TOPONIMI INTEMELI
AZZARDI TOPONIMICI
MONT AGEL
Per trovare il significato di un toponimo, le congetture sono necessarie; almeno fino a quando non si trova un concetto storico inappuntabile, che rischiari il nome o, per contro, il luogo.
Quel caratteristico monte, che coi suoi 1150 metri, sovrasta il Principato di Monaco, compreso tra i confini di Turbia, Peglia e Roccabruna, il quale oggi è conosciuto come Mont Agel, nei secoli ha trovato i nomi: Aggeaulx, nell’Alto Medioevo; Agerbol, nel XII secolo tramutato in Agello, più di recente.
In latino, agger è il terrapieno difensivo rialzato, che è assai affine alle qualità del nostro monte, vero baluardo alpino in riva al mare; mentre la seconda parte di quel nome: aulx, nelle glosse galliche designa l’albero di ontano, certamente presente in quest’area.
Per agerbol si potrebbe usare il latino ager, il terreno coltivabile, che l’estesa sommità pianeggiante del nostro monte potrebbe effettivamente richiamare, in un territorio così aspro ed appeso come l’estremo Ponente ligure.
Ma la più fantasiosa delle congetture, assai adatta all’arguzia dei Liguri ponentini, potrebbe chiamare in causa ajérbu, che oggi scriveremo axérbu, per definire un monte che non è riuscito a maturare, così com’è troncato alla sua sommità.
L.M. da: LA VOCE INTEMELIA anno XLIII n. 3 - marzo 1988
TOPONIMI
ASSE e PORTASSE
Per definire il toponimo Asse, veniva posto in campo il termine che definiva i legnami sconnessi o bruciati, riportando la sua nascita alla distruzione provocata, nell’anno 643 alla Città Nervina e dintorni, dal sovrano longobardo Rotari. La popolazione intemelia si era trasferita sui monti, sino a quando il figlio di Rotari, Rodoaldo, nel 652, accordò loro i mezzi per riedificare la città, che sarà retta dai Longobardi fino al 774.
In forme più dotte, asse potrebbe essere stato designato a quella spiaggia lungo la quale le acque marine oscillavano con moto alterno per cui l’altezza di marea si attenuava fino ad annullarsi.
Nel medioevo, su quell’ampio tratto di spiaggia renosa, potrebbero essere emerse moltissime monete antiche conosciute come asse, dal latino as, che erano l’unità monetaria bronzea ed argentea degli antichi Romani, che si divideva in dodici once e corrispondeva in origine all’unità di peso, la libbra.
La porta che permetteva il transito sull’antemurale costruito dai Genovesi nel 1221, durante l’assedio che sottometterà Ventimiglia, era stata battezzata Porta delle Asse, perché apriva la via, che attraverso questa regione conduceva alla Bastida, case costruite, presso il Convento agostiniano, per accogliere quanti abbandonavano la città sullo Scoglio, a causa degli stenti procurati dall’assedio.
Nei secoli successivi, l’odiata porta non venne più usata, finendo vittima di un’inarrestabile decadimento, condiviso con tutto l’antemurale, tanto da venir riconosciuta come Portasse, parafrasi peggiorativa del suo nome originale.
L.M.
TOPONIMO
CANTARANA
Il Rio di Cantarana nasce in Ciaixe, proprio a Levante del Santuario di Madonna della Neve, ad una quota poco superiore ai 300 metri. Cala in senso N-O/S-E fino ai piedi della colla di Poggiae, per voltare decisamente, nel verso Ovest/Est, fino ai pressi di località inscia Madona, da dove riprende il primitivo andare, per versare le sue acque nella Nervia, sotto le falde Nord-ovest di Santa Croce, a Nord di Bigauda. È stato imbrigliato a Sud-Ovest della piazzetta delle Porte, dove passa sotto la strada provinciale, ben incanalato in senso Ovest-Est. Il Vallone di Cantarana è contenuto tra le alture di Monte Caria, metri 338, a Levante, e Monte Fontane, metri 475, a Ponente.
Nel linguaggio popolare Cantarana e diventato Cantaràina, portando alla mente il continuo gracidare, anche allegro, di piccoli anfibi; ma potrebbe trattarsi di una distrazione toponimica, giacché: ancora nell’Ottocento, “Cantarana” aveva il significato di oggetto o luogo che contenesse cose stipate, o pressate.
Nell’arredamento, Cantarana o Cantarano era dunque quel mobile che oggi chiamiamo “comòd”, parafrasando il francese commode, dove si stipano gli indumenti ripiegati.
