. Intanto i Genovesi, con l’insediamento a Monaco e con una serie di accordi con vari centri della costa provenzale tendevano ad affermare il loro predominio su tutta la zona, ottenendo dai conti Ottone e Guglielmo metà dei diritti feudali, nel 1192. Nel 1200, Ventimiglia, insorta nuovamente ed attaccata senza grande successo dai Genovesi, vedeva allearsi con l’odiata rivale proprio i conti Guglielmo ed Enrico.
Nel 1201, la Città si sottometteva. Nel 1215, Fulcone di Castello erigeva la rocca di Monaco. Nel 1219, nuova violenta insurrezione di Ventimiglia, ma questa volta Genova, forte dell’alleanza dei Malaspina, dei Clavesana, dei Del Carretto, dell’appoggio dell’imperatore Federico II, scatenava un’offensiva senza tregua, giovandosi anche dell’ambiguo atteggiamento del conte Manuele e del clamoroso passaggio di campo di una delle più importanti famiglie Ventimigliesi, i De Giudici. La città era assediata da terra e dal mare, il Roia veniva deviato per distruggere il porto e consentire un più facile assalto.
Dopo lunga resistenza, la Città si arrendeva, l’8 settembre 1222. I Genovesi imponevano la costruzione di un fortilizio a dominio della città, insedivano guarnigioni sulle mura e a Castel d’Appio, inviavano un Podestà. L’indipendenza del Libero Comune Marinaro era finita, e con questa il sogno di autonoma potenza marittima.
L’atteggiamento tenuto dai De Giudici, tradizionali nemici dei Curlo, accentuava la rivalità fra le fazioni cittadine, inserendola nel più vasto urto fra Guelfi e Ghibellini. Il potere dei conti si trasferiva verso Briga e Tenda, e permaneva uno stato di profonda tensione in città e nelle campagne, come testimoniano le imprese del pirata Guglielmo da Ventimiglia, e l’esplodere di una jacquerie nelle valli delle Alpi Marittime. Nel 1238, Ventimiglia insorgeva assieme a Savona e Albenga. L’anno successivo, i superstiti ribelli venivano annientati a capo Sant’Ampeglio.
L’8 giugno 1251, veniva siglato un «patto d’amicizia» con Genova, che regolerà i rapporti fra le due città fino al 1797. Genova occupava tutte le fortificazioni, facendo proprie: la gabella del sale, i diritti di navigazione, la nomina del podestà, del giudice e di due scribi; lasciando ai potentati locali l’amministrazione interna.
Nel 1258, la spinta espansionistica di Carlo d’Angiò, conte di Provenza, otteneva una serie di accordi con i Conti, sul dominio di Tenda, Briga e Saorgio; dando inizio alla «diaspora» cosmopolita dei Ventimiglia. Il matrimonio di Giovanni con Eudossia Lascaris, imparentata con gli imperatori niceni, dando origine ad un nuovo ramo, intrecciava i Ventimiglia con le complicate vicende di Costantinopoli; altri componenti del «clan» si trasferiscono in Sicilia, al servizio di Manfredi e poi di Corradino, fino ad acquistare in seguito straordinaria importanza fra i feudatari dell’isola, col titolo di conti di Gerace. Il più antico Ventimiglia siciliano, sarebbe Enrico, ricordato come conte di Yscle Maioris. L’11 settembre 1627, quei Conti fondavanoo una città col nome di Ventimiglia, sui monti alle spalle di Termini Imerese.
La presenza di Carlo d’Angiò si concretizzava con la creazione di una baillie di Ventimiglia e val Lantosca, con sede a Sospello, tanto da far pensare ad una possibile crisi del ruolo genovese nella zona, ma Guglielmo Boccanegra adottò provvedimenti di rafforzamento delle mura e della guarnigione, quando infine il 21 luglio 1262, il trattato di Aix sancì la spartizione del territorio: Castiglione e Briga alla Provenza, mentre a Genova, andavano Monaco, Roccabruna, Perinaldo, Mentone, Dolceacqua e la stessa Ventimiglia.
