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Brani da un prezioso libretto rigenerato nel 1972 dal

LIONS CLUB VENTIMIGLIA - IMPERIA

 

DA  COLDIRODI

A  MENTONE

NEL  1865

    Questa passeggiata attraverso la Liguria occidentale, scritta da un frate, Luigi Ricca, di Civezza, dell’Ordine dei Minori Osservanti, citato come emerito autore di una storia ligure, che la sua umiltà francescana ha resa anonima, è un incontro con questa terra, con la sua gente, con i suoi paesi.

    Questa operetta ignorata perché in poche copie, e quelle rimaste in mano di parenti andarono fatalmente a finire al macero, voleva una ristampa che il Lions Club, con indovinata iniziativa, ha ridato ai curiosi di storia nostra.

    Liguria di ponente che un autore tedesco definiva la più bella striscia di terra lungo il mare, con suoi angoli romantici e pittoreschi che il Ricca annota, fra questa gente fiera e pia, in mezzo ai suoi olivi, ruvidi, attorti, travagliati ulivi, nelle sue tradizioni.

    Il dotto frate scriveva: «non v’ha meschino villaggio ove l’architettura non vanti qualche insigne edifizio, non rusticana Chiesa in cui non apparisca qualche notevole lavoro di pittura o di scultura» egli amava questa sua terra rocciosa e avara ove dal macigno sboccia il rosaio, ma soprattutto questo ulivo

che s’innalza fra le rocce. attorcigliato ulivo dall’odore amaro, che alla sua ombra più mite è l’inverno, che il suo dorato olio è medicina ed alimento; dalle sue rive tormentate dal mare ; qui rifioriscono i limoni, gli aranci.

    Con la sua semplicità francescana, con la sua anima d’antico ligure egli si congeda «Io vi ho descritto questa riviera occidentale come un piccolo mondo in miniatura favorito dalla natura, con i suoi monti tagliati in forma di terrazzo, sistemati da muri a secco, ove il fico, il pesco, il mandorlo abbelliscono questi pensili orti, e la vite vi stende le sue allegre ghirlande e l’ulivo si inchina sotto il peso delle pingui sue frutta».

    Il riapparire di questa operetta rarissima è una sorpresa, questa passeggiata d’un tempo lontano è come una rivelazione di cose ignorate, confidenziali, che acuiscono la nostra curiosità arricchendo la nostra cultura locale.

 Leonardo Lagorio

        Imperia, dicembre 1972.

 

La Colla di Sanremo - Ospedaletti - La Madonna della Ruota - La pesca del Corallo - La Baia -
          
Acque termali - Bordighera - Un antico Cenobio de’ Benedettini - Sant’Ampeglio.

 LETTERA XI

«Io vidi già nel cominciar del giorno
 La parte oriental tutta rosata,
 E l’altro ciel di bei sereno adorno;
 E la faccia del sol nascere ombrata,
 Si che, per temperanza di vapori,

L’occhio lo sostenea lunga fiata».


Tale appunto sorgea il mattino, quand’io lasciava il delizioso territorio di Sanremo e m’incamminava alla volta del piccolo villaggio Ospedaletti. Sul dosso del promontorio che divide le due terre sorge la Colla, detta di Sanremo, borgo di 1800 abitanti. Possiede bellissime campagne folte di rigogliosi alberi d’ulivo, e rallegrate, segnatamente nelle vallicelle, di sempre vivi limoni ed aranci. In mezzo all’arco che presenta il lido, giace Ospedaletti, piccola borgata rivolta al giocondo favonio.
        L’etimologia che ne danno gli antichi deriva da un piccolo ospedale, cioè dallo sbarco fi’ alquanti marinai infetti di contagiosa lue, ivi assestati in baracche come meglio poterono. In una chiesuola, tra gli Ospedaletti e la Colla, dedicata a san Pietro, giacciono in una convenevol tomba le ceneri di Monsignor Stefano Rossi, oriundo della Colla. Questo distinto personaggio, nato sul principio del corrente secolo, rese di pubblico diritto orazioni sacre e profane, sostenne nello Stato Pontificio onoratissimi impieghi di Delegato Apostolico in Civitavecchia, Ancona, e Ravenna, e Consultore anche al ministero delle Finanze.

 

Continuando la via incontrasi a poca distanza una chiesa campestre sotto il titolo della Madonna della Ruota con all’intorno poche casupole. Il mare sottoposto forma una baia deliziosa e sicura. All’Est è riparata da tre suoi capi, all’Ovest dal promontorio della Bordighera; e mentre il mare al di fuori è tumultuoso, ella è in piena calma e tranquillità.
         Il promontorio ch’entro acqua s’avanza lungo il mare, è pescoso di corallo, ed alcuni industriali Bordighesi col danaro che ricavano da codesta pesca recano sollievo alle loro famiglie. I coralli, dice Deluc, sono opera e casa dei polipi che in proporzione del lavoro gradatamente sgombrano le prime dimore sulle quali continuano a fabbricare; e nei climi caldi i polipi sono continuamente lavoratori, ne cessano di moltiplicare e di costruire; donde ne segue che in poco tempo aumentano sensibilmente il cumulo delle loro dimore cui la decrepitezza non dissolve, perché della stessa natura del coccio e della conchiglia.
1
        A tergo della baia giganteggia Montenero. In cima è arido e tristo, ed alle falde coperto di fitti abeti; dal cupo colore del suolo ricevette il nome. È opinione e ben radicata che nei più remoti tempi sotto quegli scaglioni inferrigni ardesse, nelle ime latebre d’una bolgia profonda, un fuoco incessante, travagliandone le viscere, ed in quella agitazione ne sprigionasse elementi, i quali rapiti dalle acque trascorrenti per le interne vene delle rupi accolte ne’ cupi ricettacoli, sfogassero per tortuosi meati e sporgessero nel mare. Una fontana infatti di queste acque solforose trovasi ancora a pie di questo monte, e scaturisce in ristretto terreno.

 

1) Della pesca del Corallo il Bertolotti fa la seguente descrizione: «Il battello ha un ordigno fatto di due panconi lungo 4 o 6 metri ciascuno, inchiodati un sull’altro a forma di croce. I bracci della croce sono armati alle quattro loro estremità d’un ferro grande uncinato. Sotto gli uncini s’apre una borsa di tela, e sopra all’intorno gira una rete di cordicella. Una grossa fune regge questo ordigno nel centro. Il navicellaio cala la macchina ove crede abbondante il corallo; l’esperienza gli è guida e maestra. Come l’ordigno ha preso il fondo, egli attacca la fune al battello e senza troppo scostarsi dal posto si aggira vagando qua e là per ogni verso, acciocché gli uncini recidano e schiantino i coralli aderenti allo scoglio. La borsa riceve i viventi rami cosi divelti; e la rete allargando i lembi per l’acqua, raccoglie gli altri non caduti dentro la borsa. Quindi il pescatore ritira a sé la macchina, e si consola al vedere la ricca preda, o s’attrista trovando le sue speranze ite a male».

 

«Dalle Naiadi amato, ombroso seggio,»
 posto quasi a fior della baia,
                       «Dove rotte dal vento piangon le onde».