Con trascorrere del tempo, il comòd e le rane ci hanno fatto dimenticare che la vallata del Rio di Ciaixe è assai stretta, profondamente incisa e contiene interessanti poderi in una maniera che potrebbe definirsi stipata.
I nostri avi, nel nominare i luoghi, erano più attenti ai valori geo-morfologici che alla poesia emessa dai gracidî.
L.M.
Precorsi d'un toponimo
S E R R E
La zona posta ai piedi del poggio che supporta l’attacco della mulattiera per Siestro e il Santuario delle Virtù, prima che fosse impostato il riempimento dovuto alla costruzione della sede ferroviaria, aveva come tomponimo “Serre” e non già il confuso e per noi diffuso “Serro”, stimato quale chiusura pietrosa al cammino, o dosso soleggiato.
Quasi alla fine dell’Ottocento, la zona Serre veniva occupata dalla Conceria Lorenzi, dalle pompe di sollevamento del Pubblico Acquedotto e dal passaggio a livello, nonché da quello che sarà il primo tronco di via San Secondo. Ancora all'inizio del Novecento, il Canale Lorenzi si chiamava "Rio delle Serre", come rileva la "Pianta della Città di Ventimiglia del 1915", conservata nell'Archivio di Stato.
In quel tempo, zona Serre perdeva le caratteristiche medievali che del toponimo saranno pur state la promozione: una serie di segherie, ricordate anche da Luigi Ricca, nel suo “Viaggio” del 1863.
Serre, dunque, come laboratori adatti al taglio dei tronchi in tavole e tavoloni; primariamente adatte a quella che dev‘esser stata una florida attività cantieristica medievale.
Tutto combina con le descrizioni storiche. La deviazione della corrente del Roia al disopra dei Gorretti, da Roverino verso i Paschei, avrebbe portato in zona Serre la forza motrice. Il successivo Canale Lorenzi potrebbe averne rilevato l’efficacia ed il tracciato, quasi ovvio, se si considera il naturale sbocco del Roia sito nei pressi dell’attuale Miramare.
La corrente della Roia, era il veicolo per il trasporto fluviale dei tronchi di larice, direttamente dai boschi del tendasco. Il luogo opportunamente rialzato, rispetto alla zona paludosa del Sottoconvento, era un sito efficace alla dislocazione delle segherie “industriali”, del tempo.
Nel nostro dialetto “serràcu” e “sèrra” sono i termini che indicano gli strumenti atti a “serracà”, tagliare il legno appunto. “Serre” come luogo di dislocazione di più d’una "sèrra".
L.M.
Luigi Ricca - VIAGGIO DA GENOVA A NIZZA
scritto da un ligure - Ricca - Firenze 1871 /Lions Club
- Sulle due opposte sponde s’ergono altri edifizi di seghe con Borre di pedali accatastati sulle rive del fiume. Questi legni pedagnuoli son qui trasportati dalle montagne dei Comuni di Tenda, Briga e Saorgio. Ed ecco come si fa il taglio ed il trasporto. Gli alberi stanno su erte cime o in profondi valloni, donde non vi è strada per condurli. Il bracciante recide la pianta, ne rimonda il pedale, i pedali si accatastano sulle rive nel letto del torrente che dappertutto è formato dagli scoli alpestri, e che secco il più del tempo, a volte diviene pieno e rigoglioso. Quando le piogge o il gelo l’abbiano rigonfiato, il torrente solleva que’ legni, e li trascina seco a valle, dove trovasi poi o un lago o un fiume più grosso, entro il quale sono raccolti. Ed è uno spettacolo veder migliaia e migliaia di ceppi d’alberi portati dal piano fiume, sotto la direzione d’una truppa di borrellai, che con rampi e forche li smuovono, li avviano, e li disuniscono, li spingono, li distrigano dagli scogli. Ma non pertanto tale condotta anticipata, veggono non di rado i fusti insieme dispersi per il mare, agitato dal vento e dal mareggio che v’inducono le furiose onde del fiume. Queste borre sì bene accatastate, il cadimento delle acque che danno il moto impresso alle macchine, il girar delle ruote, il tempestar dei magli, ed il continuo rumor delle seghe accordano il loro fragore a quello delle acque cadenti. Il rapido moto, la veduta dei lavori e dei lavoranti conferiscono al paese un aspetto brioso, allegro, vivace. -
NOTE DI TOPONOMASTICA
L A T T E
Dalle pendici Est della Longoira, il Rio Latte percorre un’erta vallicella, chiamata Valle del Ruassu, che lo porta dai mille metri della Fontana del Lupo agli ottanta metri, sulla base delle pendici Nord-Ovest della Cima di Gavi, sotto il borgo di Sant’Antonio. Da quel punto, il Rio volge deciso a Meridione percorrendo il Vallone di Latte, dal quale prende nome il territorio ed il borgo che un tempo era conosciuto anche come San Bartolomeo.