La città, privata del suo retroterra in val Roia, si trasformava in piazzaforte di frontiera, con un’economia senza vitalità. I confini stabiliti ad Aix, consolidati nel tempo, hanno segnato una delimitazione linguistica e culturale, conservata fino ad oggi.
A quegli anni datano gli atti del notaio Giovanni di Amandolesio, un corpus organico di documenti che hanno consentito di ricostruire la vita e l’economia della città nel Medioevo.
Nel 1312, l’insediarsi dei Francescani, i tentativi dei Curlo per favorire anche la presenza degli Agostiniani, del 1349, l’opera delle confraternite, derivate dai «flagellanti», portarono una certa pacificazione e il miglioramento delle condizioni di civile convivenza”, con qualche traccia di adeguamento culturale dato anche dalla vicinanza della sede papale ad Avignone, fino alla peste del 1348.
Dal 1378, per oltre quarant’anni, la Diocesi ventimigliese fu partecipe attiva allo Scisma avignonese, con un vescovo «ortodosso» a Ventimiglia ed uno «scismatico» insediato a Sospello
Nel 1388, con l’acquisto della contea di Nizza da parte dei Savoia mutavano radicalmente i rapporti di potere in tutta la zona delle Alpi Marittime, attirando Ventimiglia che, privata da Genova di ogni possibile espansione autonoma, era spezzettata dalle fazioni genovesi interne, prive di qualsiasi evoluzione positiva.
IL SESTIERE OTTOCENTESCO
Nel 1814, per breve tempo, Ventimiglia venne amministrata dalla ricostituita Repubblica di Genova, quando già era destinata a finire annessa al Regno di Sardegna. Anche se, al Congresso di Vienna, il governo provvisorio genovese, al fine di conservare l’indipendenza centrale, fece informare i Savoia avrebbe volentieri ceduto Ventimiglia e San Remo al Piemonte, pur di mantenere Oneglia. Anche abbandonando le «colonie» ponentine, Genova non riuscì a salvarsi, nelle decisioni delle Potenze europee.
Divenuta piemontese, per molti decenni, Ventimiglia venne considerata, soprattutto, una fortezza a guardia dei capricci francesi, quindi venne poderosamente munita, con l’intervento del luogotenente del Genio, Camillo Benso, Conte di Cavour. Venne ristrutturato Forte San Paolo, mentre, fuori Porta Nizza, si abbatteva il cinquecentesco Convento dell’Annunziata, per costruirvi l’omonima Ridotta, a protezione della strada per la Francia. Intanto si cominciò il completamento della rotabile costiera, avviata da Napoleone nel 1808, si costruì Ponte San Luigi, tendendo a fornire il territorio di un valido sistema di comunicazioni.
L’economia era spenta: nel 1827, si rilevava che l’unica manifattura era una modesta segheria ad acqua e le produzioni agricole si limitavano ad un po’ d’olio, poco vino, cereali e molti fichi secchi. Del resto, la scarsa vocazione industriale della città, in rapporto alla posizione ed alla ricchezza d’acqua, già rimproverata nell’Ottocento, sussiste ancora attualmente.
Nel 1831, la Diocesi che aveva perduto Nizza e Monaco, venne ampliata verso Levante, includendovi la zona di Sanremo e la valle Argentina, fino ad allora dipendenti da Albenga. Però, dato che Napoleone aveva voluto strapparla all’Arcidiocesi di Milano, per darla ad Aix in Provenza; tornando italiana ebbe la sventura di finire all’Arcidiocesi genovese.
Il grave terremoto del 1831, fu meno catastrofico che nei dintorni, come i tumultuosi fatti del 1848-49, gravemente patiti nel vicino Principato di Monaco, giunsero assai attenuati.
Nel 1853, Ventimiglia mandò al Parlamento di Torino, Giuseppe Biancheri, il quale, venne riconfermato fino al 1908, ricoprendo persino la carica di Presidente della Camera, a Firenze ed a Roma.