 

Il luogo è piantato d’alquante palme e limoni, donde si può congetturare che le sotterranee ignivome materie non siano ancora estinte, ed in conseguenza probabile è l’opinione del popolo basata sui segni tuttora esistenti del quasi estinto cratere.
        Le mediche doti di quest’acqua sono state riconosciute contro il gozzo, e le malattie erpetiche e scabbiose. La sua analisi chimica fu fatta dal Mojon e dal Canobio. Sarebbe perciò desiderabile che in questo amenissimo luogo, ombreggiato da palme ed aranci, e deliziato dalle pacifiche onde del mare, sorgesse qualche speculatore ad edificarvi un nobile edifizio con camere e sale, e ridotti, e stanzini, e riposi al tutto forniti di eleganti e preziosi arredi per conforto degli accorrenti.
        Un terrazzano che lavorava in quel dintorno m’accertò aver veduto un signore affetto da una malattia erpetica e scabbiosa, il quale si recava in primavera ad attingerne due bicchieri ogni giorno, e li beveva regolarmente sul luogo stesso. In capo a due mesi si sentì alleviare e poscia risanarsi. Visto il portento fece voti per una grande escavazione all’intorno della fonte, onde isolarla intieramente dai rivi d’acqua dolce che vi potessero penetrare. Il risultato di tale operazione produrrebbe due importantissimi vantaggi; l’uno che l’acqua minerale scaturirebbe purissima dalla roccia con tal forza medicinale da superare altre fonti di questo genere, l’altro d’ottener un getto d’acqua quattro volte superiore a quello antecedente, in modo che l’albergo potrebbe esser provveduto da questa fonte d’acqua sufficiente per lo stabilimento dei bagni, ed esser di soddisfazione con una bella magione a chi viene ad usare di queste acque. Ma di ciò finora nessuna determinazione.

 

Bordighera torreggia da un lieve rialto sull’estremità del promontorio che si prolunga al mare e serra l’orizzonte; si spande al lido, ed ha l’ambizione di comparire in lunga distanza maggiore di sé stessa. Il luogo è cinto di mura con 1800 abitanti. Nel 1746 a dì 29 settembre, quando Gallo-ispani ed Austro-sardi occupavano la riviera, stanziò ivi per tredici giorni Carlo Emanuele, re di Sardegna, e suo figlio Vittorio Amedeo, e l’anno antecedente Don Filippo infante di Spagna e fratello di Ferdinando monarca delle Spagne.
         Nel fabbricato nulla v’è da notare; grandeggia però nel centro la Chiesa parrocchiale, eretta sulle ruine dell’antica nel 1610. Posta in luogo spazioso fa bella mostra di sé ed invita i passeggeri a visitarla. I capitelli sono stuccati in oro. Sull’altar maggiore è locata la statua marmorea di santa Maria Maddalena. È ricca di molti arredi d’oro, d’argento ed altre preziosissime suppellettili, delle quali si fa uso nelle maggiori solennità. Il parroco gode del titolo di Abate e provicario foraneo. Una bella fontana d’acqua perenne che sgorga sulla piazza rallegra gli abitanti.
        La strada nazionale solca la riva del mare fiancheggiata da case di negozianti opulenti, ed altri edifizi signorili con qualche giardino di lusso ed un leggiadro albergo. Le colline all’intorno sono coperte d’ulivi, palmizi ed aranci, e le stesse arene del mare, dovunque le acque lentamente si ritirano, sono trasformate in orti feraci. Ciascun di questi orti è provveduto d’un pozzo, dal quale con una specie d’altalena l’ortolano trae l’acqua e la distribuisce alle piante.
      L’indefesso lavoro e l’abbondante concime, e l’ubertosità del terreno, e la squisitezza dei prodotti primaticci premiano le cure della diligente coltivazione. Il viaggiatore che per la prima volta vede questo territorio imboschito di palme si crede trasportato nell’Africa al verdeggiante e piramidale aspetto di questa pianta sì rara in Europa.
       Dall’altura del paese in un piccolo spazio, detto Cavo, c’è una veduta veramente meravigliosa. A mezzodì in gran largura il mare, all’intorno ogni gradazione di piante verdeggianti, l’ulivo di pallido grigio, il cipresso di scure foglie, e ceppi di palmizi ch’elevano le loro lunghe frecce, sormontate da lor pennacchi sempre mobili. A ponente l’orizzonte s’ingrandisce, ed appare chiaramente Ventimiglia coi suoi fortilizi. Mentone sulla spiaggia, ed il Capo Martino con le apparenze di Monaco, il monumento dei Romani sul colle della Turbia, il bianco faro di Villafranca, come un punto biancheggiante sopra l’azzurro ed il verde, ed infine, radendo il mare, la fantastica ed azzurra linea dei monti della Provenza.

 

Sotto la strada corriera sorge una chiesuola, ov’è costante tradizione che in una grotta ‘entro lo scoglio bagnato dal mare, abbia abitato sant’Ampeglio. Questo Monaco straniero venuto nel 411 dagli eremi della Tebaide nella Liguria, ivi sbarcò e formossi il suo tugurio, visse molti anni nell’esercizio di continue orazioni, vigilie, penitenze, digiuni ed altre asprezze per l’acquisto delle virtù più eroiche, e morto, il suo cadavere fu divotamente sepolto nel luogo ov’è stata eretta la Chiesa dedicata a suo onore.
        Contiguo alla Chiesa esisteva un Monastero di Monaci Benedettini col titolo di Priorato, dipendente dal celebre Monastero di sant’Onorato nell’isola di Lerino, che credesi circa il 900. I sepolcri entro ai quali trovaronsi i cadaveri di Monaci, uno dei quali aveva ancora la barba e i capelli, ed un altro quasi intiero, ne confermano l’esistenza. Sant’Ampeglio morì intorno al 428. Nel 1248 il suo corpo fu trasportato a Genova nella chiesa di santo Stefano, e nel 1627 riconosciuto nelle debite forme.

 

La spiaggia della Bordighera è la più pescosa di tutta la riviera, provvede i paesi circonvicini, ed in specie Sanremo, Ventimiglia e Mentone.
         Nel 1844 a dì 10 novembre, il mare tempestoso gettò su questo lido il cadavere d’una enorme balena. Il magnanimo re Carlo Alberto diede tosto ordine che almeno lo scheletro di questo singolare animale fosse conservato alla scienza, facendone dono al Museo zoologico dell’Università di Torino. Le dimensioni dello scheletro, la cui lunghezza misura diciotto metri, e la perfezione del lavoro eseguito dal professore Giuseppe Cantù, disegnatore e modellatore del regio Gabinetto Anatomico, lo rendono senza contrasto il più bello che si possa vedere nei musei d’Europa. La specie cui esso appartiene è quella del grande Rorqual del Nord (Balena Musculus).
         Oriundi di questo borgo sono i due generali Novaro e Biamonti che pugnarono da valorosi nei campi di battaglia, i cui nomi uscirono belli di fama nelle campagne rapidissime d’Italia e nelle vittorie di Palestro, Magenta, San Martino e Solferino.

 

Seborca - Perinaldo - Soldano - San Biagio - Sasso - Vallebona - Vallecrosia  - Rocchetta - Apricale -
         Pigna - Isolabona - Acque termali di Pigna
- Dolceacqua - Camporosso - San Rocco.