Dopo aver percorso la piana alluvionale, alla base delle pendici Est del Colle Belenda, il Rio Latte sfocia nel Mar Ligure, nel territorio di Sant’Anna.
Il Lamboglia riferisce sul toponimo: Làjte, frazione di Ventimiglia. - 1125 in valle de Layte (doc. in LATOUCHE) Not. Vint., 187); 1182 decimam quam habetis in Lacte (A.S.L., 480 = Doc. Ment., 11); 1260 usque ad fossatum Lactis (Rossi, Doc. Vent.,133); 1264 terram quam habeo in valle Lactis (CAIS, Cont. Vent., 133); 1303 ...cum erbatico territorii Penne et montium Lactis Ulmetque ... (Stab. Erb. Vent., I); 1523, 1618, 1655 Layte,Laite (et. v. A,B,E,F,G, passim); 1760 Laite (C.A.S.T.). Se direttamente da lajte < LACTE «latte» occorre pensare ad un senso metonimico di «bianco», riferito al torrente (cfr. un Fiumelatte in Lombardia, OLIVIERI, Top. lomb., 242). Altrimenti potrebbe essere il rifacimento etimologico di un primitivo latte, dalla voce latta «pertica», «palo di vite», diffusa in tutto il dominio provenzale e presente nel medio evo anche nella Liguria occidentale (ad es. negli Statuti di Ceriana: Rossi, Gloss, app. 42), dal germ. LATTA, REW, 4933, di identico significato. Numerosi altri esempi nella toponomastica della Provenza: cfr. les Lattes frazione di Sant’Albano (A.M.), les Lattes (com., Hérault) ecc., V. MISTRAL, II, 191.
Alla foce del Rio Latte, la chiesa di Sant’Anna, costruita nel 1328, si ergeva sul limite dell'ampia spiaggia, erosa dai prelievi per la costruzione della ferrovia dal 1870, fino al 1922, quando la chiesa veniva inghiottita dal mare.
Sant’Anna era di proprietà della Confraternita dei pastori di Tenda, i quali nei mesi invernali, usavano “transumare” le greggi al mare, lungo le draire dell'antica appendice alla via Domitia.
A partire dai Ciotti, per Calvo e Bevera, le alture di Ciaixe, con Sant’Andrea di Camporosso, fino alla Collasgarba; erano sede invernale di molte greggi, che vi trovavano pascolo, ancora nel 1980.
Nel Medioevo, in zona, la maggior parte delle pecore era ospitata nella Valle del Latte, che forse proprio per quello, almeno durante l’inverno, aveva trovato il suo nome.
L.M.
SVARIONI NELLE DENOMINAZIONI VIARIE
BORMANNI E METELLA
La Commissione per la Toponomastica che ha operato nel 1994, per uniformare la viaria cittadina e battezzare molte nuove strade ancora innominate, ha accreditato un titolo che non ha nulla di storicamente certificabile.
La strada in questione si dipana da Sant’Antonio a Calvo, e oggi si conclude con il nuovo ponte sul Bevera. È stata chiamata “Via Bosco dei Bormanni”, che è certamente una selva inesistente, sia per le attuali conoscenze che per il passato, come pure non è mai esistita la popolazione che l’avrebbe posseduta.
Nell’antichità, il “Bosco Bormano” era certamente una selva, un’impenetrabile foresta che dalle pendici Ovest di Montenero si estendeva, lambendo la costa, fino all’attuale Diano Marina, dove il toponimo è ancor oggi usato.
Tale bosco prendeva il nome da “Bormo” divinità celtoligure delle acque e delle foreste, oggi ancora vivace nel nome di luogo lombardo Bormio, sede di pregiate terme, o nell’idronimo ligure-piemontese Bormida.
Le Commissioni dovrebbero fare più attenzione nell’affibbiare certi nomi, per questi errori ne sfigura l’intera comunità. Ma i Commissari del ‘94 sono in degna compagnia con quelli della Commissione ottocentesca, quella che dette i nomi alle traverse del Cuventu.
Per far sfoggio di cultura storica romana, nominarono “Via Gneo Giulio Agricola” la traversa che da via Hanbury porta in via Cavour, sull’altro lato della scaletta di Via Zara; indi per la traversa a monte decretarono “Via Cecilia Metella”, forse pensando di far onore alla madre di Agricola, il governatore della Britannia, che abitò in Albintimilium.