Nel 1853, la città era definita «punto strategico di altissima importanza». aveva 5900 abitanti, con una sempre povera economia ed un’agricoltura frenata dalla dispersività, dall’usura e dall’ignoranza. «Arti e manifatture stazionarie e neglette», con abitanti: «di complessione vigorosa e di pacifica indole; amano ricevere una qualche istruzione; stanno lontano dalle risse»; e molti si facevano preti.
Tuttavia, da quel periodo, iniziavano gli scavi della Città Romana, veniva recuperata la Cattedrale e le abitazioni civili venivano migliorate. Si ampliavano le piazze esterne alla città, e si tracciavano nuove strade urbane, fuori le mura.
Nel 1860, l’antica Contea di Nizza, con l’alta Val Roia, erano consegnate alla Francia, sicché Ventimiglia venne privata dal suo retroterra naturale, ma in compenso si trovò ad essere “città di frontiera”, preludio di un suo prossimo divenire sede di Stazione Ferroviaria Internazionale.
Nel 1867, Thomas Hanbury, un londinese che aveva fatto fortuna a Shanghai, acquistava dalla famiglia Orengo la villa di Capo Mortola, già proprietà Lanteri, e consigliato del fratello Daniel, studioso e naturalista trasformava la proprietà in un parco d’acclimatazione, centro di ricerca botanica famoso in tutta Europa.
Quel periodo venne beneficiato da un turismo aristocratico ed alto-borghese, che portò il in zona numerosi studiosi, ricercatori ed artisti di livello internazionale. Oltre a Thomas Hanbury, assai attivo anche nell’opera di urbanizzazione di Ventimiglia, si può citare Clarence Bicknell, acuto indagatore della protostoria ligure e fondatore della biblioteca-museo di Bordighera; oltre ai numerosi archeologi ed antropologi, sia italiani che francesi, ricercatori ai Balzi Rossi, scopritori dell’Omo di Grimaldi. Claude Monet, che seppe trarre rilevanti ispirazioni pittoriche dai nostri giardini; ma anche Serge Voronoff, lo scienziato russo che condusse le sue ricerche per un «miracoloso» ringiovanimento umano, a Grimaldi.(*)
L’arrivo dei binari della ferrovia litoranea, provocò un positivo cambiamento dell’evoluzione urbana: con l’espansione di un Sestiere moderno, in prossimità della stazione ferroviaria, sulla riva sinistra della Roia. Essendo sede di Dogana ed ispezioni, si crearono necessità di soggiorno forzato per i viaggiatori, col conseguente proliferare di Alberghi ed eleganti luoghi di svago. Sorsero alcuni casamenti di ottimo stile e pregevole fattura, quali “u Palassiu de l’Ingrese”, casa Hanbury sulla Via Aurelia, assai presso la Stazione, con di fronte il Palazzo Notari, noto imprenditore edile.
Anche la ferrovia di Val Roi era divenuta motivo di interesse, perché oltre a costituire un collegamento diretto con la pianura piemontese, è sempre stata ammirata per l’arditezza di realizzazione, quindi visitata dagli appassionati del settore.
Nel 1892, giunta a contare 8.900 abitanti, non poteva più contare sulla olivicoltura, in crisi per troppa concorrenza, non stampava alcun giornale, c’era solo un porto di seconda categoria/quarta classe, e le industrie erano tutte familiari, salvo una conceria, una cava e una segheria a vapore.
(*) Nel 1851, Alphonse Karr avviava il commercio dei fiori della Riviera a Parigi, nel 1862, era votata la legge per la strada di Val Roia, che sarà completata dopo 24 anni, collegando Ventimiglia con Cuneo attraverso il traforo del col di Tenda, nel 1869, Ludwig Winter fondava uno stabilimento orticolo a Bordighera, nel 1877, Edoardo Arborio Mella terminava i restauri della Cattedrale e Girolamo Rossi scopriva il Teatro Romano, nel 1879, era votata la Legge per la ferrovia in Val Roia, completata solo nel 1928, nel 1883, a Ventimiglia era soppresso il vincolo di «piazzaforte».