 

LETTERA XII
 
        Dalla Bordighera a Ventimiglia, la strada senza più montare e calare trascorre quasi per fìlo per cinque miglia, ed attraversa una spaziosa e feracissima pianura, tutta sparsa di ville. Nell’uscire dal paese un contadino m’indicò una lapide marmorea, incastrata sull’ingresso d’un palazzo che rammemora il passaggio e la sosta che vi fece il sommo Pontefice Pio VII.
         Sulle alture apparisce Seborca che fu in origine Feudo libero di sant’Onorato. In quella epoca i Monaci vi coniarono monete, delle quali ne esistono ancora negli scrigni degli antiquari. A poca distanza, su d’un alto monte, ove i colli anteriori abbassandosi concedono d’addentrarsi allo sguardo, spicca ne’ colli interni attorniato da due colline Perinaldo, insignito di tal nome da un Principe Rinaldo italiano, discendente dai conti di Ventimiglia. Il luogo contiene 1800 abitanti. Da quella eminenza si gode una vista deliziosa; aria pura ma nel verno freddissima. Il suo fabbricato è poco pregevole, ma il paesetto è assai rinomato per aver prodotto due famiglie d’astronomi celebri, i Cassini ed i Maraldi.
          Gian Domenico Cassini, forse il maggiore di quanti si rivolsero ad esaminare il ciclo, nacque nel 1625, insegnò l’astronomia in Bologna. Alessandro VII lo chiamò a Roma e l’incaricò dell’intendenza delle acque dello Stato Pontificio. Nel 1661 venne chiesto da Luigi XIV a Papa Clemente IX, e l’ottenne e ricevé nella medesima onorevol maniera con cui Giulio Cesare chiamò e ricevé, venuto dall’Egitto a Roma, Sosigene, altro astronomo famoso.
         Scrisse vari trattati, scoperse quattro satelliti di Saturno, e la scoperta fa degna d’esser immortalata d’una medaglia colla leggenda: Saturni satellites primum cogniti. Prima di morire egli divenne cieco, come già il gran Galileo. Questi due grandi uomini, che tante scoperte fecero in cielo, paragonare si possono a Tiresia, che secondo la favola, divenne cieco per aver veduto gli Dei. Giunse la sua età sino a 88 anni; onde gli si può applicare ciò che degli antichi patriarchi disse Giuseppe, che Iddio gli aveva accordata una lunga vita, così per ricompensare le virtù, come per dargli il modo di perfezionare la geometria e l’astrologia.
        Giacomo Cassini, erede de’ suoi talenti, successe al genitore all’Accademia delle scienze in Parigi Morì nel 1756 d’anni 84 lasciando opere stimate. Maraldi Giacomo Filippo, nato nel 1665 da Francesco e Caterina sorella del gran Domenico, fu dotto Matematico, e celebre Astronomo dell’Accademia delle scienze di Parigi. Suo zio lo chiamò in Francia nel 1678, ove si acquistò una grande riputazione col suo sapere, e colle sue osservazioni. Fece un catalogo delle stelle fisse, più preciso e più esatto di quello di Bayer; e pubblicò un gran numero di osservazioni curiose ed interessanti nelle memorie dell’Accademia. Clemente XI approfittò de’ suoi lumi per correggere il Calendario: cessò di vivere nel 1729 d’anni 64.
         Di Perinaldo è ancora l’insigne geografo Borgonio, che nel 1686 pubblicò per le stampe la gran carta corografica dei dominj sardi, tenuta per molti anni la migliore de’ regi stati di terra ferma: ed altri uomini egregi che con saviezza ed equità amministrarono onorifiche magistrature nella giurisprudenza, nella milizia, nella religione, quali sono il generale Jacopo Maraldi, il Senatore Innocenzo Cassini, e il P. Francesco Cassini, Francescano, autore di pregiatissime opere.

 

Soldano è posto alla falda della montagna, e sul declivio si stende San Biagio. In quest’ultimo paesetto nacque nel 1772 Luigi Biamonti, uomo eruditissimo, professore di belle lettere nell’Università di Torino. Ne’ versi ritenne la frondosa facilità del canto estemporaneo, a cui applicavasi nella giovinezza. Fu autore di due tragedie: Ifigenia in Tauride, e Sofonisba, di eruditissime lettere di Panfilo a Polifilo. Scrisse un trattato sull’arte oratoria, bellissimi versi sciolti, intitolati: Addio a Boboli, una canzone sopra un busto di Saffo, tutta spirante venustà; fece le versioni delle olimpiche di Pindaro, della poetica di Aristotele, e del libro di Giobbe.
       Di non mediocre dottrina fu anche il fratello di lui Biamonti Don Francesco, che diede alla luce due grossi volumi di prediche e sacre meditazioni, ed il P. Vitaliano Macario, distinto Scolopio.
        Nella stessa valle v’è ancora Sasso, Vallebona, e Vallecrosia; quest’ultimo si bagna nel fossato omonimo della valle. Da questo al mare e è una strada carreggiabile che mette tutta la valle in comunicazione con Bordighera e Ventimiglia.
         La terra è coperta di aranci, d’ulivi e di viti; qui cresce l’àloe, la palma ed il granato; il fossato è tappezzato di leandri (lauri rosa); il dorso delle colline non coltivate è gremito di pini d’Italia, piccoli biancoverdi, che gareggiano di odore col ginepro, col rosmarino e colla ruta, che si ergono su alti fra i lentischi e le rose selvatiche.

 

 

 

 

Verso ponente s’apre altra valle, ove scorre la fiumara Nervia, la cui origine è dodici miglia più in alto dal piede del monte Toraggio, attraversa una valle ferace d’ulivi che forma il Marchesato di Dolceacqua, il quale comprende Pigna e la Rocchetta, villa popolosa, lambisce saltante il feudale castello dei marchesi Doria, e discende a Camporosso.
       Apricale, così detto perché aperto al meriggio del sole, è posto nella stessa valle, ed ha una popolazione di 1600 anime; fu in vetusti tempi munito d’una fortezza, già appartenente ai Doria, ora però ridotta a semplice abitazione.
      Sottostante Apricale trovasi Isolabona con 860 abitanti, distante tre quarti d’ora da Dolceacqua, del cui marchesato era una porzione. Possedeva un castello di cui scorgonsi ancora i ruderi. Al Cantéllo che dista pochi minuti dal luogo, rampolla una fontana solforosa, trovata, scrive l’Onetti, assai vantaggiosa nei mali cutanei, negli ingorghi viscerali dal celebre Fodaré e da altri chiarissimi medici.
        L’avv. Navario, nonagenario, versato nella storia della valle Nervina, accertava il dotto Fodarè che Isolabona sua patria aveva guadagnato da 30 anni due ore di sole al giorno per 1’abbassamento della montagna detta Carme, la quale giace al Sud di quel villaggio: la sommità infatti dì quella montagna, altre volte coperta di boschi, presentemente è nuda ed affatto degradata.
         Sull’alta Nervia fra tre colline ed alla destra della fiumara siede Pigna con 3240 abitanti, patria dell’insigne Don Carlo Fea illustre archeologo, che fa mostra pomposa nella capitale del mondo cattolico. Anticamente aveva il suo castello, piantato, dicono, dai Goti e recinto di mura, ma al presente non havvene che un tenuissimo rimasuglio, ove ancora scorgonsi alcuni torrioni che gli erano di difesa. Nella chiesa parrocchiale, sacra all’Arcangelo san Michele, fa bella comparsa una tavola con fondo d’oro a più scompartimenti.
       I Borghesi lodano a cielo la virtù delle acque medicinali che scaturiscono a poca distanza dall’abitato. L’Onetti che si recò sul luogo dice che la fonte sgorga impetuosa da una rupe di schisto calcareo nericcio, e che in un minuto da circa 100 litri. La sua virtù medicinale è di promuovere le deiezioni alvine e le orine, d’agire elettivamente sul sistema cutaneo e glandulare, è riconosciuta da medici espertissimi profittevole nelle affezioni cutanee, scabbiose, erpetiche, nelle glandulari e linfatiche, negli infarcimenti dei visceri addominali ec.
        Ma hanno il lor fato anche le fonti medicinali. Le acque termali di Pigna poste altrove sarebbero cinte di stupendi edifizi, e trarrebbero a centinaia i bagnanti; sepolte nel centro di tre colline, non sono usate che dai natii. I medici stranieri, tranne il dottissimo Abbene di Torino che ne scrisse l’analisi chimica, ne ignorano persino il nome. Sarebbe ormai desiderabile per il bene dell’umanità che tale sorgente chiamasse a sé l’attenzione dei medici, e si utilizzasse a stabilimento balneario.