Ma con Cecilia Metella si potrebbe nominare la famosa matrona romana, moglie del dittatore Silla, che con la storia romana locale avrebbe condiviso soltanto la vedovanza da Marco Emilio Scauro, il console che riabilitò la strada di costa, nell’anno 180 prima dell’Era Volgare, cui finora non è stato dedicato neppure un vicolo.
Probabilmente i commissari di allora volevano far onore alla moglie di Giulio Grecino, la matrona provenzale Giulia Procilla, trucidata dagli Otoniani nella sua villa di Latte; lei certamente madre di Agricola, così ben descritto dal genero Cornelio Tacito, nelle “Historie”. È sempre stato facile confondere i nomi delle matrone romane.
L.M.
Toponimo monegasco
Cradausina, nel vallone delle Gaumate
La nuova luce che il progetto “Via Julia Augusta” ha gettato sui siti attorno a La Turbia, ha riproposto l’interesse verso il boscoso rivo che dalle pendici del Col de la Guerre, ben rifornito dalla Fontvieille, raggiunge il mare nella rada di Monaco, quello che oggi è conosciuto come “u valun de Santa Devota”.
Fino ai primi decenni del Novecento quel rio era nominato “a Cradausina” ed un tale idronimo sarebbe foriero di elementi mitologici ben più antichi della agiografia di Santa Devota, fino a far apparire la cerimonia tradizionale del 27 gennaio, la derivazione d’un rito propiziatorio d’origine greca, legato alla necessità popolare del “capro espiatorio”.
La Cradausina deriverebbe il proprio nome dall’antico termine greco “kradé”, definente quel venerando ramo di fico che era dislocato in processione, durante le cerimonie espiatorie d’una comunità. Presso gli antichi Greci, quegli stessi che hanno fondato il primitivo Portus Hercules Monœci, tali solennità erano le “cradefòrie”, svolte anch’esse in ricordo di un furto, come per le reliquie di Santa Devota. In quel caso si trattava dell’asporto di vasi sacri perpetrato da Farmaco, dal cui nome sarebbero state chiamate «pharmakoi» le vittime espiatorie cerimoniali.
Il termine “gaumates”, a definire il tratto conclusivo dello scosceso vallone che oggi accoglie la chiesa di Santa Devota, deriverebbe dal provenzale “gaumate”, riferito al guado che avrebbe attraversato il vallone, in riva al mare d’allora. Si sarebbe trattato d’un guado percorribile grazie ad un corposo banco formato dai rizomi di posidonia, elevatisi a strati contigui dal fondo sabbioso della costa.
L.M.
Ipotesi per un toponimo
COLARDENTE
Con i suoi 1777 metri di altitudine, il monte di Collardente è l’ultima propaggine del crinale che dalla Collasgarba, presso Ventimiglia, attraverso gli Abegli, Testa d’Alpe, Pietravecchia e Cima Marta, si sublima nella quota 2200 del Monte Saccarello.
A Nord-Est del suo culmine, prima di inerpicarsi verso la cima che ospita il bronzeo Redentore; alla quota 1617, Colardente custodisce l’omonimo passo, che riceve i percorsi da Realdo, da Marta e da Briga, ed è costeggiato dalla più attuale strada militare, dai Grai verso il Garezzo.
Il lato Ovest del Colle è occupato dai lembi più alti dello scuro Bosco di Sanson, che si sviluppa oltre alla Cima della Male fino quasi in vetta al Saccarello. Il lato Est seguendo la natura del Saccarello medesimo è erto e roccioso nella parte alta, allargandosi alla base in pascoli piuttosto appesi.
Da quando, nel 1817, i funzionari del Catasto Sabaudo si dettero a tracciare le mappe degli allora recenti conseguimenti territoriali al Regno di Sardegna, il nostro monte iniziò a chiamarsi Collardente e, da allora, gli studiosi di toponimi hanno cercato una spiegazione che avesse come esortazione il fuoco.
Fuochi ricorrenti per fertilizzare i prati, ma questi sono assai diffusi anche su altri colli; fuochi rituali nell’antichità, ma se ne conoscono altri in luoghi giammai appellati al fuoco.
Il 27 aprile del 1794, al Passo di Collardente, le truppe piemontesi del conte Radicati ebbero la peggio durante un violentissimo scontro con la fanteria francese del generale Massena; toccò ai Brigaschi seppellire i morti; dunque in una estesa “camera ardente”, marcata da molti cippi segnalatori; perché no !