LA CITTà MODERNA
All’inizio del Novecento, Ventimiglia si presentava come scalo ferroviario internazionale e centro di frontiera, frequentata soltanto da commercianti, contrabbandieri e finanzieri; dove il turismo era soltanto di rapido transito, per costrizione doganale. Una «città di servizi» che stava costantemente emarginando il nucleo medievale, tollerando a fatica i ruderi romani e ammirando con indifferenza le splendide realizzazioni culturali e turistiche realizzate da alcuni stranieri.
Il crollo definitivo dell’olivicoltura, preceduto dalle gelate degli agrumeti, veniva rimpiazzato dalle coltivazioni floreali, intanto che sorgevano alcune concerie, poche fabbrichette familiari ed un rinomato pastificio.
A Ventimiglia, le vicende della Prima Guerra Mondiale costarono il tragico conto di quasi novanta perdite umane locali; mentre l’avvento del fascismo fu vissuto quasi di rimando. Il regime costruì, in perfetto stile “moderno” la nuova Stazione ferroviaria, il Palazzo del Littorio, oggi Municipio, e la Casa del Balilla, oggi palestra scolastica, mentre i commercianti locali erigevano il nuovo Politeama, oggi Teatro Comunale.
Sorta la Provincia di Imperia, nel 1926, e chiusi tutti i Casinò che agivano sul territorio, a vantaggio di San Remo, Ventimiglia si trovò a contare soltanto con lasolita economia agricolo-commerciale e il solito turismo di transito, che pure stava declinando; mentre la vita culturale venne illuminata soltanto dalla figura di Alessandro Varaldo (1876-1953), scrittore che venne definito l’inventore del «giallo all’italiana».
Con la fine degli Anni Trenta, si assistette al rifiorire della ricerca archeologica ad opera dello straordinario Nino Lamboglia, prima come erede della Regia Deputazione di Storia Patria per la Liguria Ingauna e Intemelia, che diverrà con lui l’Istituto Internazionale di Studi Liguri, il principale centro di cultura della Liguria di Ponente e non solo.
L’entrata in guerra dell’Italia provocò la fuga degli stranieri, col relativo sequestro delle proprietà franco-inglesi, compresa Villa Hanbury, in una zona immediatamente interessata dalle operazioni militari.
Dal 10 giugno 1940, le truppe italiane si prepararono sul confine, poi, a seguito dei trionfi militari tedeschi, nel Nord delle Francia, venne dato l’ordine di offensiva. Fra il 21 ed il 24 giugno, quando ormai la Francia stava per deporre le armi, gli italiani riuscivano ad entrare in Mentone, rimettendoci però un treno armato della Regia Marina, che ai Balzi Rossi, venne sopraffatto dal tiro dei forti francesi.
Mentone, occupata, fu praticamente annessa all’Italia e vi furono persino realizzati alcuni interventi di pubblica utilità, tra cui il riordinamento del museo. L’occupazione italo-tedesca della Provenza, nel novembre del 1942, provocò lo sgombero precipitoso sgombero di parte della popolazione e delle opere d’arte, eseguito in gran fretta nel giugno, con i reperti già disposti in casse dal Lamboglia, nel 1940.
Gli eventi precipitarono nel 1943, a seguito dall’insediarsi delle truppe germaniche in tutta la zona. In dicembre, iniziarono i bombardamenti aerei, che proseguirono pesanti nei mesi di gennaio, maggio e giugno; intanto che l’attività partigiana, assai intensa nelle vallate del Nervia e del Roia, venne contrastata duramente dalle truppe tedesche e fasciste.
Nel timore di uno sbarco alleato, i tedeschi fortificarono massicciamente tutta la costa, anche in punti estremamente delicati sul piano storico-culturale come i Balzi Rossi. Il 15 agosto 1944, con lo sbarco franco-americano in Provenza, Ventimiglia venne direttamente investita dai combattimenti: si formò uno schieramento contrapposto proprio sul crinale Longoira-Gammondo, che restò attivo fino all’aprile del 1945, col sostegno di continui bombardamenti aeronavali.