 

Dolceacqua è posto fra mezzo a Isolabona e Camporosso, contiene 1200 abitanti. Possiede un antica terra de’ Doria, dei quali verso il XIII secolo cadde in potere, e pretendesi che sia di romana origine; nel 1524 pervenne alla Casa di Savoia. Il territorio da olio sopraffino, vini eccellenti, frutta e cereali.
        Scendendo verso il mare ove la vasta valle s’allarga s’erge Camporosso, terra di 1660 abitanti. Esiste nella Chiesa parrocchiale una tavola con più compartimenti, messa in oro, ha la data del 1436, ma in gran parte fu ridipinta. Nella sagrestia sono due altre buone tavole con una quarta nella chiesa del cimitero; tutte opere del XV secolo.
       Alla foce della fiumara sulla riva sinistra sorge una Cappella dedicata a san Rocco. In una lapide che fa parte delle sue mura apparisca questa romana iscrizione:


 Appolin
        V. S.
 M. C. Anton


         Forse qui Marco Caio Antonino scioglieva i voti ad Apolline in un tempietto che ivi sorgeva.
       I popoli della valle nervina finalmente s’avvidero dell’opportunità d’una strada rotabile che li mettesse in comunicazione colla nazionale. Questa strada che da più d’un anno si va costruendo, fa sperare, tosto che sarà condotta a fine, il miglioramento delle sorti di tutti i paesi dell’estesa valle.

 

 

Avanzi dell’antica città Nervina - Nuovo stabilimento balneario -
             
Chiesuola sacra a san Secondo - Il nuovo Ponte.

LETTERA XIII
 
         Alla foce della Nervia e sulla riva destra volli visitare alcuni avanzi che ancora esistono della magnificenza romana. Un contadino, che lavorava in un podere appartenente alla mensa vescovile, mi narrò che nel 1852 era stato scoperto in quel luogo un mosaico di elegante disegno, riferito nel Bollettino delle Scienze. Era questo composto di lapilli a liste, ed arabeschi in diversi colori, con effigiatevi al vivo in altrettanti busti le quattro stagioni. Poco dopo ed in vicinanza di questo essersi rinvenuto altro mosaico rappresentante la favola di Arione portato sul dorso di un delfino in mezzo alle onde, gremite di piccoli pesci.
         Da questi avanzi d’antichità e da alcuni ruderi che si trovano sparsi qua e là, e rottami di volta interrati, ed ancora da un grandioso muro presso la strada corriera, monumento meno distrutto, pare cosa certa che qui sorgesse l’antica città Nervina, che il nome traeva dalla vicina fiumara, e seppellita restasse sotto i ciottoli e la ghiaia allora quando il Roia e il Nervia cresciuti sopra misura ruppero all’improvviso i terreni e gli argini naturali che li trattenevano. Città che dovea esser cospicua al tempo che i signori del mondo ornavano di templi e di maestosi edifizi questa deliziosa parte.
 Ahi sventura crudel ! di Nervia il suolo
 Di sua possanza i resti appena or serba,
 Giace deserto, abbandonalo e solo,
 E asconde i suoi trofei la terra e l’erba;
 E uu sentimento di lerror, di duolo,
 Ti assai, mirando la città superba
 Conversa in polve, e a meditar l’invita
 Che è solo vanità la umana vita.
         Nel girar attorno a quelle ruine mi fu additato un sotterraneo con alcuni avanzi d’antiche mura, ove ora grandeggiano superbi ulivi; la traccia della via romana, e persin, come alcuni pretendono, il luogo ove torreggiava il palazzo di Giulia moglie di Agricola che ivi aveva un suo podere.
 Città infelice, queste mura e questi
 I monumenti son di tua possanza,
 Onde orgogliosa un di la fronte ergesti ?
 Qual sentimento di dolor non desti
 Ora che fatta sei di belve stanza!
 Quali non svegli mai pensier funesti,
 Or che di vita è morte ogni speranza !
 Ahi destino crudeli morte superba
 Città fiorente e vasti regni e imperi
 A questa trista condizioni riserba.
 Città infelice, il suo terribil fine
 Chi intende a fama eterna i suoi pensieri,
 Ravvisi e legga sulle sue ruine.
             Ma ormai sarebbe desiderabile che in questo circuito e sotto la, direzione di qualche distinto ingegnere si facessero degli scavi ben regolati, tendenti a rintracciare le vestigio dell’antica città affin d’appurare la verità della storia.

 

 

Sulle sue ruine ora sorge nella più bella posizione ed a fianco della strada nazionale un bello stabilimento balneario di tutta eleganza, che piace all’occhio del passeggero. Entrai in questa nuova casa dei bagni, ed osservai che l’ordine, la decenza e la mondezza si manifestano per ogni lato. Le acque sono termali, solforose, ferruginose e salse; si possono usare in bevanda ed in bagno. Valgone a domare molti morbi cronici, affezioni del sistema nervoso, a correggere i disordini degli organi digestivi, e vincere ogni specie d’erpete. Sonvi bagni a docce, a vapore ed a pioggia.
         Il padrone di questa nuova casa (conte Mouchi) attende di continuo ad immegliare e rimbellirne con lusso ogni parte. In una galleria sotterranea scorrono le acque calde; il vapore che si disprigiona è portato nelle sale superiori da vari canaletti artificiosamente distribuiti, rassomiglianti a canne d’organo. L’edifizio è composto d’un salone da ballo, d’un salotto da gioco, d’un altro salone per il bigliardo, d’un gabinetto di lettura, e di due bei panorama, il tutto con affreschi analoghi alla casa balnearia. Condotta che sarà a fine e perfezionata, la gentile compagnia che ai spera numerosa, fa desiderare che il ballo, il gioco, la musica e la lettura formerà del casino Mouchi un luogo di piacevolissimo trattenimento ai bagnanti.
        Al Nord dello stabilimento torreggia la balza montagnosa detta di s. Cristoforo che signoreggia la pianura, ove appariscono fortificazioni in ruina con spesse muraglie, ovvero vestigi d’una fortezza. Questi lavori, sacondo un recente autore, sono opera dei Genovesi, quando nel 1221 sotto la condotta del loro Podestà Lotteringo da Martinengo si accinsero a sottomettere Ventimiglia.
         Appiè della montagna nel basso ove scorre un ruscello s’erge una chiesuola edificata dalla nobile famiglia, Porro, ed attesta la credenza che fosse ivi decollato san Secondo, luogotenente generale della sacra Legion Tebea, d’ordine dell’imperatore Massimiliano, accompagnato, come si legge, da san Maurizio in Ventimiglia, ove risedeva Procuratore, o Governatore, o Intendente Agrestio. Il luogo dista mezzo chilometro dalla città.
           Un nuovo ponte in pietra, innalzato con tutte le norme della scienza e con tutti gli argomenti dell’arte, il quale ormai è alla fine, congiunge il sobborgo colla città. Questo nuovo tronco entra nella città e ne esce verso il mare, ove va ad unirsi all’attuale strada detta la cornice, attigua alla Ridotta dell’Annunziata, con una pendenza del 5 per 100 circa. Il perforamento però del gran muro di cinta non porta alcun danno alla difesa della piazza. Sicché ora è finalmente tolto un tratto di strade assai incomodo e faticoso colla costituzione d’un altro assai più facile e sicuro.
          Dal lato orientale del fiume cioè dal grande e nuovo albergo è già delineata altra strada rotabile, che fra non molto si collegherà colla corriera di Breglio per il Piemonte, e fra breve si darà opera ad altro nuovo ponte in ghisa per la strada ferrata, e l’acqua è paziente.