Non si era ancora pensato che ai topografi sabaudi, alla richiesta di come era conosciuta la località, gli abitanti del luogo, nel loro parlare da trioraschi o da brigaschi, possano aver risposto: “Cola ar Dente”, col significato di: Colla che conduce al Dente roccioso del Saccarello, ben stagliato nel suo lato Sud, visibile persino dalla costa.
L’appellare “Dente” il culmine di monti con la vetta particolarmente rocciosa e dirupa è toponimo abbastanza diffuso, nei dintorni delle Alpi Occidentali, a partire dal Bianco, fino al Monte Tre Denti delle Prealpi pinerolesi e giù verso i denti delle Valli Cunéesi.
L.M.
Toponomastica spicciola
GIANCHETE da CHIANTÀ
La dottoressa De Vincenti-Amalberti ha trovato il toponimo “Chianchette” in un documento cinquecentesco conservato all’Archivio di Stato, termine che può riferirsi alla località Gianchette, quella che oggi ospita anche il nostro cimitero e che ricorda le rovine ed i lutti per l’orrendo bombardamento del quarantatrè.
L’origine etimologica potrebbe derivare da “cianca” nel significato di “sorta di riparo con grosse travi e terra usato nell’antica fortificazione od in idraulica”, lo stesso che “palancola”.
É vero che il luogo, prima che venisse messo in opera il terrapieno sostenente il tracciato ottocentesco della Strada per il Piemonte, interagiva in totale sintonia col greto del fiume Roia, fino a far credere che il nome potesse definire una palificazione a sostegno degli orti, ricavati sui terreni alluvionali di braida. Potrebbe trattarsi persino delle opere per la deviazione praticata dai genovesi durante l’assedio del 1221.
La medesima simbiosi con le acque del fiume, specialmente del ramo in correntia, deviato all’altezza di Roverino onde ottenere il Lago portuale alle falde della città medievale, suggerirebbe il medesimo etimo nel significato di “tavola che serve da ponte volante tra un natante e la terra”, ponendo il sito in qualità di scalo fluviale, magari soltanto per un periodo limitato di tempo.
A pensarci bene, non sarebbe da disdegnare il significato per un insieme armonioso delle due accezioni riunite, onde dare il senso d’uno scalo d’estuario, fortificato, al servizio della polveriera ventimigliese, vincolo che la zona ha sopportato fino all’anno 1887.
La posizione del toponimo, che inizia a meridione dello spuntone roccioso, oggi sede del Camposanto, per concludersi presso gli attuali passaggi a livello, delimita per simbiosi l'ampiezza del Porto Canale medievale, il quale si sarebbe trovato ad occidente fino a metà dell'alveo. Tra l'attuale Camposanto e Ripa Santo Stefano era dunque sita la barriera di regolazione della corrente fluviale.
L.M.
Toponomastica spicciola
MARA , oggi MARRA
Sovrastante Isolabona, il territorio che da Veonixi occupa tutta la pendice est della Cima Olivastro, fino a Monte Armetta, dai 704 metri fin quasi alla riva destra del Torrente Nervia, sulle cartine militari è indicata con il toponimo MARRA, assegnatogli dai geografi sabaudi, forse fin dal lontano 1816.
Il toponimo dialettale, tramandato dal medioevo, è certamente MARA, termine che ai cartografi del Regno di Sardegna ha suggerito poco o nulla, tanto che hanno deciso di raddoppiare la erre per dare al territorio il nome della “estremità triangolare dei bracci dell’ancora”, esemplare per la forma che detto territorio ispira, visto disegnato su una carta geografica.
Chiuso tra i dirupi corsi del Nervia ed del Rio Barbaira, alla confluenza di questo, trova il vertice del braccio dell’ancora, mentre la forma di “marra” gli viene data dal corso del Rio Marcora, a Levante e dal Rio Oggia a Ponente, confluenti dal Monte Altomoro.
Analizzando invece gli antichi significati di “mara”, oggi siamo in grado di assegnare a detto territorio il significato di “mucchio di pietre”, secondo l’accezione dell’antica glossa mediterranea.
Il mucchio di pietre non deve essere inteso quale definizione di territorio aspro e sassoso, ma considerando la ricchezza di cappelle medievali, a rendere nobile il luogo, il termine dovrebbe aver segnalato nel tempo una specie di importante “dolmen” precristiano.
Inoltre, tra le glosse derivanti dalla ancor poco conosciuta parlata degli antichi Intemeli, il termine “mara” assumerebbe il significato di “luogo ricco d’acque di superficie” che ben si associa al nostro sito. Esempi di “mara” con questo uso lo troviamo nella splendida vallata del Maro, nel retroterra imperiese.
L.M.