Gli ultimi mesi di guerra furono i più tragici, la città semi-abbandonata, devastati i Balzi Rossi, cannoneggiato il laboratorio di Voronoff, ridotta a «terra di nessuno» villa Hanbury, bombardati la Cattedrale, gli oratori e Sant’Agostino.
Il 25 aprile, la città fu liberata quasi contemporaneamente dalle forze partigiane e dai senegalesi-francesi che avanzarono fino a Bordighera; con l’evidente intenzione gollista di trasformare l’occupazione in annessione. In luglio, i francesi vennero sostituiti dagli americani e, di fatto, riprese l’amministrazione civile italiana.
Il trattato di pace, segnò la perdita di territori legati al Ventimigliese: Briga, Tenda e le «meraviglie» del Bego; però, già alla fine degli Anni Cinquanta, con l’attenuarsi del “senso di frontiera”, la dolorosa perdita, finì per divenire motivo di incontro e di collaborazione culturale e turistica.
La ricostruzione, assai lenta, non mancò di riferirsi anche ai monumenti, ai musei ed alle aree archeologiche. Per merito dell’attivo Lamboglia, molta parte del patrimonio artistico intemelio era sopravvissuta alla guerra, e nel 1946 a Bordighera, una mostra di opere restaurate, dava il segno di un ritorno alla normalità.
I complessi dei Balzi Rossi e la stessa Villa Hanbury, pur seriamente compromessi, vennero ampiamente ristrutturati, mentre nella città ricostruita tornavano anche gli Hanbury e Voronoff, protagonisti d’un fiorente passato.
Ma le cose erano destinate a cambiare. L’afflusso massicciò di immigrati dal Sud portò con sé manodopera a buon mercato, trasformando però la città antica in un dormitorio per i frontalieri, mentre la città moderna, imprigionata da un crescente interesse commerciale da parte della vicina Francia, si avviò verso una trasformazione urbana ed economica che stravolse l’armonico sviluppo generale. Anche la popolazione del Comune continuò ad aumentare, raggiungendo i 23.000 abitanti nel 1961 e i 26.000 nel 1971, con una frenata di stabilità nel 1989, con 25.978 abitanti.
Oggi la città è di fatto un centro commerciale sovradimensionato, legato strettamente all’economia della Costa Azzurra, una città bilingue, economicamente francese che soltanto nell’amministrazione è italiana, non certamente ligure, o non soltanto ligure.
Le difficili comunicazioni verso l’Italia, con una decrepita ferrovia a binario unico sono state di poco migliorate dalla difficile autostrada, che ancor più accentua l’attrazione di verso i centri francesi, più ricchi e meglio organizzati, mentre la caduta delle barriere doganali, il 1° gennaio 1993, ha dato inizio all’inarrestabile attrazione dell’estremo Ponente ligure verso la vicina Costa Azzurra, con la formazione della Regione franco-italiana delle Alpi Marittime.
Le Amministrazioni che hanno miseramente condotto la sopravvivenza cittadina, nell’ambito di una forte instabilità, hanno lasciato Ventimiglia al disotto dell’altezza cui il suo straordinario patrimonio culturale e naturale può farla volare.
Ricordiamo tutti, con rimpianto lo straordinario Nino Lamboglia, precocemente scomparso, che seppe ritrovare nello stesso periodo due grandi successi: in campo scientifico, le ricerche stratigrafiche nella «Città Nervina», mentre nel 1960, riusciva a condurre lo Stato italiano, sempre indifferente, all’acquisto di Villa Hanbury.
Oggi, da tutte le eccezionali emergenze culturali nelle quali galleggia, può nascere una nuova Ventimiglia, che merita di divenire, oltre che «città del mercato del venerdì», un privilegiato e civile punto di incontro fra culture.
Cemento fuori controllo