 

Ventimiglia

LETTERA XIV
 
           Ventimiglia s’aderge alla falda d’una collina a piedi delle Alpi marittime lungo il fiume Roia. Questa città, le cui origini sono involti nelle tenebre dell’antichità, è appellata dai buoni scrittori del Lazio Albium Intemelium; e nei secoli barbari era detta anche Ilbimelium, Intimilium, Intiminium. Il nome di Albium Intemelium significa che gli Intemelii, popolo ligure, erano compresi nelle Alpi.
          Ventimiglia al tempo di Strabone era detta città grande e Capitale dei Liguri Intemelii, ricca e di nobili e possenti famiglie popolata, e si discernono ancora in alcuni luoghi i preziosi avanzi delle grandiose abitazioni, e capi d’opera che le abbellivano.
         La sua potenza tenne testa al valore dei Romani, e sebben doma durava ancora ai tempi di Cicerone. Il suo Municipio era ascritto alla tribù Faleriana; aveva un forte presidio militare, era sede d’un Prefetto e d’un Flamine. Ma le guerre dell’impero, le invasioni dei Barbari, ed in ispecie sotto il Longobardo Rotari il ferro ed il fuoco ridussero l’ampia città a miseranda condizione. Più fiate venne assalita dalle orde de’ Saraceni annidati in quell’epoca nel Frassineto vicino.
        All’epoca de’ Comuni poche case occupavano il promontorio su cui oggidì è ristretta, la città. Per la condizione del secolo IX e X in cui era in fiore il feudalismo, e la strade messe a prezzo da que’ prepotenti Signori, la città n’ebbe molto a soffrire e sostenere lotte accanite contro i suoi Conti.
1 Costretti più volte di venire a patti con essa e contro Genova prepotente, che finalmente la sottomise. La sua caduta (1222) fu da forte guerriera, ma presto levossi a, nuova sfida ed a nuovi cimenti. Più volte stretta d’assedio e soggiogata e posta a saccheggio, risorgeva sempre più fiera ; se non che col lungo volger degli anni, spossata di forze, quasi eroe vicino a morire, s’abbandonò al volere della superba, che in varie riprese s’impossessò del meglio che possedeva. 2

 

Direi qualche cosa di più: ma l’argomento è pieno d’intoppi e di spine, sì per le tenebre del medio evo, sì per la discordanza degli storici quasi tutti mossi da opposte passioni. Laonde siate contento a queste che in fretta ho compendiate da autori i più veritieri.
           Nel 1797 a dì 20 marzo, Bonaparte vi pose il suo quartiere generale quando assunse il comando dell’esercito d’Italia. In quel tempo la città rimase quasi deserta, non più commercio, non più lettere. Salito al trono, continuò essa nel suo tristo torpore, e sminuita d’una gran parte della sua diocesi, salutò caramente l’alba del nuovo dì, che per la terza volta poteva inalberare il vessillo Sabaudo. Con quel giorno segnava un’era novella.
           Al presente la città offre ben pochi oggetti agli archeologi. La cattedrale a tré navate che credesi innalzata sulle ruine d’un tempio dedicato a Giunone l’anno 176 innanzi l’èra volgare da un Emilio, è architettura del medio evo. Però una lapide di pietra bianca calcarea che serviva di scaglione alla porta maggiore, e di recente tolta ed incastrata nel muro, entrando, alla destra, racchiude in sé sola interessanti memorie, che ricordano come qui sull’amena pendice da cui maestosa stendeasi di là del Roia alle rive della Nervia l’antico Intemelio, sorgesse un tempio sacro alla Regina degli Iddii de’ Gentili, come risulta dalla seguente iscrizione illustrata dal Can. Cavalier Cassini:


 Iunoni Reginae Sacr
 Oh honorem memoriamque Verginee P. Fr.
 Paternae P. Verginius Rhodion lib. Nomine
 Suo et Metiliae Terlulianae Flaminie VXORIS
 Suae et liberorum suorum Verginiorum quieti
 Paternae Restitutas et quietet
 S. P. P.

            Questa iscrizione dimostra che la chiesa era, almeno nella cerchia del coro, un tempio sacro a Giunone, il quale distrutto totalmente, od in parte, e poscia riedificato per il culto del vero Dio dai primi cristiani, fu posta tal lapide ad esser calpestata in dispregio di quella Dea favolosa, e quindi agli idoli infranti sostituita la croce, e la cattedra dei successori di Barnaba, che questo recinto consacrarono alla Regina de’ Cieli, la SS. Vergine Assunta.

 

1) I conti di Tenda, dice il Bertolotti, cominciarono a mostrarsi nella storia verso il decimo secolo. Vennero questi in più rinomanza quando la loro signoria passò nell’illustre casa dei Lascàris, conti di Ventimiglia, da cui prese il nome di Lascàris per il matrimonio del conte Roberto ( altri dicono Guglielmo Pietro) con Trena (altri la chiamano Eudossia) figliuola di Tedoro Lascaris, uno dei vari imperatori Greci, sorti dopo la presa di Costantinopoli fatta, dai Latini, e lo smembramento dell’impero Orientale. Intitolavansi Conti di Ventimiglia, Signori di Tenda, ed in Tenda fermarono, le stanze toro, posciacbè dai Genovesi furono cacciati dal proprio loro seggio. Questi conti variarono tre volte cognome; prima erano detti Guerra (1156) poi Balbo (1279), ed in ultimo Lascàris. Della stirpe del conti di Tenda era quella Beatrice a cui Filippo Maria Visconti diede la tortura e la morte in guiderdone delle quattordici città, retaggio di Facino Cane suo primo marito, portategli in dote nelle nozze malaugurose. Pare che la colpa di Beatrice innanzi agli occhi del disumano duca non altra fosse che lo spiacergli per essere sterile e vecchia. Non pertanto egli consegnolla alla scure come rea d’illecito amore con Orombello, un giovane sonatore di liuto. Ma la fermezza e la religiosa pietà con che Beatrice sostenne la morte, rendono fede della sua innocenza ch’ella asserì sino al suo estremo respiro.
2) Ventimiglia possiede una biblioteca pubblica, che secondo il Tiraboschi era a’ suoi tempi una delle più antiche della Liguria. Era ricca di rare edizioni e preziosi manoscritti, lasciata dal P. Aprosio che ne fu il fondatore, al Convento degli Agostiniani. Dopo la rivoluziona del 1797, soppresso da Democrati il Convènto, il governo di Genova ne tolse tosto le opere migliori e le più rare, e di diecimila volumi che conteneva rimase la parte meno importante.

 

Il P. Orengo però è d’opinione che il tempio sia stato edificato da un suo concittadino Emilio, l’anno 567 di Roma, cioè 185 prima della nascita di N.S. Gesù Cristo, e della guerra dei Romani contro dei Liguri, anno 53 circa.
          L’anno 564 di Roma, il Console L. Perciò votò un tempio a Venere Ericina, (che diede il nome a Porto Venere, e Lerici) se vinceva i Liguri. L’anno seguente gli Intemelii per opposizione dedicarono a Giunone il suddetto, e l’anno dopo (568) tra Albenga e Ventimiglia, vinsero Quinto Marzio Console romano, trucidandogli 4000 uomini.
           Sottostante alla sagrestia trovasi un tondo tempietto, nel cui mezzo s’eleva un bacino ottangolare ad uso della trina immersione, di forma identica a quello di San Giovanni di Laterano, e questo è certo un monumento rarissimo de’ primi secoli del Cristianesimo.
            L’altro cospicuo monumento più antico è la chiesa di San Michele, unico che si serbo de’ Romani edifizi. Scrisse l’Aprosio che questo tempio era consacrato a Castore e Polluce; ma ciò non dee intendersi che dell’Abside di bellissima forma e d’una parte del coro. L’arco acuto che poi succede all’arco tondo, segna un’altra età di costruzione. I muri ed il tetto sono formati di pietre riquadrate con lo scalpello. Sotto l’altar maggiore havvi una confessione ov’è una colonnetta di Antonino, fregiata di romana iscrizione, intonacata di calce da chi il merito ne ignorava. Un’altra poi presso la parte sta in piedi, ove non si legge bene che Caesar.
         A tergo della città s’eleva in bella prospettiva accigliato il Forte di San Paolo, recentemente ristorato e guarnito per difesa dallo straniero; e più sopra s’estolle un altro monte sul cui dosso torreggia Castel Appio che domina altamente e largamente all’intorno, formato di due torri in pietre quadre, opera tenuta per romana, con recinto genovese del XIII secolo. Muri deboli con merli ne circondano a guisa di steccato la rocca, lavoro con l’ampia e ben conservata cisterna ch’entro si trova di Spino da Soresino potestà di Genova.

 

La città è poco estesa, d’aspetto mediocre. Non ha che 2800 abitanti, ma colle sue molte borgate sparse per il suo vasto territorio ascende a 6800.
 La diocesi è delle più antiche; chi sia stato il primo vescovo è assai controverso, e la mancanza di notizie fa sì che non si abbia nulla di certo prima dell’anno 680. Tuttavia, secondo memorie assai probabili, si crede che san Cleto, discepolo di san Barnaba Apostolo, che fioriva nel 75, sia stato il primo suo vescovo.
           Fu in prima suffraganea dell’Arcivescovo di Milano, non ebbe mai grande estensione, essendo ristretta a sole 36 parrocchie. Nel 1802 restò con le sole 15 che aveva nel territorio del ducato di Genova. Fu staccata da Milano e sottoposta alla Metropolitana di Aix in Provenza nel 1805, dalla quale passò nel 1820 ad esser suffraganea di quella di Genova. Nel 1831 venne ampliata con bolla Pontificia, e numera ornai, compresevi 18 succursali, 70 parrocchie, che contano circa settantamila abitanti.
          Ventimiglia vanta uomini illustri, però tra i tanti i cui nomi sono vergati nel tempio dell’immortalità, mi ristringo ai seguenti: sant’Antonio Abate dal lato materno, come si rileva dal Lanteri, dal Giustiniani, dal Paganetti e singolarmente dal celebratissimo P. Teofilo Raynaldi di Sospello e dai Bollandisti. Il Cersani, l’Oliva, il Lanteri, il P. Angelico Aprosio; quest’ultimo che basta da sé solo ad onorare la città, nacque nel 1606 da una famiglia che dié alle lettere ed alla religione distinti soggetti. Scrittore insigne che sfolgorò di molta fama, compose molte opere apprezzate dai dotti, la migliore delle quali si reputa la Sferza Poetica, un Trattate di Galileo sulle macchie solari, una Memoria sulla patria di Persio, ed altre scritture in difesa del famigerato poema del Marini sotto il pseudonimo di Sapricio Saprici. Mancò ai vivi nel 1682.

 

Escursione nella valle del Roia - Segherie - Bevera - Airole - La Rocca della Piena.

LETTERA XV
 
            Desideroso di far una rapida escursione nella valle del Roia, uscivo dalla città soletto e pedestre dalla porta del Piemonte in un punto che il sole, già alto assai sul limpido orizzonte, sembrava infocare cogli ardenti suoi raggi tutta l’atmosfera. Un leggiero velo di vapore che sorgeva dalla terra e dal mare già ne annunziava ed attestava l’opera misteriosa e feconda del fermento mondiale sotto l’influenza del maggior pianeta. Rilevai gli occhi verso settentrione, ed inviai per quel grande spaccato di bizzarre montagne gli sguardi sino a quelle acute moli che superbe s’alzano nella regione dei nembi, dalle quali scaturisce il fiume Roia (Rutuba dai Latini). I dirupi per cui si fa strada fra le stagliate e spaventose balze di Saorgio, e le orride e contorte gole che si protendono sino alla Piena ed Airole, segnano in parte oggidì i confini tra il regno d’Italia e l’impero francese. Avvien però e non di rado che la dirotta pioggia ed il repentino risolverai delle nevi su per le alpi, lo gonfiano talvolta a segno che rode con un tempestoso impeto le fertili sponde estendendosi sino al mare, e ne provengono ai vicini villaggi gravissimi danni. Il disegno di frenarlo con argini fu più volte ideato, proposto, dibattuto, ma sempre invano.
           Fuori la porta della città un’antica fontana in mina che fiancheggia la strada, costrutta di pietre riquadrate che alcuni vogliono opera romana, attira lo sguardo del viaggiatore. Sottostante a questa antichità sulla riva del fiume fa bella mostra il Molino dei Fratelli Biancheri. Ivi osservai con piacere come le acque corrono ad aiutare gli operai nella fabbricazione degli olii e nelle macine da grano, ma sopra tutto notai con diletto un piccolo volume d’acque metter in moto le macine, i vagli, gli stacci, innalzar il grano al suo arrivo fino alla sommità dell’edifizio, poscia ricalarlo trasformato, indi rimesso al basso sui carri, insaccato in farina.

 

Sulle due opposte sponde s’ergono altri edifìzi di seghe con Borre di pedali accatastati sulle rive del fiume. Questi legni pedagnuoli son qui trasportati dalle montagne dei Comuni di Tenda, Briga e Saorgio. Ed ecco come si fa il taglio ed il trasporto. Gli alberi stanno su erte cime o in profondi valloni, donde non v’è strada per condurli. Il bracciante recide la pianta, ne rimonda il pedale, i pedali si accatastano sulle rive nel letto del torrente che dappertutto è formato dagli scoli alpestri, e che secco il più del tempo, a volte diviene pieno e rigoglioso. Quando le pioggie o il gelo l’abbiano rigonfiato, il torrente solleva que’ legni, e li trascina seco a valle, dove trovasi poi o un lago o un fiume più grosso, entro il quale sono raccolti. Ed è uno spettacolo veder migliaia e migliaia di ceppi d’alberi portati dal piano fiume, sotto la direzione d’una truppa di borrellai, che con rampi e forche li smuovono, li avviano, e li disuniscono, li spingono, li distrigano dagli scogli. Ma non pertanto tale condotta anticipata, veggono non di rado i fusti insieme dispersi per il mare, agitato dal vento e dal mareggio che v’inducono le furiose onde del fiume.
          Queste borre sì bene accatastate, il cadimento delle acque che danno il moto impresso alle macchine, il girar delle ruote, il tempestar dei magli, ed il continuo rumor delle seghe accordano il loro fragore a quello delle acque cadenti. Il rapido moto, la veduta dei lavori e dei lavoranti conferiscono al paese un aspetto brioso, allegro, vivace.
          Bevera dista quattro miglia dalla città ed è questo un meschino villaggio: i suoi abitanti sono frequentemente colpiti da febbri intermittenti. Il torrente che da questa terricciuola riceve il nome, ivi si congiunge ad ingrossare il Roia, e da que’ molti avvolgimenti scorre libero e vagabondo sopra una superficie che ha poca declività.

 

 

Al viaggiatore che da Bevera s’inoltra per Airole, Piena e Saorgio, le gole in cui entra, annunciano ch’egli prende a salire
 «Per balze e per pendici orride e strane».

           Da Bevera ad Airole vi sono sette miglia: questo paese che contiene 1200 abitanti sorge in una conca formata dal rallargamento di due bracci di monti che corrono lungo la valle, e sì forte si rappressano al di sopra e al di sotto, che l’improvviso aspetto di questa piccola terra all’uscire da malinconiche gole, reca nell’animo di chi vi entra un insperato senso di gioia. I monti che cingono la chiostra non sono lontani: ha un solo sbocco, a mezzo l’orizzonte è ristrettissimo. Nondimeno la ricca vegetazione delle pendici, e le varie e vaghe lor piegature, ne rendono i contomi piacenti allo sguardo.
          Un uomo assennato fu guida de’ miei passi. Esso tra via mi raccontava la travagliosa vita che menano i poveri abitanti «L’infaticabile solerzia, mi diceva, si da a divedere nelle conquiste ch’essi riescono a fare sopra un’avversa e quasi inesorabil natura. Il contadino sul ripido pendio delle rocce con indefessa opera innalza terrapieni, l’un sopra l’altro, sostenuti da muri a secco quasi in uguale distanza. Lo scoglio rotto dal piccone o dalle mine, somministra le pietre per il muro, ove circolare, ove rettilineo a seconda del luogo. Fra le sommità d’un muro ed il piede dell’altro, il riparo più o meno largo vien coperto di terra vegetale trovata tra gl’interstizi dello scoglio, ed accumulata coi frantumi di esso. Questi sterrati con tant’arte e fatica costrutti cangiano in orizzontali i piani inclinati, ad imitazion della natura, che mai non fa crescere perpendicolarmente le piante».
          Due botanici che ivi trovai
1 al vedere le rupi foggiate di fondo in cima ad anfiteatro con tante alzate di terra una sull’ altra, sorrette da muri continui, e visti questi terrapieni coronati di rigogliosi ulivi, d’allegre viti e di fichi, non si rimanevano dall’ammirare la perizia e l’industria dei contadini che in tal maniera coltivando i fianchi de’ monti, riparano alla scarsezza della pianura quasi tutta occupata nelle valli del sassoso letto del fiume.

 

 

Proseguendo la mia gita per le pendici d’alti e discoscesi monti arrivai alla Piena (Penna). Il silenzio che ivi regna non vien turbato che dal suono d’alcuni fili d’acqua, che da laterali balzi si gettano dentro al fiume. Il giogo ove sorge il villaggio pare innalzato con bell’artifizio per disgiungere due scene diverse, e adduce maraviglia nel viandante coi prospetti che inaspettatamente egli mira.
            La sua rocca, celebre nella storia, perché servì quasi d’antemurale a Ventimiglia, ora è in ruina. Ivi osservai le posizioni che nel 1671 prese il capitano Baldat quando fu mandato da Sandamiano con una grossa schiera e accompagnamento d’artiglieria ad investire il Forte. Ma non potendo questi impadronirsene mise tosto a ferro e fuoco le campagne, devastando ed ardendo barbaramente ville e campi, ed anche due Chiese in poca distanza attinenti alla terra.
          Trovandosi prossimo alla piazza gli riuscì di far prigionieri due figliuoli ancora di tenera età del capitano Girolamo Gastaldi, che vi stava dentro. Non riuscendo con questi atti barbari che usava, a ridurre il nemico a sua volontà, ne aggiunse un altro più barbaro di tutti. Mandò a dire al Gastaldi, che se non s’arrendeva, avrebbe fatto impiccare i suoi due figliuoli: e fece piantar le forche in faccia alla terra. Il misero padre mirava dall’alto delle mura lo strazio che s’apprestava. Ma il dolore non superò il dovere: stette intrepido al miserando spettacolo. «Per me, disse, al tutto son risoluto; già ho dedicato il mio sangue alla patria, ora volentieri ancora dedico quello de’ miei figli». Così dicendo s’infierì, e mandò palle al nemico. Baldat, vista la minaccia vana, si rimase dall’orrenda opera e conservò la prole a colui che più di lei amava la patria.
            Ritornai in Airole, e per la via vagando i miei sguardi nelle alpestri gole de’ monti e nelle aspre vie che mettono in quelli alti villaggi, alle funeste memorie che in me destarono quelle guerre italiane in cui Francesi, Spagnoli, Liguri, Piemontesi ed Austriaci insanguinarono quegli ermi e quieti recessi, esclamai col Petrarca:
 «Ah ! null’altro che pianto al mondo dura».
            Sfornito di lena, sostai in Airole. Poche ore di riposo ed un piatto di squisite trote pescate nel sottostante Roia, un’insalata alla cappuccina con un panierino di purpuree fragole, inghirlandato di fiammeggianti ciliegie e vino prelibato di quel suolo mi ridonarono la forza e l’ardire.

 

Festa della Società degli Operai - Latte - Pesca delle acciughe - Il Ponte di san Luigi -
                                             Limite del Regno d’Italia -
Mentone.

LETTERA XVI
 
           Era la Domenica quando avevo divisato movere per Mentone: in quel bei mattino gli operai della città unitamente ad altre società di Sanremo, Taggia e Porto Maurizio appositamente invitate, si trovarono tutti raunati fuori la porta di Nizza. Scoccate appena le ore 9, le quattro società rallegrate da scelta banda, s’incamminavano difilate alla Chiesa, cattedrale ad assistere alla Santa Messa e soddisfare al precetto della Chiesa, ed implorar lumi da Colui che ispira la sapienza agli artisti. Venne poscia il banchetto. La mensa era imbandita sulla piazza di san Michele, e riparata da tende inghirlandate di fiori. Centoventi commensali sedevano a desco.
 «Sazio de’ cibi il natural desio».
 si fecero brindisi. La letizia traluceva da tutti i sembianti, e la manifestazione della gioia comune mostrava che gli applausi erano cordiali. Lo scotto di ciascun commensale di rado oltrepassa tre lire. I vini prelibati di queste amene colline che recano l’allegrezza, e che essi tracannano a gran tazza, non li conducono a trasgredire le regole di Monsignor della Casa: onde non mai avvengono violente altercazioni, o risse, o colpi che rammentino le cene de’ Traci abbominate da Orazio:
 Natis in usum laetitiae scyphis
 Pugnare Tracum est. Tollite barbarum
 Morem, verecumdumque Bacchum
 Sanguineis prohibete rixis.
              Il dì seguente allo spuntar del sole le rupi colorate in oro ed in viola, velavano i sommi gioghi di Gramondo e della Turbia. Il mare sottoposto giaceva tranquillo. Un’auretta, impregnata d’odori, errava per la campagna tutta verdeggiante.

 

In un quarto d’ora arrivai nel piccolo seno di Latte, vaga e ferace pianura che rende immagine d’una sola e dilettuosa cedraia, ove Bacco e Pomona spargono a piene mani i doni più rari, e Lieo, largitor di letizia, da bella mercede ai cultori della pianta a lui sacra. Questo luogo infatti, che è un aggregato di case gentilizie dei signori Ventimigliesi, 1 è assai celebre per la famiglia numerosa degli aranci, per il sapore e la generosità de’ suoi vini, per la squisitezza de’ suoi fichi, e per l’eccellenza delle sue pesche.
            Giulia Procilla, saggia madre d’Agricola, aveva infatti in questo luogo la sua villeggiatura, ove venne a passare l’autunnale stagione. Agricola aveva per padre Grecino d’origine provenzale, cioè di Frejus, e Giulia sua moglie par che fosse di Ventimiglia. Tacito, scrittore della sua vita, dice che la flotta d’Ottone (anno di Cristo 69) scorrendo il mar ligustico a maniera di pirati, messe a terra le ciurme, devastò il territorio di Ventimiglia, e specialmente le ville e gli averi di Procilla, e dopo aver soddisfatto all’avidità, uccise lei medesima che soggiornava nella campagna sua propria. Nam Classis Othoniana, licenter vaga dum Intemelium est hostiliter populuta, Matrem Agricolae in prediis suis interfecit. Tacit. lib. II.
           Alla distanza di più d’un miglio dal lido numerai trenta battelli ivi raunati per la pesca delle acciughe. Questa pesca succede sempre in primavera od al principio della state, in notte oscura, e viene agevolata dall’uso dei fuochi che si accendono in mare con tronchi di pini, i quali diffondono una luce vivissima e chiara.
           Mentre le acciughe si avvicinano a que’ centri di luce, i pescatori le circondano chetamente; quindi estinto il fuoco, battono le onde, e quei poveri pesciolini spaventati, tentando di fuggire, incappano nelle reti.

 

1) Fra le case patrizie ed eleganti che ivi sorgono primeggiano il palazzo Vescovile, quello del marchese Orengo, due dei signori Biancheri, Baccini, Fenocchio e Grandis, i quali, chi più chi meno, somministrano quel sollazzo cotanto desiato dai cultori d’un vivere incivilito ed elegante

 

A ponente di Latte s’innalza una montagna che declina a tuffarsi nel mare, e sul declivio vi è lietamente collocato un villaggio, al cui piede serpeggia la strada nazionale che mena al ponte di San Luigi, costrutto dai Francesi. Questo ponte è così descritto dal Bertolotti «Un piccolo torrente, cascante in mezzo a rocce strane, isolato e pendente, un abisso di 80 metri d’altezza, un solo arco di 22 metri, fatto di bellissime pietre riquadrate è il ponte che con erculeo lavoro congiunge la strada». A pochi metri si oltrepassa il limite del regno d’Italia coll’Impero della Francia, in un luogo detto Garavano, distante dugento passi da Mentone. È quivi stabilito l’ufizio della Dogana di confine.
            Mentone, circondato da ridenti colline vivificate di cedri, d’ulivi e di mille piante esotiche, presenta un vago e leggiadro aspetto. La città è divisa in due parti assai distinte, cioè in vecchia e nuova. La prima addossata al colle ha conservato quella apparenza propria a tutte le altre città della riviera esposta alle incursioni dei Saraceni, i quali vi ebbero infatti dominio sullo scorcio dell’ottavo secolo; posizione montuosa, porte fortificate, straducciuole strette e tortuose, spesso legate una con l’altra con arcate praticabili. La principale che l’attraversa dicesi a Carriera, ed in essa trovasi la casa edificata da Onorio II, e più in alto gli avanzi del castello di Giovanni II, fondato sopra murature che devono risalire per lo meno al tempo dei Vento. I ruderi pittoreschi di questo castello coronano l’estrema vetta.
           La seconda è più comoda e pulita, fiancheggiata da ricchi edifizi, ma senza particolare carattere, e consiste poco più che in una larga strada, stesa lungo la marina. La validissima muraglia che la sostiene sopra il mare è opera francese, e ferma gli sguardi del passeggero, ed è fama che costasse 800,000 franchi.
           La città come l’altro vicino villaggio di Roccabruna appartenevano per l’addietro al Principe di Monaco, a cui si potrebbero applicare quei versi del Giusti ove dice;
 « Che avendo a trono un guscio di Castagna,
 Come se fosse il conte di Culagna,
 Fra i Re s‘imbranca».
1
  

 

A Mentone il cielo è clementissimo, eleganti sono i suoi fabbricati, occupati dall’autunno fino alla primavera da famiglie Inglesi, Polacche e Russe, che accorrono a questo lido, non mai sazi d’ammirarne il clima temperato, l’azzurro cielo, i dolci splendori del sole, le mille gradazioni del verde, i variatissimi colori delle foglie in procinto di cadere, e tante altre naturali vaghezze del lido, ove l’autunno ancor ride e festeggia.
          I dintorni sono zeppi di grandi alberi d’ulivo, e di boschi di limoni, i quali ne’ mesi di primavera spandono a due miglia di distanza l’odorosa fragranza de’ loro fiori. Gli abitanti ascendono a 5000, usano cortesi maniere coi forestieri, ed havvene dei doviziosi pei traffichi che spediscono olio fino, e quantità di limoni in casse per Marsiglia, Parigi, e per il Nord. La lingua francese vi è comune al pari del dialetto natio, che è un Genovese assai corrotto. Le contadine portano un cappello di paglia tondo, acuto in cima, di forma Chinese. La città è ornata d’una bellissima Chiesa parrocchiale a tre navate con belle colonne di pietra.
          Usciva non ha guari in Mentone un giornale Le bon Climat, ed in un numero che mi capitò alle mani vidi i melanconici e bizzarri indigeni del Nord che qui vengono a ricrearsi e a ristorare bene spesso la loro malferma salute. In quel periodico lessi una lunga nota di Tedeschi, d’Americani, d’Inglesi, di Polinesi, di Russi, di Svedesi e di Svizzeri, che riempivano coi loro titoli la metà del foglio. Fra costoro vi notai letterati, scienziati, politici, romanzieri
2 ed artisti, i quali tutti concordano nel lodare l’aria sanissima, la bontà e copia delle acque, l’ottima qualità e la varietà dei cibi, la fiorente salute dei cittadini, la rarità delle epidemie, vantaggi tutti tenuti a pregio, e che allettano altri a recarsi e deliziarsi in questo amenissimo soggiorno, ove la convenevolezza de’ costumi, la piacevolezza del tratto, la leggiadria delle maniere adornano ed allegrano le brigate signorili, ed anche le adunanze de’ cittadini.

 

1) Narrasi che il Principe un di fece dire ad uno straniero d’uscire, tempo 24 ore, dai suoi Stati: «è troppo cortese sua Altezza, rispose lo straniero, mi bastano tre quarti d’ora per varcare i suoi confini».
 2) Un romanziere francese, sig. Mery, scrisse che l’Italia è un Ospedale. Questo nuovo oltraggio alla patria nostra eccitò la giusta indignazione d’un valente poeta toscano che gli rispose nel modo che segue:

 

Un francioso animale
 Ha detto che l’Italia è un Ospedale;
 Povera Italia mia ! Deh ! ti consola,
 Che in così trista sorte
 Almen non fosti sola;
 Poiché da un pezzo in qua mi sembra infatti
 Anche la Francia un Ospedal di Matti.

 

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